Par condicio creditorumFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 499
29 Gennaio 2020
Com'e noto, oggetto del rapporto obbligatorio è la prestazione, ovvero un agere in senso lato del debitore volto alla soddisfazione dell'interesse del creditore. Laddove questi, però, non avesse una garanzia di soddisfazione del proprio credito, il fondamento del rapporto obbligatorio verrebbe vanificato e il diritto di credito risulterebbe perciò privato del suo valore. Da qui la necessità di garantire la pretesa creditoria nella fase patologica del rapporto obbligatorio. Questa è la garanzia patrimoniale c.d. generica, ovvero la coercibilità di ogni vincolo obbligatorio, che si può dire si dirami in due componenti: da un lato, la responsabilità patrimoniale del debitore, di cui all'art. 2740 c.c., dall'altro, la previsione di un meccanismo di esecuzione forzata, di cui al 2910 c.c., che consenta al creditore di veder soddisfatto il proprio credito laddove il debitore si mostri inadempiente. Chiaramente, la responsabilità del debitore, primo presupposto della garanzia, non può che essere di natura patrimoniale. La scelta di individuare una sostanza della responsabilità in senso stretto personale, infatti, alla stregua della legis actio per manu iniectionem, oltre che degradante e sproporzionata, risulterebbe contraria ai principi ispiratori dell'ordinamento. Quindi, le responsabilità, ovvero la patrimoniale o oggettiva, che costituisce l'obbligo per il debitore di rispondere delle obbligazioni da lui contratte con tutti i suoi beni presenti e futuri, unitamente a quella soggettiva, da identificare nell'imputabilità dell'inadempimento, concorrono a realizzare la tutela del diritto di credito. Tramite l'art. 2740, il codice civile attribuisce al patrimonio del debitore una specifica funzione normativa, quella della destinazione prioritaria dell'attivo del patrimonio al soddisfacimento del passivo, ovvero dei titolari dei crediti ad esso corrispondenti. Alcuni hanno sostenuto che il credito sia un bene giuridico nella misura in cui è garantito dai beni del debitore, in quanto si ha debito quando vi è responsabilità e, conseguenzialmente, si ha credito quando vi è garanzia patrimoniale. In questo senso, il diritto di credito, che a sua volta costituisce parte dell'attivo del creditore, può essere definito come bene di secondo grado, in quanto dipendente dall'entità del patrimonio del debitore. Infatti, come suddetto, senza garanzia del patrimonio facente capo al debitore, il diritto di credito perderebbe il suo valore. Invero, quando il passivo supera l'attivo e la massa di debiti è superiore al valore del patrimonio del debitore, non solo l'intero patrimonio risulta soltanto formalmente appartenente al suo titolare, in quanto in realtà destinato a soddisfare la massa creditoria, ma appare anche incapiente. È questa l'ipotesi in cui il diritto di credito presenta un valore reale inferiore a quello nominale. Chiarita l'importanza della previsione di un sistema che garantisca la soddisfazione del credito e la responsabilizzazione patrimoniale del debitore, è opportuno soffermarsi sull'attuazione della garanzia rinviata dal 2910 c.c. al codice di rito e sulla fisiologica ipotesi di concorso di più crediti su un medesimo patrimonio, sia nel caso del debitore civile che dell'imprenditore commerciale; si passerà, dunque, ad esaminare la disciplina dell'intervento dei creditori nel processo d'esecuzione e all'analisi dei risvolti giurisprudenziali in materia. L'attuazione della garanzia e l'ipotesi del concorso creditorio: il principio della par condicio e le sue attenuazioni
Mentre il fisiologico funzionamento della garanzia patrimoniale prevede una disciplina unitaria applicabile al patrimonio in quanto tale, indipendentemente dal suo titolare, le sue disfunzioni e, dunque, il suo aspetto patologico sono trattati diversamente a seconda della destinazione del patrimonio stesso. Infatti, nel caso di patrimonio destinato all'attività d'impresa si attiverà, in fase di crisi, la disciplina speciale relativa all'esecuzione forzata collettiva. Il codice di rito, invece, prende in considerazione l'ipotesi dell'esecuzione individuale volta al soddisfacimento dell'interesse del singolo creditore che attiva il processo esecutivo. Si tratta di una procedura, com'è noto, che, oltre ad essere soggettivamente singolare, risulta anche oggettivamente tale, in quanto volta alla liquidazione non dell'intero patrimonio, ma dei singoli beni oggetto di pignoramento. Infatti, per quanto la legge disponga che il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, la reale sottoposizione dell'intero patrimonio è solo potenziale. È chiaro che, sebbene il potere di aggressione del creditore possa teoricamente investire tutti i beni del patrimonio del debitore, in concreto il creditore potrà