La Cassazione definisce il campo di applicazione del “contratto a tutele crescenti”

Riccardo Maraga
03 Febbraio 2020

All'indomani dell'introduzione, ad opera del Jobs Act, del nuovo “contratto a tutele crescenti” i riflettori sono stati puntati sul campo di applicazione del decreto.Infatti, nella sua formulazione originaria, il nuovo “contratto a tutele crescenti” prevedeva un evidente indebolimento delle tutele offerte al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.Tale marcata diversità di trattamento tra “vecchi” e “nuovi” assunti rendeva, senza dubbio, dirimente la determinazione del corretto ambito di applicazione del nuovo regime di tutela in caso di recesso datoriale illegittimo.La portata innovativa del nuovo “contratto a tutele crescenti” è stata, tuttavia, progressivamente affievolita..
Abstract

All'indomani dell'introduzione, ad opera del Jobs Act, del nuovo “contratto a tutele crescenti” i riflettori sono stati puntati sul campo di applicazione del decreto.

Infatti, nella sua formulazione originaria, il nuovo “contratto a tutele crescenti” prevedeva un evidente indebolimento delle tutele offerte al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.

Tale marcata diversità di trattamento tra “vecchi” e “nuovi” assunti rendeva, senza dubbio, dirimente la determinazione del corretto ambito di applicazione del nuovo regime di tutela in caso di recesso datoriale illegittimo.

La portata innovativa del nuovo “contratto a tutele crescenti” è stata, tuttavia, progressivamente affievolita dapprima dal c.d. Decreto Dignità, che ha previsto un aumento del risarcimento ottenibile dal lavoratore illegittimamente licenziato e, in maniera molto più evidente, dalla sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il criterio di calcolo, fisso e crescente, delle indennità erogabili al dipendente illegittimamente licenziato ritenendo illegittimo il mero riferimento al parametro dell'anzianità di servizio per la commisurazione dell'indennizzo.

L'applicazione del vecchio o del nuovo regime pone, dunque, oggi, minori problematiche di sostanza essendo, secondo alcuni commentatori, addirittura migliorativa la tutela offerta dal “contratto a tutele crescenti” al lavoratore illegittimamente licenziato rispetto a quella di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Resta, comunque, di fondamentale importanza chiarire quali rapporti rientrano nell'uno o nell'altro regime. In questo lavoro definitorio, che ha visto l'emersione di interpretazioni contrastanti, si segnala una recente decisione della Cassazione che chiarisce cosa debba intendersi con la locuzione “conversione” del contratto di lavoro a tempo determinato utilizzata nel decreto istitutivo del “contratto a tutele crescenti”.

Il campo di applicazione del “contratto a tutele crescenti”

La disciplina del regime sanzionatorio previsto dal nostro ordinamento in caso di licenziamento illegittimo è stata oggetto, in particolare a partire dagli albori del nuovo secolo, di una sempre maggiore attenzione nel dibattito politico ed economico.

In particolare, tra le criticità strutturali del nostro sistema economico e giuridico in grado di rallentare la crescita economica e di frenare l'afflusso di nuovi investimenti stranieri è stata, da più parti, annoverata anche la (presunta) eccessiva afflittività delle conseguenze sanzionatorie previste, per il caso di illegittimo esercizio del potere di recesso dal rapporto di lavoro, a carico del datore di lavoro.

Ecco allora che, sul banco degli imputati, è stata portata la norma simbolo della tutela del lavoratore in uscita dal rapporto di lavoro, ossia l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970, n. 300) che, nella sua formulazione originaria, precedente alle modifiche introdotte dalla Riforma Fornero (l. n. 92 del 2012), era considerato da molti fonte di una eccessiva rigidità nel rapporto di lavoro.

Giova ricordare che tale norma, prima dell'intervento modificativo del 2012, prevedeva, in tutti i casi in cui il licenziamento veniva dichiarato inefficace o nullo, oppure veniva annullato per essere stato intimato senza giusta causa o giustificato motivo, un'unica tutela per il lavoratore: la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subìto dal lavoratore, mediante il pagamento di un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non poteva essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.

