Il sistema di tutele in materia di lavoro subordinato non viene meno per la fine della c.d. missione presso l'utilizzatore
17 Febbraio 2020
Massima
Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra il lavoratore e l'agenzia di somministrazione non viene meno nei periodi di inattività del dipendente per mancanza di cd. missioni, permanendo a carico delle parti le rispettive obbligazioni. Alla fase estintiva di tale rapporto è applicabile l'apparato protettivo del lavoro subordinato (l. n. 604 del 1966), e dunque anche i presupposti per il legittimo esercizio del potere datoriale di recesso, risultando le tutele inderogabili ed indifferenti alle vicende del contratto commerciale tra l'agenzia e l'utilizzatore. Il caso
La Corte d'appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento per g.m.o. della lavoratrice, condannando l'APL-datrice al pagamento di una indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
L'illegittimità del recesso veniva fondata sulla mancata prova, da parte della datrice, dell'impossibilità di adibire la dipendente a mansioni compatibili con il suo stato di salute.
La sentenza veniva impugnata innanzi la Corte di cassazione dall'agenzia.
Quest'ultima lamentava l'inesigibilità dell'obbligo di ricollocazione della lavoratrice, avendo l'utilizzatrice rifiutato la prosecuzione della missione per l'assenza di mansioni compatibili con la parziale idoneità fisica della dipendente, sicché l'agenzia non avrebbe potuto disporre ed esigere il reinserimento.
Si doleva, infine, dell'omesso esame di un fatto decisivo della controversia, oggetto di discussione tra le parti: la datrice avrebbe correttamente espletato la procedura di messa in disponibilità per mancanza di occasioni di lavoro, di cui all'art. 25, C.C.N.L. per le Agenzie di somministrazione, consistente in una procedimentalizzazione dell'obbligo di repechage. La questione
Il collegamento funzionale dei contratti stipulati tra lavoratore ed agenzia-datrice, e tra quest'ultima e l'impresa utilizzatrice, può incidere sull'esercizio del potere datoriale di recesso? La soluzione
La Corte di cassazione, dopo aver evidenziato la connessione funzionale tra il contratto di lavoro (dipende-agenzia) e quello di somministrazione (agenzia-impresa utilizzatrice), si è soffermata sulla durata dei rispettivi rapporti. Il primo può essere a tempo indeterminato oppure a termine, come espressamente previsto dall'art. 20, d.lgs. n. 276 del 2003 (applicabile ratione temporis) che ne individua le rispettive condizioni di liceità. Il lavoratore assunto a tempo indeterminato può essere somministrato presso un utilizzatore senza limiti di durata, oppure a tempo determinato, non risultando normativamente imposta una simmetria tra la durata del rapporto di lavoro e quella del rapporto commerciale. Per il contratto di lavoro a tempo indeterminato, come quello concluso nel caso de quo, l'art. 22, comma 1, d.lgs. succitato, prevede che: “i rapporti di lavoro tra somministratore e prestatori di lavoro sono soggetti alla disciplina generale dei rapporti di lavoro di cui al codice civile e alle leggi speciali”; l'art. 20, comma 2, seconda parte, stabilisce inoltre che: “Nell'ipotesi in cui i lavoratori vengano assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato essi rimangono a disposizione del somministratore per i periodi in cui non svolgono la prestazione lavorativa presso un utilizzatore”.
Alla luce di tali diposizioni, facenti espresso rinvio allo statuto normativo del lavoro subordinato, la Corte ha affermato che il rapporto tra il lavoratore a tempo indeterminato e l'agenzia di somministrazione resta in vita anche nei periodi di inattività del primo per mancanza di cd. missioni, permanendo a carico delle parti le rispettive obbligazioni. Con riferimento alla fase risolutiva del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l'art. 20, comma 2, seconda parte, stabilisce ulteriormente che: “Nell'ipotesi in cui i lavoratori vengano assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato essi rimangono a disposizione del somministratore per i periodi in cui non svolgono la prestazione lavorativa presso un utilizzatore, salvo che esista una giusta causa o un giustificato motivo di risoluzione del contratto” e l'art. 22, comma 4, prevede che: “Le disposizioni di cui all'articolo 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223, non trovano applicazione anche nel caso di fine dei lavori connessi alla somministrazione a tempo indeterminato. In questo caso trovano applicazione l'articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e le tutele del lavoratore di cui all'articolo 12”. Ne consegue che anche per il rapporto suddetto opera il sistema di tutele del lavoro subordinato, e dunque la necessaria sussistenza dei presupposti per il legittimo esercizio del potere di recesso ed i connessi oneri di allegazione e di prova a carico della parte datoriale. Tali tutele nell'ambito lavoro subordinato sono inderogabili ed indifferenti alle vicende del contratto commerciale tra l'agenzia di somministrazione e l'utilizzatrice.