sottoporre a pignoramento soltanto i beni corrispondenti al valore del proprio credito; costui, infatti, ex art. 2910 c.c., deve limitare l'espropriazione a quanto gli è dovuto. Invero, qualora il g.e. accertasse che il valore dei beni pignorati è superiore a quello del credito per la cui soddisfazione si procede, ex art. 496 c.p.c., può disporre la riduzione del pignoramento. A tal proposito, ancora, la legge si preoccupa di assicurare la costante separazione dei singoli beni sottoposti all'esecuzione, e quindi destinati alla liquidazione nell'interesse del singolo creditore, dal resto del patrimonio del debitore. È questa la funzione dell'inefficacia relativa delle alienazioni solo dei beni oggetto d'esecuzione nei confronti del creditore procedente, successivamente al pignoramento ex art. 2913 c.c., nonché, in una certa misura delineata dall'art. 2914 c.c., anche delle alienazioni anteriori. Tuttavia, nonostante la prospettiva individualista dell'esecuzione, proprio in virtù del meccanismo della responsabilità e dunque della destinazione del patrimonio alla soddisfazione generale delle obbligazioni, non di rado accade che sullo stesso elemento attivo possano essere vantate più pretese da parte di diversi creditori. In questo modo viene a delinearsi l'ipotesi di concorso di più creditori sul medesimo ricavato della vendita coattiva del medesimo bene, o quella del concorso di più azioni esecutive, da parte di più creditori, sullo stesso patrimonio. È chiaro che, laddove quest'ultimo dovesse risultare insufficiente a soddisfare integralmente tutti i crediti, il concorso viene a tramutarsi in un vero e proprio conflitto. A risolverlo interviene il principio della par condicio creditorum, di cui all'art. 2741 c.c. sulla cui base i creditori, nell'avere pari diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, dovrebbero poter rendere concreto il loro interesse senza riserve o attraverso l'intervento all'interno dell'esecuzione già instaurata o tramite l'apertura di una nuova procedura. Si tratta, dunque, di un principio ispirato alla parità di trattamento e sviluppato in coerenza con il meccanismo della garanzia generica, concepita dal legislatore come comune e simultanea. Invero, soltanto di rado accade che i creditori vengano trattati allo stesso modo. Già lo stesso art. 2741 c.c. prevede la prima grande limitazione del principio, dando spazio all'ipotesi delle cause legittime di prelazione. Queste costituiscono la garanzia cd specifica che, nella sua funzione di rafforzamento della tutela del credito, si esplica innanzitutto nelle figure tipiche di cui all'art. 2741 comma 2 c.c., ovvero nel privilegio, pegno ed ipoteca. Rinviando a più ampia trattazione, sarà utile in questa sede limitarsi ad evidenziare che i creditori in possesso di una delle cause legittime di prelazione si trovano nella condizione di porre in essere un'azione esecutiva rafforzata dalla presenza della garanzia reale che le conferisce quella che potrebbe definirsi una maggiore intensità. Giova ricordare che l'ordinamento, peraltro, riconosce altre ipotesi di prelazione del credito oltre quelle tipiche, che pur non trattandosi propriamente di garanzie reali, nel rispetto del principio del numerus clausus, hanno fonte legale. Tra queste possono essere ricondotti gli istituti in tema di eredità di cui agli artt. 490, 499, 512 e 530 c.c. La seconda e più interessante ipotesi sul piano pratico di attenuazione del principio si sostanzia nella natura stessa dell'esecuzione individuale così come riformata. Attenuazione potenziale perché l'applicazione del principio dipende dall'impulso individuale di ciascun creditore nell'attivazione della procedura mediante un nuovo pignoramento o, come accade più frequentemente, mediante l'intervento nel processo già instaurato. Come anticipato, per quanto il processo esecutivo sia concepito come individuale, tra il singolo creditore procedente e il debitore esecutando, vi è la possibilità che altri creditori abbiano un interesse nei confronti dello stesso patrimonio. Occorre a tal riguardo premettere che il creditore pignorante non risulta preferito né rispetto a coloro che, in virtù della par condicio, possono sottoporre lo stesso bene già staggito a nuovo pignoramento ex art. 493 c.p.c., né a quelli che possono intervenire nel processo dal procedente avviato. Per poter comprendere l'impatto innovativo sul principio di par condicio creditorum apportato dalla riforma del 2005 in tema d'intervento, è necessario analizzare l'originario testo normativo, in primis avendo riguardo alle condizioni soggettive d'intervento. L'originario art. 499 c.p.c. prevedeva genericamente che potessero intervenire nella procedura espropriativa tutti i creditori ancorché non muniti di titolo esecutivo, essendo a tal fine sufficiente la mera deduzione del credito. In questo