Si trattava, senza dubbio, di una reazione molto forte, da parte dell'ordinamento, alle ipotesi di accertamento giudiziale della illegittimità del licenziamento.

Una reazione forte e nella quale, in particolare, non vi era alcuna gradazione della sanzione.

Si prevedeva, infatti, la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro (e la relativa indennità risarcitoria) indipendentemente dal profilo di illegittimità che aveva condotto il Giudice a dichiarare illegittimo il licenziamento.

Ne derivava, dunque, l'applicazione della medesima sanzione per un licenziamento mosso da intenti discriminatori così come per un licenziamento la cui legittimità era stata inficiata da meri errori procedurali.

Dopo un lungo dibattito animato da forti contrapposizioni ideologiche, la Riforma Fornero ha modificato l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori nel senso di prevedere un diverso regime sanzionatorio a seconda del profilo che conduce il Giudice alla declaratoria di illegittimità del licenziamento.

Il riformato articolo 18 abbandona la centralità della tutela reintegratoria, che continua ad essere prevista solo in determinate ipotesi di illegittimità del licenziamento, e rende, invece, centrale la tutela meramente indennitaria a favore del lavoratore illegittimamente licenziato.

A soli due anni di distanza dall'intervento modificativo dell'articolo 18, il legislatore, con la legge delega 10 dicembre 2014, n. 183 (c.d. Jobs Act) delegava il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi attenendosi ad una serie di principi e finalità, tra le quali, la previsione, per le nuove assunzioni, del “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti” in relazione all'anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento.

La tecnica normativa seguita dal legislatore del Jobs Act è, dunque, volta a modificare il regime sanzionatorio previsto in caso di licenziamento illegittimo senza ulteriori interventi sull'articolo 18, ma disinnescando questa norma per i nuovi assunti, nei confronti dei quali viene introdotto un nuovo regime di tutela in caso di licenziamento illegittimo.

In attuazione della delega conferita, il Governo ha, dunque, adottato il d.lgs. n. 23 del 2015 il quale prevede un nuovo “regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo” che si applica ai “lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto” nonché “nei casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”.

Il 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto introduttivo del “contratto a tutele crescenti”, diventa dunque la data spartiacque da prendere in considerazione per individuare il regime applicabile al lavoratore in caso di illegittimo esercizio del recesso datoriale.

L'individuazione del corretto campo di applicazione del “contratto a tutele crescenti” ha posto, tuttavia, sin dai primi commenti al decreto, diversi problemi e dubbi interpretativi.

Gli orientamenti contrastanti espressi dalla giurisprudenza di merito: l'ordinanza del Tribunale di Roma, sez. III lav., 6 agosto 2018, n. 75870

Seppure tale problematica sia stata scarsamente affrontata da parte della dottrina, occorre evidenziare che il contenuto letterale dell'art. 1, d.lgs. n. 23 del 2015, nell'affermare l'applicazione del “contratto a tutele crescenti” anche nei casi di “conversione […] di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”, ha posto, in verità, gravi problematiche esegetiche relative all'utilizzo della locuzione “conversione”.

Non è, infatti, mancato chi, come il Tribunale di Roma, ha affermato che “da un lato […] il termine conversione richiama una figura giuridica che si rinviene sia nell'art. 1424, c.c. (il contratto nullo produce effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, se si accerta che le parti lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità), sia nell'art. 32, comma 5, l. n. 183 del 2010 (contratto a termine nullo perché stipulato in violazione dei requisiti formali e sostanziali per l'apposizione del temine al contratto di lavoro), e che pertanto deve tenersi conto di tale puntualizzazione, contenuta nel d.lgs. n. 23 del 2015, dall'altro, che, a sua volta, la norma della legge delega citata da riferimento solo alle nuove assunzioni per circoscrivere il campo di applicazione del contratto a tutele crescenti”.

