Nessun demansionamento con la sola modifica quantitativa delle mansioni

Gianluca Natalucci
31 Ottobre 2019

Non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, che invece implica una sottrazione di mansioni tale – per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale – da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni
Massima

Non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, che invece implica una sottrazione di mansioni tale – per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale – da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un conseguente impoverimento della sua professionalità.

Il caso

A seguito di una modifica organizzativa aziendale, un lavoratore perde il ruolo di caposquadra che ricopriva in precedenza. Il ricorrente chiede di essere reintegrato nelle mansioni di caposquadra, nonché il risarcimento del danno derivatogli dal demansionamento e dal mobbing subiti.

Il ricorrente aveva presentato il ricorso sia al Tribunale di Spoleto sia, successivamente, alla Corte di appello di Perugia, ottenendo in entrambi i casi giudizio sfavorevole. Si rivolge, pertanto, alla Corte di cassazione, adducendo, tra i vari motivi, che la Corte territoriale di cui sopra era incorsa nella violazione dell'art. 2103, c.c., e, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di appello, che nel ricorso erano state indicate le mansioni svolte prima del demansionamento denunciato, trovando, però, anche la Suprema Corte concorde alle precedenti pronunce.

La Cassazione rigettava così il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio e del contributo unificato.

La questione

La questione in esame è la seguente: la facoltà del datore di lavoro di modificare nel corso del rapporto le mansioni attribuite al dipendente al momento dell'assunzione, se si può parlare di demansionamento al venir meno di compiti di coordinamento e su chi grava l'onere della prova, ove il lavoratore denunci un demansionamento per violazione dell'art. 2103, c.c., da parte del datore di lavoro.

Le soluzioni giuridiche

L'articolo 2103, c.c., stabilisce che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito.

La giurisprudenza in passato con riferimento all'art. 2103,c.c. (quindi ante modifiche apportate dal d.lgs. n. 81 del 2015) ha affermato che nella comparazione delle mansioni non è sufficiente ancorarsi in astratto al livello di categoria ma occorrerà accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali (Cass. 9 marzo 2004, n. 4773) ed a condizione che risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare ed anzi di arricchire il patrimonio professionale acquisito in una prospettiva dinamica di valorizzazione del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze.

Esaminando, la sentenza in commento la Cassazione chiarisce che, qualora il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento, è il datore di lavoro che deve fornire la prova della mancanza in concreto del demansionamento.

Per gli ermellini il giudice di appello non aveva ravvisato una differenza qualitativa, ma solo quantitativa, delle mansioni in precedenza svolte, essendo inoltre l'attività di coordinamento di assoluta marginalità, eventuale e riferita a una struttura estremamente semplice, alla quale apparteneva un solo operaio, che non era comunque al ricorrente gerarchicamente sottordinato.

La conclusione della Cassazione risulta, pertanto, conforme alle svariate precedenti pronunce giurisprudenziali, ribadendo gli stessi principi in passato enunciati. Tanto per citarne alcune, Cass. n. 10284 del 2000 e Cass. n. 6856 del 2001, di cui la prima richiamata dalla sentenza in esame, affermavano, infatti, la necessaria riduzione qualitativa delle mansioni affidate al lavoratore, affinché si possa parlare di una dequalificazione professionale, non rilevando la semplice riduzione quantitativa.

Ancora, non ogni modificazione “quantitativa” delle mansioni affidate al lavoratore è sufficiente ad integrare l'ipotesi del demansionamento, dovendo farsi riferimento all'incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto (cfr., tra le altre, Cass. 31 maggio 2010, n. 13281; Cass. 5 maggio 2004, n. 8489; Cass. 11 giugno 2003, n. 9408, rispetto alle quali viene in considerazione anche la collocazione del lavoratore nell'ambito aziendale (Cass. 11 luglio 2005, n. 14496; Trib. Milano 25 marzo 2002).