modo, il combinato disposto degli artt. 498 e 499 co 1 c.p.c. tentava di dare ampia attuazione al principio di cui all'art. 2741 c.c. Pertanto, i creditori intervenuti avevano tutti diritto a partecipare alla distribuzione della somma ricavata al pari del creditore procedente, sempre se intervenuti tempestivamente, o, in caso contrario, se titolari di un diritto di prelazione di natura sostanziale; inoltre, nel rispetto delle disposizioni legate al tipo del singolo procedimento esecutivo, avevano la possibilità di partecipare all'espropriazione del bene pignorato e di dare impulso ai singoli atti, a seconda dell'esistenza o meno di un titolo esecutivo posto a fondamento dell'intervento. Come è evidente, già prima della riforma, il codice di rito riconosceva una profonda diversità tra i poteri degli intervenuti muniti di titolo esecutivo e quelli dei creditori senza titolo. Invero, in riferimento all'esecuzione forzata per le obbligazioni pecuniarie, la disciplina distingueva l'azione esecutiva espropriativa da quella esecutiva satisfattiva. La prima, per l'appunto, consistente nella possibilità di dare impulso all'espropriazione, spettava al creditore procedente e a quelli intervenuti muniti di titolo esecutivo. La satisfattiva, invece, consisteva nel già noto diritto di partecipazione alla distribuzione della somma ricavata della vendita forzata e spettava a tutti i creditori indistintamente. Di qui la possibilità, già prevista dall'originario art. 512 c.p.c., della contestazione di qualunque credito nel caso di controversia sorta tra i creditori concorrenti, tra creditore e debitore o terzo assoggettato all'espropriazione. Una seconda distinzione operata dal sistema originario e mantenuta dal legislatore del 2005 riguardava gli interventi tempestivi e tardivi. Ora come allora, i chirografari intervenuti tempestivamente, si soddisfano sul ricavato della vendita coattiva al pari del creditore procedente, i tardivi sul residuo. In questo senso il nostro sistema si differenzia Pfändungspfandrecht tedesco, per cui i creditori vengono soddisfatti in ordine al tempo del proprio intervento. Dunque, in linea di massima il processo esecutivo disconosce che la causa di prelazione abbia genesi procedimentale. Invero, è opportuno anticipare, a tal proposito, che l'unica forma di prelazione processuale riconosciuta dal codice di rito è deducibile dal combinato disposto dei nuovi artt. 492 comma 6 e 499 comma 4 c.p.c. Qualora a seguito dell'intervento di altri creditori il compendio pignorato sia divenuto insufficiente, infatti, il creditore pignorante ha la facoltà di notificare agli intervenuti l'esistenza di altri beni del debitore suscettibili di pignoramento e di raccomandare loro l'estensione del pignoramento o, in ogni caso, l'anticipazione delle spese per la stessa. Se gli intervenuti non dovessero provvedere nonostante l'invito, il creditore procedente diverrebbe privilegiato. Quanto agli interventi tempestivi e tardivi, questi avevano già allora disciplina diversa a seconda del tipo di espropriazione instaurata. In particolare, per quanto riguardava l'espropriazione mobiliare, oltre a stabilire che per l'intervento fosse necessario soltanto un credito certo, liquido ed esigibile, l'art. 525 c.p.c. statuiva che l'intervento, per qualificarsi tempestivo, necessitasse di avvenire entro la prima udienza fissata per l'autorizzazione della vendita o per l'assegnazione. Nel caso della piccola espropriazione mobiliare, ove il valore non superi i 20.000 euro, entro la data di presentazione dell'istanza per la vendita. Per l'espropriazione presso terzi, invece, l'art. 551 c.p.c. prevedeva e continua a prevedere quale requisito della tempestività dell'intervento che questo avvenga non oltre la prima udienza di comparizione delle parti, ovvero quella in cui il terzo è chiamato a rendere la dichiarazione. La tempestività dell'intervento nell'espropriazione immobiliare, infine, era regolata dall'attualmente abrogato art. 563 secondo comma c.p.c. ai sensi del quale era da considerarsi tempestivo l'intervento avvenuto non oltre la prima udienza fissata per l'autorizzazione della vendita. Dunque, il dibattito interpretativo verteva sull'interpretazione del sintagma “prima udienza” e se per la definizione dello stesso, per ciascuno dei tipi di espropriazione, bisognasse tener conto o meno dei possibili rinvii posti in essere dal giudice. È dall'analisi del primo comma dell'abrogato 563 c.p.c. che si può evincere un'altra rilevante differenza originariamente esistente tra i due blocchi di procedure; da un lato, l'espropriazione mobiliare e quella presso terzi, regolata in quanto compatibili dalle norme disciplinanti l'espropriazione mobiliare e, dall'altro, quella immobiliare. Invero, come già accennato, per le prime due ai fini dell'intervento era necessaria la mera esistenza di