Sulla base di tale ragionamento giuridico, con una pronuncia che è rimasta sostanzialmente isolata nella giurisprudenza di merito, il Tribunale di Roma, sez. III lavoro, 6 agosto 2018, n. 75870, ha ritenuto di interpretare la locuzione “conversione” di cui all'art. 1, d.lgs. n. 23 del 2015, in modo restrittivo, tale da ricomprendervi unicamente l'ipotesi di conversione in senso tecnico quale l'evento giudiziale o stragiudiziale, con cui il rapporto viene convertito ipso iure, lasciando dunque fuori dal campo di applicazione del contratto a tutele crescenti le ipotesi di conversione latu sensu, ovvero, “tutte le ipotesi di semplice trasformazione, di fatto o con manifestazione esplicita di volontà, del rapporto […] intervenute in modo che questo semplicemente prosegua, senza interruzione”.

L'opposta interpretazione fornita da Tribunale di Parma, sez. lav., 18 febbraio 2019, n. 383

A conclusioni completamente opposte è giunto, invece, il Tribunale di Parma, sez. lav.,18 febbraio 2019, n. 383 che, con una interpretazione maggiormente rispondente alle indicazioni provenienti dalla dottrina, ha affermato che la “conversione” prevista dall'art. 1, d.lgs. n. 23 del 2015 non deve essere intesa come conversione giudiziale bensì come trasformazione e/o prosecuzione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, per accordo tra le parti del contratto medesimo.

Il ragionamento giuridico seguito dai giudici emiliani parte dal presupposto che la conversione operata in sede giudiziale di un contratto a termine, per i motivi tassativamente previsti dalla legge, determina la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato con efficacia ex tunc, ossia sin dalla data di sottoscrizione del contratto a tempo determinato.

Ne consegue che, secondo il Tribunale parmense, l'interpretazione secondo cui la conversione a cui fa riferimento il secondo comma dell'art. 1, d.lgs. n. 23 del 2015, sia esclusivamente quella negoziale si conforma in maniera maggiormente appropriata al criterio enunciato dal primo comma del suddetto articolo per delimitare il campo di applicazione della nuova disciplina, che è di tipo temporale, in quanto rileva esclusivamente la data di costituzione del rapporto di lavoro.

L'intervento chiarificatore della Cassazione

A chiarire quale sia la corretta interpretazione della locuzione “conversione” di cui all'art. 1, d.lgs. n. 23 del 2015 e, dunque, a definire il campo di applicazione del “contratto a tutele crescenti” è stata, di recente, la Cassazione,16 gennaio 2020, n. 823.

La Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi su un ricorso nel quale il ricorrente sosteneva l'applicazione del decreto anche alle ipotesi di contratti originariamente stipulati a tempo determinato prima dell'entrata in vigore di esso ma convertiti a tempo indeterminato mediante pronuncia giudiziale successiva al 7 marzo 2015.

Secondo la Cassazione questo assunto non può essere condiviso in quanto i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato prima dell'entrata in vigore del “contratto a tutele crescenti”, con rapporto di lavoro giudizialmente convertito a tempo indeterminato solo successivamente all'entrata in vigore d.lgs. n. 23 del 2015, in alcun modo possono essere considerati "nuovi assunti".

Ciò in quanto, in tema di contratti di lavoro a tempo determinato, la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine e ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto, cui è connesso l'obbligo del datore di riammettere in servizio il lavoratore, ha natura dichiarativa e non costitutiva. Da tale affermazione consegue quella del coerente effetto ex tunc della conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato operata a decorrere dalla illegittima stipulazione del contratto a termine (la Cassazione richiama, in proposito, Cass. 26 marzo 2019, n. 8385).

