Tassazione della cessione di opere d'arte: il prestito dell'opera per l'esposizione nei musei non configura atto di valorizzazione a fini commerciali

Mario Giannotta
27 Agosto 2019

Con la sentenza n. 59 depositata lo scorso 11 giugno 2019, la Commissione di secondo grado di Trento ha escluso che i prestiti effettuati da un collezionista proprietario di un'opera d'arte a favore di enti museali possano configurare atti tesi all'incremento di valore dell'opera stessa e così integrare l'esercizio di quell'attività commerciale anche non abituale in presenza della quale il legislatore assoggetta a imposta il ricavo tratto dalla cessione dell'opera.
Massima

I prestiti effettuati da un collezionista proprietario di un'opera d'arte a favore di enti museali è escluso che possano configurare atti tesi all'incremento di valore dell'opera stessa e così integrare l'esercizio di quell'attività commerciale anche non abituale in presenza della quale il legislatore assoggetta a imposta il ricavo tratto dalla cessione dell'opera.

La Commissione di secondo grado di Trento ha ritenuto di condividere il principio ermeneutico espresso dalla Corte di Cassazione*, secondo cui perché possa riscontrarsi nell'attività posta in essere dal contribuente una fonte di reddito tassabile ai sensi dell'art. 67, comma 1, lett. i), occorre che siano in essa riscontrabili una “pluralità di atti coordinati e diretti alla realizzazione del medesimo scopo” oppure una “serie di atti intermedi volti ad incrementare il valore del bene in funzione della successiva vendita”, non potendosi ritenere tale requisito integrato dal mero atto di vendita.

Cass. Civ., sez. V, 20.10.2011, n. 21776
La norma fiscale (…) fa espresso riferimento alla nozione di "attività" qualificata dal carattere commerciale: ciò, da un lato, consente di escludere quelle condotte che si esauriscono nel semplice atto traslativo del diritto a titolo oneroso, atteso che la predetta nozione implica necessariamente una pluralità di atti coordinati e diretti alla realizzazione del medesimo scopo che può trovare riscontro nel caso in cui si accerti la stretta relazione funzionale – verificata in base a concreti elementi circostanziali tra l'atto di acquisto a quello successivo di vendita, ovvero anche nel compimento di una serie di atti intermedi volti ad incrementare il valore del bene funzione della successiva vendita (ed in relazione a tali presupposti bene può configurarsi, contrariamente a quanto assume l'Agenzia delle Entrate, il carattere speculativo della operazione, rimanendo evidentemente estraneo a tale accertamento ogni riferimento ad imperscrutabili moventi psicologici del contribuente); dall'altro impedisce di assoggettare alla imposta sui redditi qualsiasi "atto" produttivo di incremento di ricchezza (come nella specie, singoli atti di compravendita) ove lo stesso non sia riconducibile ad esercizio – sia pure non abituale – di "attività" commerciale…”.
Il caso

La vicenda portata all'esame del Collegio trentino di appello concerneva la legittimità della pretesa erariale di considerare reddito diverso, imponibile ai sensi dell'art. 67, comma 1, lett.i), TUIR, l'importo che il contribuente, un collezionista “puro”* di opere d'arte, aveva ritratto dalla cessione di un importante dipinto, avvenuta all'estero.

*In evidenza
Si suole distinguere il collezionista “puro” come quell'appassionato che è spinto a possedere l'opera da fini preminentemente egoistici e con carattere di permanenza; peculiarità, queste, che permettono di considerare gli eventuali atti di acquisto e di vendita come atti ispirati da fini non speculativi ma di miglioramento e di arricchimento della collezione stessa.

Le questioni

Infatti, secondo la parte pubblica, il fatto che il contribuente si fosse affidato per la vendita a un intermediario professionista, che egli stesso fosse collezionista e quindi necessariamente conoscitore del mercato dell'arte, che l'importo ritratto fosse di particolare rilevanza economica, che l'opera fosse stata esposta in primarie mostre organizzate da varie istituzioni museali nel mondo, unitamente al riscontro che lo stesso collezionista aveva proceduto, negli anni, alla cessione di un'altra opera della sua collezione e all'acquisto di varie altre opere d'arte, integravano quell'attività commerciale non abituale che la fattispecie normativa citata elegge a presupposto dell'imponibilità del reddito ricavato dalla cessione.

Dal canto suo, la Commissione giudicante ha valorizzato ulteriori circostanze, quali il fatto che l'acquisto dell'opera fosse avvenuta 20 anni prima, che la cessione fosse stata disposta dal collezionista in veneranda età e per riscontrate ragioni di anticipazione successoria, che le plurime esposizioni in mostre non potessero configurare atti di valorizzazione e, per tale via, rivelare un intento speculativo.

Le soluzioni giuridiche

Di particolare interesse e, a quanto consta, senza precedenti in termini è la riflessione che il Collegio trentino elabora sull'assimilabilità delle esposizioni in mostre (esposizione cui il collezionista assentiva mediante operazioni di prestito gratuito) a quell'attività di valorizzazione dell'opera che, secondo la parte pubblica, rivelerebbe un intento non meramente dismissivo ma speculativo e perciò commerciale.

Obietta la sentenza che le opere di artisti affermati, specie quelle risalenti nel tempo, non si valorizzano con l'ostensione ma per effetto del loro contenuto artistico intrinseco e per l'importanza artistica che viene loro riconosciuta dalla collettività.