credito certo, liquido ed esigibile. A tal proposito la giurisprudenza richiedeva per l'ammissibilità dell'intervento un titolo da cui potessero risultare con “obiettività e immediatezza” dette caratteristiche, data la necessità per il g.e. di rilevare immediatamente, al momento stesso dell'intervento, l'esistenza delle condizioni richieste per quest'ultimo. Per il subingresso all'interno dell'espropriazione immobiliare, invece, era necessario il mero credito, anche se sottoposto a termine o condizione. Ulteriore caratteristica della procedura originaria era l'assenza dell'obbligo di notifica al debitore dell'atto d'intervento il cui deposito veniva di per sé considerato evento interruttivo della prescrizione. Peraltro, la Cortecostituzionale, con la sentenza n. 407/2000, ritenne di dover rigettare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 525 c.p.c. per violazione dell'art. 24 Cost. nella parte in cui non prevedeva l'obbligo di notificazione al debitore esecutato del deposito del ricorso per intervento di un creditore non munito di titolo esecutivo, ma titolare di un credito fondato esclusivamente su scritture private della cui esistenza il debitore non fosse mai stato in precedenza informato. La Corte, in particolare, servendosi di un'interpretazione sistematica del 525 c.p.c. dedusse, in primo luogo, che la posizione dell'esecutato, essendo il processo esecutivo destinato ad assicurare la realizzazione della già accertata pretesa giuridica rappresentata dal titolo esecutivo, non può essere comparata a quella del contumace ex art. 292 c.p.c. e, in secondo luogo, che, guardando all'intero sistema del Libro III del codice di rito, si rinvengono diverse disposizioni in cui si sviluppa il contraddittorio tra le parti con garanzia per il reciproco diritto di difesa. A sostegno dell'assunto vi era la vecchia formulazione dell'art. 512 c.p.c. Infatti, se in sede di distribuzione del ricavato fosse sorta una controversia tra i creditori concorrenti o tra creditore e debitore o terzo assoggettato all'espropriazione, si apriva una parentesi a cognizione piena, un vero e proprio giudizio tale da imporre al giudice dell'esecuzione l'istruzione della causa solo se competente; diversamente, il giudice avrebbe dovuto rimettere le parti davanti ad altro giudice ex art. 17 c.p.c. e fissare un termine perentorio per la riassunzione. Conseguenza dell'apertura del procedimento cognitivo era, chiaramente, la sospensione dell'esecuzione del tutto o limitatamente alla distribuzione della somma ricavata contestata. Quanto all'oggetto del procedimento alcuni ritenevano che fosse da identificare in un vero e proprio accertamento dell'esistenza e dell'ammontare del credito azionato; per la dottrina maggioritaria, tuttavia, il giudizio avrebbe avuto ad oggetto il progetto di distribuzione del ricavato della vendita. La questione non era di poco conto portando alla luce la possibilità di un concorso tra la contestazione ai sensi dell'art. 512 c.p.c. e l'opposizione all'esecuzione di cui all'art. 615 c.p.c. Dovendo devolvere la controversia al giudice di cognizione, infatti, anche il caso di contestazione in sede di distribuzione, aprendosi un processo a tutti gli effetti a cognizione piena, d'accordo con coloro che lo identificavano in un giudizio di accertamento positivo, avrebbe portato ad un'effettiva decisione circa l'esistenza o l'inesistenza del credito contestato. Il giudizio di merito era a tutti gli effetti estraneo al processo esecutivo, comportando la sospensione dello stesso e l'applicazione delle ordinarie regole sulla competenza; esso si concludeva, infatti, con una sentenza assoggettabile ad appello del pari all'opposizione all'esecuzione in cui la contestazione del diritto del creditore avviene sulla base dell'inesistenza del credito azionato. La questione era risolta a favore della contestazione ex art. 512 c.p.c., nel caso di controversia avente ad oggetto un credito privo di titolo esecutivo, e a favore dell'opposizione di cui all'art. 615 c.p.c. nelle ipotesi del credito vantato dal creditore procedente o comunque fondato su un titolo esecutivo. Anche quest'aspetto, quindi, lasciava intendere la necessità di un intervento legislativo.