La sentenza in oggetto richiamava, infine, Cass. 29 ottobre 2004, n. 20989 e Cass. 27 febbraio 2008, n. 5112.

Si evidenzia, altresì, che quando si tratta di strategie aziendali, al datore è concesso di procedere a un vero e proprio demansionamento del lavoratore ogniqualvolta ciò sia reso necessario da una «modifica degli assetti organizzativi aziendali» (o che questa possibilità sia prevista dalla contrattazione collettiva). La sentenza del Tribunale di Bergamo, del 12 gennaio 2017, ha confermato l'assoluta legittimità della scelta datoriale di «attribuire al lavoratore funzioni che appartengano allo stesso livello di inquadramento delle precedenti», senza che sia più necessario «valutarne in concreto il contenuto professionale e/o l'aderenza alle specifiche competenze già acquisite».

In merito alla possibilità di ravvisare la sussistenza di lesioni alla personalità o a beni immateriali rientranti nella sfera della personalità del lavoratore e tutelati costituzionalmente, si cita Cass. 9 luglio 2018, n. 17976. Con tale pronuncia la Cassazione ha negato in maniera perentoria che questa risarcibilità sia ravvisabile di per sé. Infatti, il danno al lavoratore non può considerarsi in re ipsa, ossia valutato in maniera automatica e in astratto. Colui che intenda far valere eventuali lesioni dovute al demansionamento operato unilateralmente dal datore di lavoro non può limitarsi a richiamare l'inadempimento contrattuale del titolare, ma ha l'onere di fornirne una idonea dimostrazione e di allegare in modo specifico «la natura e le caratteristiche del pregiudizio» subito.

Osservazioni

Si segnala l'importanza dell'analisi della struttura organizzativa aziendale, ante e post ristrutturazione. Nell'assetto precedente alla modifica vi erano più squadre composte da un solo operaio le quali, per effetto della modifica organizzativa, venivano accorpate e, pertanto, data l'ampia responsabilità affidata al nuovo ruolo, la scelta del caposquadra era stata affidata a una selezione interna del personale.

Il giudice di secondo grado, al pari del primo giudice, accertava che il ruolo di caposquadra, ricoperto dal lavoratore precedentemente alla modifica organizzativa, rappresentava attività puramente marginale ed eventuale, venendo pertanto a mancare il requisito della riduzione di tipo qualitativo richiesto per la determinazione di un demansionamento.

Per evitare probabili contenziosi, il datore di lavoro è dunque chiamato ad assicurarsi che la variazione di mansioni messa in atto sia tendenzialmente compatibile con le caratteristiche del lavoratore e non eccessivamente pregnante, posto che, pur gravando l'onere della prova del danno sul dipendente, questi può comunque fare ricorso a presunzioni (anche semplici). Questa possibilità è pacificamente ammessa dalla giurisprudenza (cfr, le sentenze della Cass. n. 13484 del 2018 e Cass. n. 22288 del 2017). Anche sotto questo profilo, tuttavia, l'eventuale valutazione, seppure presuntiva, del giudice, deve basarsi su fatti e rilievi quanto più specifici e rilevanti, dovendosi escludere che sia «sufficiente il semplice richiamo di categorie generali».

Alla luce di quanto esposto, la sentenza della Suprema Corte in commento risulta certamente in linea con le precedenti pronunce giurisprudenziali, confermando l'orientamento maggioritario che vi è anche in dottrina.

Pertanto, per un corretto accertamento del demansionamento, occorre, in primo luogo, verificare che nel giudizio sia accertato il mantenimento, in capo al lavoratore, della professionalità già acquisita con riferimento alla possibilità di impiego utile delle competenze e della concreta opportunità di accrescimento delle stesse.

Minimi riferimenti bibliografici

- Aldo Garlatti, Benedetta Nefri, Licenziamento, agenzia, demansionamento, appalto, previdenza, Giuffrè, 2008;

- Riccardo Del Punta, Diritto del Lavoro, Giuffrè, 2019.

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