Profili sostanziali e processuali delle memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c.

Giulio Amodio
19 Febbraio 2020

Le memorie ex art. 183 c.p.c. rappresentano un momento centrale del processo civile ordinario, sia dal punto di vista assertivo che dal punto di vista probatorio. Il decorso del triplice termine per il deposito di memorie scritte comporta la consumazione del potere della parte di precisare o modificare le proprie domande, eccezioni e conclusioni, nonché di indicare i mezzi di prova a sostegno del thema decidendum cristallizzato. Tale scambio di memorie difensive - nonostante le recenti proposte di superamento dello stesso in favore di un procedimento assimilabile al rito del lavoro - trova larghissima applicazione nella prassi e, di conseguenza, rappresenta il crocevia di plurime questioni sostanziali e processuali che si passerà, sia pure brevemente, in rassegna.
Il quadro normativo

La riforma introdotta dalla l. n. 80/2005 e dalla l. n. 263/2005, nell'intento di abbreviare la durata del processo civile ordinario, ha eliminato la previgente distinzione tra l'udienza di trattazione, dedicata alle allegazioni in giudizio dei fatti e delle eccezioni sui quali si fondano le pretese (cd. attività assertive), e l'udienza dedicata alle attività istruttorie (cd. attività asseverative), ove le parti erano chiamate a indicare i mezzi di prova relativi a quanto oggetto di asserzione.

Nella formulazione vigente (pur messa in discussione nei recenti progetti di riforma del processo civile), l'art. 183 c.p.c. disciplina una udienza di comparizione e trattazione ibrida, cui segue, secondo una prassi ormai consolidata, su richiesta di entrambe o di una delle parti, la concessione del triplice termine per memorie scritte di cui al comma 6 della richiamata disposizione normativa. Non sussiste più una netta separazione tra fase di allegazione e fase istruttoria, come dimostrato dalla circostanza che la seconda memoria ex art. 183 c.p.c. (di cui si dirà oltre) ha un contenuto misto, assertivo e asseverativo.

L'analisi del contenuto di ciascuna delle tre memorie difensive consente di ricostruire l'attuale sistema di preclusioni assertive ed asseverative, nonché di analizzare i principali problemi interpretativi che si sono posti sul punto.

La prima memoria ex art. 183 c.p.c.

La prima memoria, come noto, consente di precisare o modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già proposte.

Da un punto di vista letterale è evidente la distinzione con il comma 5 della medesima disposizione, mancando nella prima memoria il riferimento alle domande ed eccezioni nuove che siano conseguenza delle difese del convenuto.

Sembra preferibile, tuttavia, ritenere che tali domande ed eccezioni nuove siano proponibili anche nella prima memoria scritta, soprattutto nel caso in cui il convenuto, costituendosi in udienza, non consenta all'attore di compiere le attività difensive previste dal comma 5.

Sempre con riguardo al contenuto di tale memoria, se da un lato è pacifico che essa contempli lo “ius variandi” e “poenitendi” delle parti, dall'altro ci si è interrogati sulla distinzione tra modifiche e precisazioni consentite (cd. emendatio libelli) e le modificazioni non consentite in questa fase del giudizio (cd. mutatio libelli).

È stato osservato in giurisprudenza (Cass. civ., Sez. Un., sent.,n. 12310/2015) che l'art. 183 c.p.c. sottende una tripartizione di domande rispetto alla domanda principale (ma il discorso è estendibile a eccezioni e conclusioni):

  1. le domande «nuove»: sono ammesse dal comma 5 della menzionata disposizione esclusivamente se sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Tale disposizione consente, a determinate condizioni, una vera e propria "emendatio libelli", sia pure limitata alla iniziale fase di formazione del "thema decidendum" e con il limite temporale per l'esercizio di tale facoltà, coincidente con l'udienza fissata per la comparizione delle parti e la trattazione (i.e. il primo atto difensivo utile, temporalmente successivo a quello che ne determina la proponibilità).

In tal senso, pur in mancanza di un divieto esplicito, una lettura a contrario del comma 5 implicitamente esclude la proponibilità di tutte le domande nuove ed eccezioni che non rappresentino una reazione alle opzioni difensive del convenuto, al fine di garantire la speditezza del processo.