La Cassazione evidenzia, altresì, che una diversa interpretazione della locuzione utilizzata dal legislatore, secondo la quale la “conversione” in esame sarebbe soggetta al nuovo regime introdotto dal c.d. Jobs act, comporterebbe un'evidente quanto irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori egualmente assunti a tempo determinato prima della sua introduzione ma con la conversione del rapporto, per nullità del termine, in uno a tempo indeterminato in base a sentenze emesse tuttavia, per mero accidente indipendente dalle rispettive volontà, talune prima, altre dopo tale data.

Ed infatti, lavoratori nelle stesse condizioni temporali di assunzione (a tempo determinato) e di conversione del rapporto di lavoro subordinato (a tempo indeterminato, per nullità del termine) sarebbero soggetti a regimi di tutela sensibilmente diversi: quelli "convertiti" prima del 7 marzo 2015, al regime cd. Fornero; quelli "convertiti" dopo, al regime del c.d. Jobs act.

Chiarito, dunque, che la locuzione “conversione” non si applica alle ipotesi di declaratoria giudiziale della nullità della clausola appositiva del termine, la Cassazione passa ad individuare a quali fattispecie sia applicabile la locuzione utilizzata dal legislatore.

Secondo la Cassazione tale locuzione ricomprende:

  1. le ipotesi di conversione volontaria (idest: trasformazione), per effetto di una manifestazione di volontà delle parti successiva all'entrata in vigore del decreto, con effetto novativo;
  2. le ipotesi di conversione giudiziale di contratti a termine stipulati anteriormente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, ma che producano i loro effetti di conversione dopo la sua entrata in vigore, perché successivo è il vizio che li colpisce, quali:
    • la continuazione del rapporto di lavoro oltre trenta giorni (in caso di contratto a termine di durata inferiore a sei mesi) ovvero oltre cinquanta giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi), ai sensi del d.lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 2 (Cass. 21 gennaio 2016, n. 1058, in riferimento al previgente termine di venti, anziché di trenta giorni), qualora la scadenza sia successiva al 7 marzo 2015 (da essa considerandosi "il contratto [...] a tempo indeterminato");
    • la riassunzione entro dieci giorni dalla scadenza del primo contratto a termine (qualora di durata inferiore a sei mesi) ovvero entro venti giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi), ai sensi del d.lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 3, qualora il secondo contratto (che "si considera a tempo indeterminato") sia stato stipulato dopo il 7 marzo 2015;
    • il superamento "per effetto di una successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti" nel "rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore... complessivamente" dei "trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro", sicché "il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato" (d.lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 4-bis), qualora detto superamento sia successivo al 7 marzo 2015.
In conclusione

Con la sentenza in commento la Cassazione, a composizione di un parziale contrasto di vedute sorto in seno alla dottrina ed alla giurisprudenza di merito, ha chiarito che la nozione di “conversione” di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato presente nell'art. 1 del d.lgs. n. 23 del 2015, utile all'individuazione del campo di applicazione del nuovo “contratto a tutele crescenti”, non ricomprende le ipotesi di conversione giudiziale del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato per la nullità della clausola appositiva del termine. Infatti, in questo caso, l'effetto di conversione si realizza ex tunc e, dunque, in un momento storico precedente alla data di entrata in vigore del decreto istitutivo del nuovo “contratto a tutele crescenti”.

Guida all'approfondimento

In dottrina sul tema:

  • A. MARESCA, Assunzione e conversione in regime di tutele crescenti, in Giur. lav, 2015, n. 12, 13;
  • G. GENTILE, L'ambito di applicazione della nuova disciplina, in L. Fiorillo, A. Perulli(a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi, Giappichelli, 2015, 61;
  • M. PERSIANI, Noterelle su due problemi di interpretazione della nuova disciplina dei licenziamenti, in ADL, 2015, n. 2, 394;
  • M. MARAZZA, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act (un commento provvisorio, dallo schema al decreto), Working Paper CSDLE “Massimo D'Antona.IT, 2015, n. 236, 21;
  • A. PRETEROTI, Contratto a tempo determinato e forma comune di rapporto di lavoro dopo il Jobs Act, Giappichelli, Torino, 2017.

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