La Corte ha evidenziato che, ai fini del g.m.o., non solo deve escludersi che possa essere sufficiente la cessazione della missione presso l'utilizzatore, ma deve ritenersi irrilevante anche l'estinzione del contratto commerciale a tempo indeterminato, non potendo il potere datoriale di recesso essere svincolato dai presupposti di legittimità dettati dalla normativa sui licenziamenti individuali. In particolare, tenuto conto delle peculiarità del rapporto di lavoro de quo, il legittimo esercizio del suddetto potere, per ragioni estranee alla sfera soggettiva, è subordinato alla dimostrazione della impossibilità di reperire, per un congruo periodo di tempo, occasioni di lavoro compatibili con la professionalità originaria, o acquisita, del dipendente, nonché dell'impossibilità di mantenere lo stesso in condizione di ulteriore disponibilità, coincidendo la ricerca di altra occupazione (ai fini dell'obbligo di repechage) con l'oggetto dell'adempimento contrattuale dell'agenzia nei confronti del dipendente.
Non acquista alcun rilievo quanto previsto dall'art. 25, C.C.N.L., non essendo riconosciuta alcuna efficacia derogatoria al contratto collettivo rispetto alla disciplina legale in materia di licenziamento. La legittimità dell'atto risolutivo del rapporto di lavoro deve essere valutata dal giudice unicamente in relazione alle nozioni legali di giusta causa e di giustificato motivo, nonché alle eventuali tipizzazioni del contratto collettivo.
La Corte di cassazione ha rigettato pertanto il ricorso dell'agenzia. Osservazioni
La sentenza in esame può essere idealmente divisa in tre parti, ciascuna delle quali logicamente connessa all'altra, la cui separata valutazione consente di individuare sia criteri-guida per l'operatore del diritto che zone d'ombra, la cui “illuminazione” è sostanzialmente lasciata - per ora - all'interprete.
1. Il rapporto tra i due negozi considerati. Nel contratto di lavoro tra agenzia e dipendente, quest'ultimo si impegna a mettere le proprie energie psico-fisiche sotto la direzione ed il controllo di un terzo, ossia l'impresa utilizzatrice, sicché è evidente la esistenza di un collegamento funzionale tra il rapporto commerciale (APL-utilizzatore) e quello di lavoro (APL-lavoratore). Sebbene costituenti due contratti autonomi, entrambi sono funzionali al raggiungimento del medesimo risultato, ossia la garanzia di lavoro flessibile ad un soggetto terzo rispetto al datore formale. Nonostante tale legame, la Corte ha evidenziato come le vicende del contratto commerciale siano inidonee ad incidere, con conseguenze estintive, sul rapporto di lavoro. Durante il periodo di assenza di missione si manifesta, infatti, lo scambio tipico del contratto a tempo indeterminato tra l'agenzia ed il dipendente: da un lato l'APL sarà obbligata a reperire occasioni di lavoro e corrispondere la c.d. indennità di disponibilità; dall'altro il lavoratore dovrà essere disponibile alle missioni proposte dalla datrice.
2. Il recesso dell'APL. La Corte esclude espressamente che l'estinzione del negozio commerciale, ovvero la cessazione della missione, possano costituire ragione idonea a giustificare il licenziamento per g.m.o. del lavoratore, precisando che anche per il rapporto APL-dipendente a tempo indeterminato trova applicazione la disciplina (e dunque le garanzie) tipiche del lavoro subordinato, e nello specifico la l. n. 604 del 1966.
La domanda sorge spontanea: esteso il suddetto sistema di tutele, in che modo i presupposti di legittimità del licenziamento individuale per g.m.o. possono essere conciliati con le peculiarità tipiche della somministrazione?
Due considerazioni si rendono necessarie. Il sostanziale carattere trilaterale del rapporto di somministrazione incrementa le opportunità di lavoro confacenti alla professionalità del prestatore e, specularmente, diminuisce anche i margini entro i quali l'agenzia può dimostrare la serie causale determinante licenziamento. Lo stesso scopo dell'attività economica svolta dalle APL rende disagevole la prova del nesso causale tra il licenziamento e le ragioni organizzative-produttive, atteso che il venir meno del contratto commerciale non può ex se giustificare il recesso.