  1. le domande «precisate»: sono tali le domande introduttive che non hanno subito modificazioni nei loro elementi identificativi ma che sono state oggetto di mera esplicitazione o puntualizzazione di un fatto secondario, cioè di un fatto già implicito nel contenuto delle precedenti difese. Ad esempio, costituisce precisazione l'allegazione di un chiarimento in ordine alle dinamiche di un evento dannoso già posto a fondamento di una domanda risarcitoria;
  2. le domande «modificate»: pongono maggiori dubbi interpretativi, in quanto le domande modificate sono il risultato dell'allegazione in giudizio di un nuovo fatto costitutivo della fattispecie del diritto fatto valere.

Il “discrimen” tra mutatio ed emendatio libelli basato sulla distinzione tra diritti autodeterminati ed eterodeterminati

Secondo l'impostazione tradizionale della giurisprudenza sono ammissibili solo le modificazioni della domanda introduttiva che costituiscono semplice “emendatio libelli”, ravvisabile quando non si incide su uno degli elementi della domanda (causa petendi e/o petitum).

Viceversa, sono inammissibili quelle modificazioni della domanda che costituiscono “mutatio libelli”, ravvisabile quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un “petitum” diverso oppure una “causa petendi” fondata su situazioni giuridiche differenti, così alterando il regolare svolgimento del processo.

Il principio viene usualmente integrato mediante la nota distinzione dottrinale tra diritti "autodeterminati" e diritti "eterodeterminati", elaborata proprio allo scopo di fissare i limiti entro cui la domanda può essere modificata senza incorrere nel divieto di "mutatio".

In tale prospettiva, viene considerata mera "emendatio" l'allegazione di un fatto costitutivo nuovo di un diritto autodeterminato, trattandosi di diritti individuati a prescindere dal titolo di acquisto allegato: ad esempio è possibile allegare in fase di trattazione una nuova fattispecie acquisitiva del diritto di proprietà rispetto a quella indicata in citazione.

Viceversa, con riguardo ai diritti eterodeterminati è consentita l'allegazione in giudizio di nuovi fatti purché gli stessi non modifichino il diritto dedotto in giudizio e il bene della vita richiesto (infra alios, Cass. civ., sent., n. 18956/2017): ad esempio la richiesta di pagamento di una somma che si fondi su un titolo di credito non può essere mutata in richiesta di pagamento in base al rapporto sottostante, trattandosi di due diritti tra di loro concorrenti.

L'evoluzione giurisprudenziale

Il principio generale richiamato, tuttavia, non sembra aver trovato negli ultimi anni una applicazione uniforme con riguardo alle innumerevoli fattispecie che possono venire in rilievo. La giurisprudenza sembra, piuttosto, preferire una logica «caso per caso».

A titolo meramente esemplificativo, è stato riconosciuto in giurisprudenza che è possibile, anche in sede di precisazione delle conclusioni, richiedere il risarcimento del danno per equivalente qualora nell'atto introduttivo sia stato domandato il risarcimento in forma specifica, che rappresenta una forma di ristoro del pregiudizio più ampia ed onerosa per il debitore (Cfr. Cass. civ., n. 22223/2014).

Del pari ammessa è la possibilità di allegare nuovi profili di inadeguatezza della prestazione, diversi da quelli inizialmente prospettati nel giudizio di responsabilità per inadempimento contrattuale del professionista (Cfr. Cass. civ., n. 18275/2014).

Invero, negli ultimi anni la giurisprudenza sembra distinguere tra "mutatio" ed "emendatio" in base a un'impostazione evolutiva che prescinde dalla circostanza che sia o meno intervenuta la modifica di uno degli elementi costitutivi della domanda.

Attualmente, difatti, la giurisprudenza specifica che il "discrimen" tra domande ‘nuove' (implicitamente vietate dall'art. 183 c.p.c.) e domande ‘modificate', espressamente ammesse, non sta nel fatto che in queste ultime le modifiche non possono incidere sugli elementi identificativi: una domanda può dirsi modificata allorquando la stessa non sia nuova nel senso di ulteriore e/o aggiuntiva rispetto alla domanda iniziale; si tratta, quindi, delle stesse domande iniziali modificate (eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali) o, comunque, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali e si pongono, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività.