Come si evince dalla pagine che precedono, il legislatore del 1940 aveva compiuto un significativo passo in avanti rispetto al codice del 1865, che metteva soltanto il creditore procedente nella condizione di espropriare e consentiva il subingresso di altri creditori soltanto nella fase conclusiva del procedimento, ovvero quella della distribuzione; sennonché, la difficoltà riscontrata nella prassi di accertare l'esistenza dei crediti vantati dai creditori privi di titolo esecutivo, foriera di numerose controversie all'interno delle procedure esecutive, ha spinto il legislatore del 2005 a compiere un passo indietro. Il legislatore del 2005 non ha modificato la disciplina del cd. intervento cd. provocato, ovvero l'ipotesi d'intervento dei creditori vantanti sul bene pignorato un diritto di prelazione risultante dai pubblici registri. Infatti, l'art. 498 c.p.c. rappresenta lo specchio processuale del secondo comma del 2741 c.c., concretizzando la sostanziale limitazione della par condicio. La norma, quindi, prevede che i creditori titolari di ipoteca e diritti reali di godimento, nonché i creditori assistiti da un privilegio speciale sui beni pignorati ricevano un avviso, notificato a cura del creditore pignorante, entro cinque giorni dal pignoramento. Per ciò che concerne il termine dei cinque giorni, alcuni riconoscono ad esso una natura perentoria, altri ritengono invece che questo non determini decadenze ma imponga al giudice, salvo intervento spontaneo del creditore, di non provvedere in ordine all'assegnazione e alla vendita. Nel caso di mancanza dell'avviso, infatti, mentre parte della dottrina si pronuncia a favore dell'improcedibilità della vendita o dell'assegnazione con la conseguente sospensione degli effetti dell'istanza, la quale resterebbe comunque perfetta e conserverebbe la capacità di incidere sul termine previsto dall'art. 497, altri restano a favore della disposizione di vendita e assegnazione, salvo l'obbligo di risarcimento dei creditori iscritti per i danni da questi patiti ex art. 2043 del c.c. Infatti, l'avviso ai creditori iscritti permette agli stessi di soddisfarsi nell'ambito del processo azionato. È stata invece totalmente modificata la disciplina relativa alle condizioni d'intervento di cui all'art. 499 c.p.c. Attualmente, infatti, l'art. 499 c.p.c. circoscrive la possibilità di intervento ai soli creditori muniti di titolo esecutivo. Prima facie può affermarsi che limitare l'attuazione processuale del concorso ai soli creditori in possesso di titolo esecutivo o in particolari condizioni significava manipolare il principio di pari trattamento. Sennonché, pare assai più convincente l'affermazione secondo cui un processo “a porte chiuse”, riservato quindi ai creditori muniti di titolo esecutivo, non sarebbe stata di per sé in conflitto con la regola dell'art. 2741 c.c., perché la parità di trattamento affermata in sede sostanziale dovrebbe essere assicurata dal legislatore processuale soltanto a parità di condizioni, in quanto sarebbe ragionevole, in virtù degli artt. 3 e 24 Cost., differenziare il trattamento dei creditori a seconda del possesso del titolo esecutivo (Capponi, Manuale di diritto dell'esecuzione civile, Torino, 2017, 72-73). In proposito, è stata ribadita la tesi che le deroghe al principio contenuto nell'art. 2741 c.c., non per nulla collocato nel codice civile, debbono operare sul piano sostanziale (ex ante), non sul piano processuale (ex post) «mediante l'esclusione dal concorso di questo o di quel credito», ma si è altresì riconosciuto che la garanzia del concorso paritario «non deve tradursi nell'immortalità della procedura esecutiva»(Tarzia, Par aut dispar condicio creditorum?, in Riv. dir. proc., 2005, 5). Dunque, il principio della par condicio creditorum non è un principio assoluto, bensì una regola solo tendenziale. Al legislatore processuale non è impedito di modificarlo con riferimento alle particolari esigenze prese in considerazione con il limite del rispetto del principio costituzionale di eguaglianza. Se ciò è vero allora non è ravvisabile alcun ostacolo di livello costituzionale per la sua limitazione, nulla imponendo i principi di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost. di «concedere ad un creditore privo di titolo esecutivo tutela direttamente in sede esecutiva attraverso l'intervento nell'espropriazione da altri iniziata, e cioè di concedergli (quella che la dottrina definisce) l'azione satisfattiva», ben potendo il creditore sfornito di titolo procurarselo in sede cognitiva o stragiudizialmente (Acone, Intervento dei creditori, in AA.VV., Il processo civile di riforma in riforma, Milano, 2006, 66-67). Si consideri, peraltro, che la restrizione del concorso ai soli creditori cum titulo permette di sollevare finalmente l'organo esecutivo da surrettizi compiti di accertamento, di ridurre il rischio di liquidare in eccesso per soddisfare crediti che in seguito si fossero rivelati inesistenti e, più in generale, di accorciare la durata media delle procedure di espropriazione forzata. Invero, l'art. 499 c.p.c. permette l'intervento anche ad alcuni creditori non muniti di titolo esecutivo, purché essi siano in possesso di particolari requisiti. Si tratta dei creditori che al momento del pignoramento avevano sottoposto a sequestro conservativo i beni pignorati, il che si spiega nei fumus boni iuris e periculum in mora giustificativi del provvedimento cautelare, procedendo, poi, con i creditori prelati