Distrazione di somme aziendali e reato di appropriazione indebita: la Cassazione mette alcuni paletti

23 Maggio 2019

Non integra il reato di appropriazione indebita, ma una mera condotta di distrazione non rilevante ai sensi dell'art. 646 c.p., non rappresentando una violazione di tale previsione il compimento, da parte dell'amministratore di una società di capitali, di atti di disposizione patrimoniale comunque idonei a soddisfare anche indirettamente l'interesse sociale, e non un interesse esclusivamente personale del disponente.
Massima

Non integra il reato di appropriazione indebita, ma una mera condotta di distrazione non rilevante ai sensi dell'art. 646 c.p., non rappresentando una violazione di tale previsione il compimento, da parte dell'amministratore di una società di capitali, di atti di disposizione patrimoniale comunque idonei a soddisfare anche indirettamente l'interesse sociale, e non un interesse esclusivamente personale del disponente.

Non integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell'amministratore di una società che dispone in bilancio accantonamenti a titolo di compenso, ancora non determinato, nel suo ammontare, per l'attività svolta in tale qualità, in quanto l'atto compiuto non è volto al conseguimento di un ingiusto profitto o di un vantaggio che si ponga come "danno patrimoniale" cagionato alla società, bensì ad assicurare il soddisfacimento di un diritto soggettivo perfetto.

Il caso

L'amministratore di una società di capitali era condannato in sede di merito per il delitto di appropriazione indebita di somme di pertinenza della società da lui gestita. In particolare, il delitto di appropriazione indebita riguardava l'impossessamento di somme costituenti canoni di locazione spettanti alla società gestita dall'imputato, che questi - nella qualità di amministratore unico - aveva fatto versare dai debitori sul proprio conto corrente personale, anziché su quello della società amministrata.

In sede di ricorso per cassazione, la difesa censurava in primo luogo la configurabilità del delitto in parola in relazione alle somme trattenute dall'imputato a titolo di compenso per l'attività svolta quale amministratore della società asseritamente depauperata. Secondo la difesa, tale compenso il compenso era stato deliberato dall'assemblea ed era stato attribuito anche a chi era subentrato nella medesima carica gestione, la quale doveva essere ritenuta ex lege onerosa perché riconducibile al mandato ex art. 1720 c.c., essendo irrilevante la circostanza che il compenso nel caso di specie non fosse stato ancora determinato nel suo importo.

In relazione ad altre somme di cui l'imputato si sarebbe asseritamente illecitamente impossessato, si sosteneva nel ricorso che l'imputato aveva dato piena prova documentale sia dei versamenti effettuati dai debitori della società sul suo conto corrente, sia dei pagamenti effettuati, operando su quel conto, nell'interesse della società. Si evidenziava altresì che tali operazioni erano temporalmente coincidenti, e risalivano ad epoca in cui la società era stata oggetto di diverse procedure esecutive, sicché il versamento sui conti sociali delle somme dovute dai debitori, in quel frangente di esposizione debitoria, avrebbe impedito di effettuare i necessari pagamenti mentre, quanto alla riferibilità dei pagamenti a debiti societari trattavasi di circostanza non contestata.

In sostanza, si affermava che il ricorrente non aveva posto in essere alcuna condotta di ritenzione o distrazione, avendo anzi agito nell'esclusivo interesse della società ed era dunque da escludere anche qualsiasi suo intento di spogliare la società.

La questione

Il tema della qualificazione giuridica di condotte di “gestione anomala” da parte dell'amministratore di una società di somme o beni di pertinenza della stessa non è nuovo ed è stato affrontato più volte dalla giurisprudenza.

Ovviamente, nessun dubbio circa la rilevanza penale di tali comportamenti sussiste qualora l'impresa depauperata venga dichiarata fallita, giacché in tale ipotesi sussiste il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione.