Si tratta di una interpretazione pienamente condivisibile, non soltanto perché più aderente alla realtà del mercato delle opere d'arte dei grandi autori, ma anche perché maggiormente rispettosa dei principi, anche di rango costituzionale, che regolano la materia.

L'equazione “esposizione in musei/mostre = valorizzazione commerciale”, proposta dalla parte pubblica, oltre che destituita di fondamento tecnico e giuridico si rivelerebbe, infatti, dannosa.

La decisione di esporre un dipinto di un artista famoso in una o più mostre organizzate da enti museali non può essere considerata in alcun caso come un'attività di accrescimento del valore, perché vi ostano ragione oggettive e soggettive.

Tra quelle oggettive, ve ne sono di evidenti anche ai non esperti in materia: le opere di artisti del calibro di Picasso, Mirò, De Chirico, etc., non si valorizzano con la maggiore o minore esposizione nelle mostre.

Il maggiore o minore valore di un'opera d'arte è legata al maggiore o minor apprezzamento che l'artista ha avuto nel tempo, anche tenuto conto del periodo storico-artistico che esso rappresenta, nonché del periodo “artistico” di cui i suoi quadri sono espressione; apprezzamento che, per artisti importanti, non è funzione della maggiore o minore esposizione in una mostra.

L'equazione proposta dalla parte pubblica, peraltro, si pone in pericolosa contraddizione con i principi costituzionali e con le norme ordinarie che, nel nostro ordinamento, promuovono la cultura attraverso la diffusione e la conoscenza del patrimonio artistico (di questo principio è cardine l'art. 9 della Costituzione, laddove prescrive che "la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione". L'idea che il bene culturale debba essere oggetto di “fruizione” pubblica è rafforzata poi dall'art. 33 della Costituzione in cui si stabilisce che “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”. Il carattere pubblico della fruizione e del godimento del bene culturale è, peraltro, frutto di un ideale illuministico, proprio dell'epoca dalla quale la tutela non è più intesa come pura conservazione ma come strumento di crescita culturale).

In aderenza ai principi costituzionali richiamati, si ricorda l'art. 6 del D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) – rubricato “Valorizzazione del patrimonio culturale” – che al terzo comma recita: “La Repubblica favorisce e sostiene la partecipazione dei soggetti privati, singoli o associati, alla valorizzazione del patrimonio culturale”.

Tra le norme che promuovono la partecipazione dei privati nella “valorizzazione” del patrimonio culturale ricordiamo anche l'art.1 del D.L. 31.5.2014, n. 83, "Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo", convertito con modificazioni in Legge n. 106 del 29/07/2014 mediante il quale è stato introdotto un credito d'imposta per le erogazioni liberali in denaro a sostegno della cultura e dello spettacolo (c.d. Artbonus).

Sul concetto di “valorizzazione” la stessa Amministrazione finanziaria, con la Risoluzione n. 249/E del 17 giugno 2008, ha chiarito come in essa rientrino anche “l'organizzazione di mostre e di esposizioni”. Tuttavia, l'equazione riproposta nel contenzioso dalla parte pubblica a fini impositivi finisce per attribuirle un significato del tutto opposto e contrastante con quello voluto dal legislatore e dalla stessa Amministrazione finanziaria.

Il concetto di valorizzazione dell'opera d'arte contenuto nell'ordinamento e quindi oggetto di tutela da parte del legislatore non è, infatti, sinonimo di ‘sfruttamento o accrescimento economico a fini commerciali' ma fa riferimento a tutte quelle attività utili ad apprestare i mezzi necessari a consentire e/o migliorare la possibilità di accesso conoscitivo al bene stesso, così da agevolare la partecipazione e la diffusione del messaggio artistico, del valore culturale dello stesso bene.

Osservazioni

Ora, è chiaro che se questa spontanea e gratuita attività promozionale venisse ‘riletta' o ‘reinterpretata' come atto speculativo e di sfruttamento commerciale teso all'aumento del valore in caso di cessione dell'opera (rilettura che, come detto, non trova conforto in dati di mercato), ciò deprimerebbe la disponibilità dei collezionisti che, tramite il prestito gratuito delle opere a eventi culturali in Italia e all'estero, di fatto consentono al grande pubblico proprio la fruizione di una parte del patrimonio d'arte, altrimenti non fruibile.

L'effetto negativo che conseguirebbe nell'avallare un'interpretazione di questo tipo è che i collezionisti, che detengono nelle proprie collezioni parte delle bellezze che gli artisti hanno creato, non le concederebbero più volentieri per le esposizioni onde evitare di essere confusi con dei commercianti d'arte.

Se dovesse passare l'interpretazione che l'esposizione di un dipinto equivale ad un atto commerciale e strumentale all'accrescimento del valore economico del dipinto nell'ottica di una futura vendita, si deprimerebbe la ratio di tutte quelle norme che incentivano la diffusione della cultura e del messaggio artistico. E ciò, per fini esclusivamente impositivi che, sebbene anch'essi di rango assolutamente primario, dovrebbero essere perseguiti con una normativa fiscale più precisa e specifica in merito alle plusvalenze derivanti dalla cessione di beni artistici, antichità, gioielli, etc.

Discorso diverso, ma di delimitazione tutt'altro che agevole, potrebbe farsi per le opere di artisti “emergenti” o sconosciuti, specie qualora l'attività di esposizione sia effettuata in eventi promozionali appositamente organizzati e/o ricorrendo a pubblicazioni su canali mediatici.

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