risultanti dai pubblici registri, la ratio della cui previsione è da riscontrarsi nell'effetto purgativo della vendita forzata, ovvero nella liberazione del bene dai vincoli cui è assoggettato. Infine, la norma menziona la facoltà d'intervento per un unico tipo di creditori chirografari, ovvero i titolari di un credito consistente in una somma di denaro risultante dalle scritture contabili autenticate. In dottrina si è dubitato della legittimità costituzionale della norma nella parte in cui attribuisce la legittimazione ad intervenire in capo ai creditori il cui diritto risulta dalle scritture contabili di cui all'art. 2214 c.c., garantendo loro un trattamento preferenziale ingiustificato, attraverso una scelta irrazionale (Oriani, L'intervento dei creditori nell'esecuzione forzata, in Scritti in onore di Acone, Napoli 2010, 1417), che deroga senza plausibili ragioni al principio della par condicio creditorum. La scelta di un regime più favorevole per i crediti risultanti dalle scritture contabili di cui all'art. 2214 c.c. è apparsa del resto immotivata anche sul piano probatorio, atteso che l'estratto autentico notarile richiesto dall'art. 499 a sostegno dell'intervento non possiede affatto un'efficacia probatoria maggiore rispetto ad altre scritture private non autenticate (Pilloni, Accertamento e attuazione del credito nell'esecuzione forzata, Torino, 2011, 124). Tuttavia, la Corte costituzionale, con sentenza 6 luglio 2011, n. 202, in Corr. giur., 2011, 1154, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 499, comma 1, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non riconosce la possibilità di intervenire nell'esecuzione, in assenza di titolo esecutivo, sequestro, pegno o diritto di prelazione risultante da pubblici registri, a soggetti diversi dagli imprenditori e sulla base di documenti che non siano le scritture di cui all'art. 2214 c.c. La Consulta, in motivazione, ha altresì ravvisato nella specie una ragione di manifesta infondatezza della questione prospettata dal giudice rimettente, rinvenibile nel tentativo di ottenere, in contrasto con principi più volte affermati dalla stessa Corte, una pronuncia additiva tesa ad estendere ad ipotesi differenti una disposizione, quale quella censurata, avente carattere eccezionale, perché derogatoria rispetto al canone della par condicio creditorum, senza che ricorresse piena identità di funzione tra le discipline poste a raffronto. Invero, la nuova formulazione dell'art. 499 c.p.c., in uno all'abrogazione dell'art. 563 c.p.c., assoggetti le varie forme di espropriazione ad un'unica disciplina generale di cui agli artt. 499 e 500 c.p.c. Resta, però, ferma la differenza tra i creditori muniti di titolo esecutivo e coloro che ne sono privi; stando alla sopravvivenza degli artt. 500 e 629 c.p.c., infatti, la distinzione resta delineata. Tuttavia, la necessità, come si vedrà, di munirsi di titolo esecutivo anche per i creditori intervenuti in assenza dello stesso per partecipare alla distribuzione del ricavato, fa sì che la differenza sfumi notevolmente. Bisogna pertanto concludere che non sembra contrario al principio del paritario trattamento dei creditori limitare l'intervento solo a coloro che sono muniti di titolo esecutivo, in quanto ciò corrisponde ad un'evidente esigenza di effettività della tutela esecutiva e consente di affrancare il processo esecutivo da parentesi cognitive; inoltre, non è contrario al principio del paritario trattamento dei creditori, se si riflette che a tutti, a parità di condizioni, viene concessa la tutela esecutiva. Invero, l'art. 499 c.p.c. prevede l'obbligo, per i creditori intervenienti non muniti di titolo esecutivo, di notificare al debitore il ricorso che dà vita all'intervento entro dieci giorni dal deposito dello stesso. Dunque, viene meno l'effetto interruttivo della prescrizione originariamente riconosciuto al mero deposito, quale domanda proposta nel corso di giudizio ai sensi dell'art. 2943 comma 2, c.c.; perciò, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte Costituzionale succitata, il legislatore ha ritenuto necessario anticipare il rispetto del contraddittorio tale da generare una sorta di parentesi sommariamente cognitiva del processo esecutivo, costituita dalla successiva udienza fissata dal g.e. Infatti, ai sensi del sesto comma dell'art. 499 c.p.c., il g.e., con l'ordinanza con cui è disposta la vendita forzata, fissa un'udienza di comparizione dinanzi a sé del debitore e dei creditori intervenuti sprovvisti di titolo esecutivo. In questo frangente, al debitore spetta il riconoscimento dei crediti; se costui non comparisse, si intenderebbero riconosciuti tutti i crediti alla base degli interventi privi di titolo. Laddove compaia, invece, il debitore è tenuto a dichiarare quali crediti e in che misura intende riconoscere. Nel caso di