Se invece non vi una dichiarazione di fallimento, da parte di alcuni si sostiene che nel caso di specie ricorra la fattispecie di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c. (MEZZETTI, L'infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 193; MILITELLO, Gli abusi nel patrimonio di società controllate e le relazioni fra appropriazione e distrazione, ivi, 1991, 266; SCOPINATO, Infedeltà patrimoniale, in SCHIANO DI PEPE, Diritto penale delle società, II ed., Milano 2003, 283), non potendosi ricondurre i comportamenti distrattivi tenuti dagli amministratori di società nell'alveo della previsione di cui all'art. 646 c.p. (con riferimento all'ipotesi di utilizzo del patrimonio sociale per finalità diverse da quelle alle quali lo stesso era destinato ed in particolare in relazione alla costituzione di fondi extra-bilancio ed all'erogazione degli stessi in favore di pubblici ufficiali o di partiti politici o di organo di stampa o di società controllate, con un indiretto vantaggio per la società controllante: FOFFANI, Infedeltà patrimoniale e conflitto si interessi nella gestione di impresa, Milano 1997, 578; IACOVIELLO, La responsabilità degli amministratori nella formazione di fondi occulti, in Cass. Pen., 1995, 3561; PEDRAZZI, Sui limiti dell'appropriazione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1997, 1444; CANTONE, Formazione di riserve occulte da parte dell'impresa destinate all'illecito finanziamento dei partiti politici. Profili di rilevanza penale, in Cass. Pen., 1997, 278; MILITELLO, Aspetti penalistici dell'abusiva gestione nei gruppi societari: fra appropriazione indebita ed infedeltà patrimoniale, in Foro It., 1989, II, 421).

A fronte di tali considerazioni, tuttavia, la giurisprudenza replica nel senso che “integra il delitto di appropriazione indebita aggravato dall'abuso delle relazioni di ufficio la condotta dell'amministratore, socio unico di una società a responsabilità limitata, che si appropri di denaro della società stessa distraendolo dallo scopo cui è destinato” (Cass., sez. II, 14 novembre 2013, Biondo, in Mass. Uff., n. 257646. In precedenza, nello stesso senso, Cass., sez. II, 4 aprile 1997, Bussei, in Cass. Pen., 1998, 440; Cass., sez. V, 9 luglio 1992, Boyer, ivi, 1993, 1985), con la precisazione che non può essere qualificata distrattiva, e tantomeno appropriativa, “un'erogazione di denaro che, pur compiuta in violazione delle norme organizzative della società, risponda ad un interesse riconducibile anche indirettamente all'oggetto sociale … per cui né il versamento dei fondi extra-bilancio su conti non formalmente riconducibili alla società, né la destinazione di tali fondi al perseguimento con mezzi illeciti degli interessi sociali, ad esempio con le erogazioni di finanziamenti illegali a partiti politici o a giornalisti, integrano gli estremi dell'appropriazione indebita” (Cass., sez. II, 23 giugno 1989, Bernabei, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1991, 266; Cass., sez. V, 21 gennaio 1998, Cusani, in Foro It., 1998, II, 517. In dottrina, in senso favorevole a quest'ultimo orientamento, LA SPINA, Questioni in tema di abusi patrimoniali degli amministratori di società (in occasione della pronuncia definitiva sulle responsabilità penali di Sergio Cusani), in Foro It., 1998, II, 517; MONARI, Utilizzo di somme extrabilancio ed appropriazione indebita, in Cass. Pen., 1998, 3101).

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato accolto dalla Cassazione, in quanto la giustificazione resa dall'imputato in ordine alla sua condotta ed alla sua gestione del denaro di spettanza della persona giuridica da lui amministrata non presentava rilievo penale.

Quanto ad un primo profilo, inerente al deposito sul conto corrente dell'imputato di somme di pertinenza dell'azienda, la difesa aveva dimostrato - con un riscontro documentale, basato sulle risultanze delle operazioni effettuate dal proprio conto corrente - di aver fatto versare somme destinate all'impresa collettiva sul proprio conto corrente allo scopo di evitare che la liquidità sul conto della persona giuridica fosse esposta alle plurime procedure esecutive che in quel periodo erano state intraprese in danno della società e di aver utilizzato le somme versate dai debitori sociali per estinguere una pluralità di esposizioni debitorie. Tale condotta, per giurisprudenza pressoché pacifica, «non integra il reato di appropriazione indebita, ma una mera condotta di distrazione non rilevante ai sensi dell'art. 646 c.p., [non rappresentando una violazione di tale previsione] il compimento, da parte dell'amministratore di una società di capitali, di atti di disposizione patrimoniale comunque idonei a soddisfare anche indirettamente l'interesse sociale, e non un interesse esclusivamente personale del disponente» (Cass., sez. II, 3 luglio 2015, n. 30942, Costantin, in Mass. Uff., n. 264555).