Evidente è inoltre la differenza tra la posizione del dipendente dell'APL e quella del lavoratore assunto direttamente dall'utilizzatore (“classico” rapporto di impiego subordinato): il primo si troverà in una condizione di miglior favore rispetto al secondo, nella misura in cui per quest'ultimo la verifica della possibilità di reimpiego avviene in un dato momento - e non durante “un congruo arco temporale” - e in un solo contesto organizzativo-aziendale, ossia quello dell'impresa utilizzatrice/datore.
Sul punto la Corte aiuta solo parzialmente l'interprete: il legittimo esercizio del potere di recesso datoriale è subordinato alla prova della impossibilità di reperire, per un congruo periodo di tempo, occasioni di lavoro compatibili con la professionalità originaria, ovvero acquisita, del dipendente, sicché quest'ultimo non potrebbe essere ulteriormente tenuto in condizione di disponibilità. Tale dato fattuale consentirebbe di dimostrare l'adempimento dell'obbligo di repechage, coincidente, tra l'altro, con la prestazione obbligatoria avente fonte nel contratto tra l'agenzia ed il lavoratore.
In che termini, però, dovrà tradursi la condizione “per un congruo periodo di tempo”? La Corte non fornisce alcun criterio oggettivo, interno al rapporto o esterno rispetto ad esso, che consenta di affermare la congruità o meno, sotto il profilo temporale, della ricerca di nuove occupazioni per il dipendente da parte dell'agenzia. Il problema non è sicuramente di poco conto, considerata l'incidenza di tale elemento fattuale sia sull'impegno richiesto al datore di lavoro nella ricerca di una nuova missione, sia sulla legittimità dell'eventuale licenziamento per g.m.o.
3. Il criterio esterno dell'art. 25 CCNL. La Corte ha escluso la rilevanza (se non come elemento indiziario) dell'esito della procedura descritta e regolata dalla disposizione contenuta nella disciplina negoziale, dovendo il giudice valutare la legittimità di un licenziamento basandosi unicamente sulle nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo (e sulle eventuali tipizzazioni del contratto collettivo). Diversamente dalla materia dei licenziamenti collettivi, infatti (inapplicabile alle APL), il legislatore non riconosce al contratto collettivo alcuna efficacia derogatoria alla disciplina legale dei licenziamenti individuali.
Tuttavia, non sembra potersi escludere in toto l'utilità dell'art. 25 CCNL. La procedura de qua può condurre verso un esito favorevole, e consentire quindi una nuova occupazione, oppure può avere come esito lo scioglimento del rapporto di lavoro. Qualora al termine di questo periodo di attività non si prospettino per il prestatore nuove opportunità lavorative, l'agenzia dovrebbe ritenersi legittimata a recedere dal contratto per gmo. Ai fini della sua legittimità, certamente, non sarebbe sufficiente il mero rispetto formale della procedura, occorrendo dimostrare anche la concreta assenza di chance lavorative compatibili con la professionalità, anche acquisita mediante la sua riqualificazione, del lavoratore. Tale procedura, infatti, è diretta a creare condizioni favorevoli al ricollocamento del lavoratore, costituendo il recesso l'extrema ratio. L'APL - essendo questo lo scopo della sua attività - ha interesse a che il proprio personale in disponibilità sia ricollocato, sicché il corretto ed effettivo adempimento della procedura potrebbe costituire un criterio esterno utile al giudizio di legittimità del licenziamento per g.m.o. (conseguente al negativo esito della procedura stessa), soprattutto sotto il profilo della congruità temporale dell'impegno profuso (ed esigibile) dall'APL. Per approfondire
A. D'Ascenzio, Agenzie per il lavoro e licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Profili sostanziali della fattispecie e onere probatorio, consultabile sul sito:www.bollettinoadapt.it/agenzie-per-il-lavoro-e-licenziamento-per-giustificato-motivo-oggettivo-profili-sostanziali-della-fattispecie-e-onere-probatorio/;
P. De Marco, Nota a Tribunale di Velletri, Sez. Lav., ordinanza 29 luglio 2016, Tribunale di Roma, Sez. Lav., ordinanza 2 novembre 2016 e Tribunale di Bergamo, Sez. Lav., ordinanza 12 gennaio 2017, in Lavoro e Previdenza Oggi, maggio-giugno 2017, fasc. 5-6;
L. Calcaterra, La somministrazione di lavoro. Teorie e ideologie, Editoriale Scientifica, 2017;
L. Giasanti, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e somministrazione di lavoro, in RGL, 2017, II, 296 ss. |