riconoscimento, il creditore, per quanto chirografario, avrà diritto a partecipare alla distribuzione del ricavato. Qualora, invece, il debitore disconoscesse il credito, questo verrebbe accantonato dal giudice, ex art. 510 c.p.c., per il termine massimo di tre anni, termine entro il quale il creditore è obbligato a munirsi di titolo esecutivo al fine di partecipare alla fase satisfattiva della procedura. Laddove questi non dovesse ottemperare all'obbligo, verrebbe definitivamente escluso dal riparto. Riguardo al riconoscimento, deve ritenersi, ai sensi dell'art. 512 c.p.c., che il debitore non possa più ritrattare la propria posizione e che il creditore abbia diritto di soddisfarsi sul ricavato ex 510 c.p.c. Invero, la riformulazione dell'art. 512 c.p.c., nel sancire la competenza esclusiva del giudice dell'esecuzione in ordine alle controversie sorte in sede di distribuzione, sembra dare ragione a quella dottrina maggioritaria a favore dell'individuazione dell'oggetto della contestazione nell'accertamento negativo del progetto di distribuzione. Il giudice dell'esecuzione, infatti, sentite le parti e compiuti i necessari accertamenti, decide con ordinanza impugnabile attraverso l'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. Questo pone anche fine al dibattito circa il possibile concorso tra la contestazione ex art. 512 c.p.c. e l'opposizione all'esecuzione, in quanto il controllo circa la sussistenza e l'ammontare del credito su cui nasce la controversia in sede di distribuzione avrà rilevanza meramente endoesecutiva. Come la giurisprudenza ha più volte sottolineato, la novella ha ridisegnato la struttura dell'opposizione distributiva riconoscendole due fasi. Infatti, la prima, destinata a concludersi con ordinanza e la cui competenza spetta al giudice dell'esecuzione, come tutti gli altri accertamenti posti in essere durante il processo esecutivo, ha una natura soltanto sommariamente cognitiva. «Si allude, quindi, ad un'attività accertativa chiaramente di natura lato sensu cognitiva, cioè diretta ad acquisire gli elementi per la soluzione della controversia» (Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2016, n. 10752); di qui il suo valore circoscritto al processo esecutivo. La seconda fase ha natura eventuale e segue le forme e i termini dell'impugnazione di cui all'art. 617, comma 2 c.p.c. Nulla quaestio prima facie, invece, circa la palese differenza tra la contestazione ex art. 512 c.p.c. e la stessa opposizione agli atti esecutivi, essendo la prima un'opposizione di merito e la seconda di forma. La giurisprudenza, peraltro, ha voluto rimarcare l'importanza del supporto dato dal titolo esecutivo all'intervento con la sentenza n. 61 del 7 gennaio 2014. Infatti, quasi attribuendo un nuovo significato all'art. 493, le Sezioni Unite hanno statuito che non è solo il pignoramento di per sé a sorreggere il processo esecutivo, ma anche l'intervento titolato. In particolare la Cassazione ha affermato che: «Nel processo di esecuzione, la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall'inizio alla fine della procedura va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la continuativa sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo (sia pure dell'interventore) che giustifichi la perdurante efficacia dell'originario pignoramento. Ne consegue che, qualora, dopo l'intervento di un creditore munito di titolo, sopravviene la caducazione del titolo esecutivo comportante l'illegittimità dell'azione esecutiva intrapresa dal creditore procedente, il pignoramento, se originariamente valido, non è caducato, bensì resta quale primo atto dell'iter espropriativo riferibile anche al creditore titolato intervenuto, che anteriormente ne era partecipe accanto al creditore pignorante». E ancora: «Nel processo di esecuzione forzata, al quale partecipino più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo esecutivo del creditore procedente (sospensione, sopravvenuta inefficacia, caducazione, estinzione) non possono ostacolare la prosecuzione dell'esecuzione sull'impulso del creditore intervenuto il cui titolo abbia conservato la sua forza esecutiva. Tuttavia, occorre distinguere: a) se l'azione esecutiva si sia arrestata prima o dopo l'intervento, poiché nel primo caso, non esistendo un valido pignoramento al quale gli interventi possano ricollegarsi, il processo esecutivo è improseguibile; b) se il difetto del titolo posto a fondamento dell'azione esecutiva del creditore procedente sia originario o sopravvenuto, posto che solo il primo impedisce che l'azione esecutiva prosegua anche da parte degli interventori titolati, mentre il secondo consente l'estensione in loro favore di tutti gli atti compiuti finché il titolo del creditore procedente ha conservato validità». È chiaro che, per potersi conservare la procedura, è necessario che l'intervento