In relazione al secondo profilo dell'accusa, inerente le somme trattenute dall'imputato a titolo di compenso per l'attività di amministratore, i giudici di merito avevano senz'altro affermato la configurabilità del reato, sottolineando che - in assenza di una delibera assembleare e di una conseguente autorizzazione all'incasso - l'amministratore doveva ritenersi titolare di una mera aspettativa creditoria. Questa conclusione però è in contrasto con le conclusioni raggiunte sul punto dalla giurisprudenza, che in più occasioni ha affermato che «non integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell'amministratore di una società che dispone in bilancio accantonamenti a titolo di compenso, ancora non determinato, nel suo ammontare, per l'attività svolta in tale qualità, in quanto l'atto compiuto non è volto al conseguimento di un ingiusto profitto o di un vantaggio che si ponga come "danno patrimoniale" cagionato alla società, bensì ad assicurare il soddisfacimento di un diritto soggettivo perfetto» (Cass., sez. II, 22 maggio 2014, n. 36030 Fusiello, Mass. Uff., n. 260846). Secondo la Cassazione, alla luce di queste affermazioni va riguardata anche l'ipotesi considerata nelle sentenza di merito in cui si era in presenza – non di una appostazione in bilancio di una somma a titolo di compenso – ma di un trattenimento, per la stessa ragione, di somme ricevute da debitori della società: anche quest'ultima condotta, infatti, deve necessariamente essere supportata, per potersi configurare il delitto di cui all'art. 646 c.p., dal dolo specifico di conseguire «un ingiusto profitto o di un vantaggio che si ponga come "danno patrimoniale" cagionato alla società», profilo su cui la sentenza impugnata non si era soffermata e che perciò è stata annullata dai giudici di legittimità con rinvio al giudice di merito per una nuova valutazione delle risultanze processuali in ordine all'effettivo impiego delle somme confluite nel conto personale dell'imputato e alla configurabilità dell'elemento soggettivo del reato a lui ascritto anche quanto alla parte trattenuta a titolo di compenso per l'attività svolta quale amministratore della società.

Conclusioni

La sentenza della Cassazione si presenta sostanzialmente conforme all'orientamento decisamente maggioritario della giurisprudenza, anche se presenta alcuni profili di novità nella parte in cui assume un approccio “benevolente” nei confronti dell'amministratore che autonomamente si ripaghi di propri crediti nei confronti dell'impresa da lui amministrata.

Leggendo la decisione in commento, infatti, sembra che secondo la Cassazione quando l'amministratore opera dei prelievi dai conti correnti aziendali per ottenere il pagamento del proprio compenso non si sarebbe in presenza di un illecito o quanto meno non si assisterebbe ad una violazione del dettato di cui all'art. 646 c.p., giacchè tale atto è volto al conseguimento di un ingiusto profitto o di un vantaggio che si ponga come "danno patrimoniale" cagionato alla società, bensì ad assicurare il soddisfacimento di un diritto soggettivo perfetto. Orbene, tale conclusione è in radicale contrasto con quanto assume la giurisprudenza con riferimento al medesimo comportamento nell'ambito del diritto penale fallimentare.

Va ricordato infatti come, secondo la Cassazione, la condotta dell'amministratore che, in pendenza di una crisi dell'azienda, si ripaghi di crediti da lui vantati verso la società, assume senz'altro una rilevanza penale. In alcune decisioni, tale ipotesi viene qualificata come bancarotta fraudolenta patrimoniale, non potendosi scindere la sua qualifica di creditore da quella di amministratore, come tale vincolato alla società dall'obbligo di fedeltà e da quello della tutela degli interessi sociali nei confronti dei terzi (Cass., sez. V, 8 aprile 2019, n. 15280; Cass., sez. V, 29 ottobre 2018, n. 49506), mentre in altre ipotesi si richiama il delitto meno grave di bancarotta preferenziale (Cass., sez. V, 3 dicembre 2015, n. 48017).

In particolare, si sostiene che commette il reato di bancarotta per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale il socio amministratore di una società di capitali che preleva dalle casse sociali somme asseritamente corrispondenti a crediti da lui vantati per il lavoro prestato nell'interesse della società, senza (come accaduto nel caso di specie) l'indicazione di dati ed elementi di confronto che ne consentano un'adeguata valutazione, quali, ad esempio, gli impegni orari osservati, gli emolumenti riconosciuti a precedenti amministratori o a quelli di società del medesimo settore, i risultati raggiunti (Cass., sez. V, 9 ottobre 2018, n. 45296) e recentemente la Cassazione ha escluso il credito costituito dal compenso in favore dell'amministratore per l'attività lavorativa prestata nella società da quelli individuati all'art. 2751 c.c. come assistiti da un privilegio generale sui beni propri, affermando che il rapporto che lega l'amministratore, cui è affidata la gestione sociale, alla società è un rapporto di immedesimazione organica, che non può essere qualificato né di lavoro subordinato, né di collaborazione continuata.

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