del creditore munito di titolo avvenga prima dell'arresto dell'azione esecutiva e che il difetto del titolo sia sopravvenuto Infatti, diversamente, l'intera procedura diverrebbe illegittima perché viziata ab origine. Dunque, la scelta del creditore sul se procedere con un pignoramento, ex art. 493 c.p.c., o mediante intervento viene resa scevra dal rischio della dipendenza totale di quest'ultimo dal pignoramento del creditore procedente. Le Sezioni Unite, perciò ampliano la latitudine dell'effetto indipendente ex art. 493 commi 2 e 3, c.p.c. estendendolo anche all'intervento munito di titolo. Dunque, la scelta del creditore si concretizza in una valutazione sull'originaria legittimità del titolo esecutivo appartenente al creditore pignorante. Conclusivamente, può affermarsi che il principio della par condicio non ha carattere immanente e non può trovare riparo, ai fini dell'uguaglianza formale tra i creditori, nell'art. 3 Cost. Pertanto, la recente tendenza volta a diversificare le posizioni dei creditori alterando la regola del pari trattamento non è di per sé suscettibile di censura, rientrando nella discrezionalità dello stesso legislatore quella di diversificare le opzioni normative di fronte a situazioni diverse tra loro. Invero, la scelta compiuta, se non è censurabile sul piano della legittimità costituzionale, è quantomeno irrazionale per l'attribuzione della legittimazione ad intervenire ai soli imprenditori commerciali, il cui credito risulti dalle scritture contabili di cui all'art. 2214 c.c., e non ad altre categorie, i cui crediti siano magari fondati su prova scritta di rango superiore alle stesse scritture contabili. Non può poi non procedersi ad un'ulteriore riflessione. Se è vero che il legislatore sembra aver ridisegnato l'intervento come un procedimento a porte chiuse la cui chiave è da individuarsi prevalentemente nel titolo esecutivo, è altrettanto vero che numerosi sono stati gli interventi legislativi sul 474 c.p.c. che hanno ampliato notevolmente il novero dei titoli esecutivi. Dunque, si potrebbe dire che il legislatore sia voluto intervenire sull'istituto, al punto da far pensare ad una progressiva dissolvenza della stabilità del titolo esecutivo, anche per bilanciare il vulnus operato al principio in esame, così come per la previsione del subprocedimento di ricognizione di cui al 499 c.p.c. Peraltro, se l'intento del legislatore era quello di scongiurare eccessive lungaggini processuali mediante non solo la previsione dell'elenco tassativo di interventori di cui all'art. 499 c.p.c., ma anche mediante parentesi sommariamente cognitive, la novella non è riuscita nel suo intento. Non è questa la sede per procedere alla disamina del principio della par condicio all'interno delle procedure concorsuali; basti qui ricordare come l'essenza dell'esecuzione collettiva è data dall'elisione della possibilità per il creditore dell'esperimento dell'azione individuale. L'esecuzione individuale, infatti, viene sacrificata sull'altare dell'impostazione stessa dei rapporti debito-credito che assumono una natura collettiva. Difatti, l'art. 51 l.fall. vieta espressamente l'esperimento di ogni azione individuale, sia esecutiva che cautelare, dal momento della dichiarazione del fallimento, proprio in virtù della collettività dell'interesse creditorio. È chiaro, dunque, che se nell'esecuzione individuale il conflitto viene ad esistere solo nel caso di intervento di altri creditori, che sia ex artt. 493 o 499 c.p.c., quella delle procedure concorsuali nasce come luogo di conflitto. Questa è chiaramente la ragione della definizione ad hoc da parte del legislatore di termini e condizioni di definizione e accertamento del passivo. Dunque, è ovvio che il rispetto della par condicio venga adombrato dall'esigenza di far fronte non solo al carattere concorsuale dell'esecuzione fallimentare, ma anche propriamente all'insolvenza motivo della procedura. Infatti, le regole del concorso non sempre sono del tutto coerenti con le singole posizioni soggettive vantate dai singoli creditori nei confronti del debitore. Basti pensare, a titolo esemplificativo, che l'attivo fallimentare non è destinato soltanto al soddisfacimento di quei crediti propri del fallito e ammessi al concorso, ma anche di quelli cd. di massa, ovvero realizzati successivamente alla dichiarazione di fallimento dagli organi della procedura. Si tratta dei crediti contratti per via del fallimento stesso che, a causa dell'assenza di un patrimonio proprio della procedura, non possono non soddisfarsi sull'attivo. Inoltre, vengono soddisfatti in prededuzione rispetto ai crediti concorsuali sul ricavato della liquidazione del patrimonio mobiliare ed immobiliare dell'impresa fallita. È evidente, dunque, la disapplicazione del principio della par condicio.
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