In tale prospettiva si ritiene che l'attore modifica la domanda iniziale allorquando, implicitamente rinunciando alla precedente domanda, o comunque rinunciando alla domanda formulata in un determinato modo, ritiene la domanda modificata (alternativa alla prima) come più rispondente ai propri interessi rispetto alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio.

Ipotesi applicative

Tale impostazione parzialmente innovativa è stata di recente seguita in tema di ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell'originaria domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. di un contratto preliminare con la domanda di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo (Cfr. Cass. civ., Sez. Un., sent., n. 12310/2015).

Ancor più di recente la Suprema Corte, sempre in ossequio a tale impostazione, ha ritenuto ammissibile la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento proposta, in via subordinata, per la prima volta nella memoria ex art. 183, comma 6 n. 1, c.p.c., purché riferita alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda connessa per incompatibilità alla originaria domanda di adempimento contrattuale proposta (Cfr. Cass. civ., Sez. Un., sent., n. 22404/2018).

La seconda memoria ex art. 183 c.p.c. e le preclusioni istruttorie

Come anticipato, la seconda memoria evidenzia il carattere ibrido della fase della trattazione, in quanto tale atto permette alle parti di svolgere due tipi di attività:

  1. attività assertive: replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate dall'altra parte, proporre eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime;
  2. attività asseverative: indicare mezzi di prova e produrre documenti nuovi o non già proposti negli atti introduttivi.

Risulta evidente lo stretto legame tra le due attività: le parti possono formulare istanze istruttorie nei soli limiti di quanto abbiano tempestivamente dedotto, ben potendo accadere che la parte abbia rispettato il termine per l'attività asseverativa ma abbia richiesto di provare fatti per i quali era maturata la preclusione assertiva, con conseguente reiezione dell'istanza istruttoria.

Ciò premesso, la memoria n. 2 contempla una importante preclusione istruttoria: le parti devono, a pena di decadenza, indicare quali siano le prove a supporto di quanto asserito, svolgendo l'attività istruttoria che non abbiano già compiuto nei precedenti scritti difensivi.

Il deposito della memoria istruttoria, quindi, comporta la consumazione del potere della parte di proporre istanze istruttorie.

Tale principio vale sia per le prove precostituite (quale quella documentale) che per le prove costituente (ad esempio la testimonianza).

La richiesta di CTU, invece, non sembra assoggettabile alle medesime preclusioni, non trattandosi di un mezzo di prova e, quindi, potendo essere disposta d'ufficio dal giudice anche a prescindere dalle richieste delle parti.

Tuttavia, anche con riguardo alla CTU è stato precisato in giurisprudenza che qualora la stessa abbia carattere non meramente valutativo (valutazione dei fatti accertati nel corso del giudizio) ma anche percipiente, cioè quanto sia richiesto al Consulente di accertare i fatti stessi, resta fermo l'onere di allegazione dei medesimi fatti in capo alle parti (ad esempio, in tema di esame del DNA, Cass. civ., Sez. Un., sent., n. 9522/96).

Del pari, è esclusa la possibilità di eludere la preclusione maturata con riguardo al deposito di documentazione mediante l'acquisizione di documenti da parte del CTU.

Una parte della giurisprudenza ritiene che la consumazione del potere della parte di svolgere attività istruttoria valga, altresì, in caso di deposito di una ulteriore memoria istruttoria integrativa, pur se depositata nel rispetto del termine di 30 giorni previsto dalla legge, dovendosi garantire in ogni caso una ordinata gestione del processo (Cfr. Trib. Mantova, 3 maggio 2017).

Tuttavia, in dottrina si è osservato in chiave critica che la preclusione da consumazione ha una sua utilità laddove il giudice si sia già pronunciato, rispondendo ciò a una evidente esigenza di economia processuale; viceversa, nel caso in cui la parte integri le istanze istruttorie mediante una seconda memoria ex art. 183 n. 2 c.p.c. depositata nell'unico termine di 30 giorni non vi sarebbero valide ragioni per limitare il potere delle parti di indicare ulteriori mezzi di prova.

Rilevabilità d'ufficio delle preclusioni assertive e istruttorie

In ogni caso, la giurisprudenza ha precisato che le norme che prevedono preclusioni assertive ed istruttorie nel processo civile sono poste a tutela di interessi generali, onde la loro violazione è sempre rilevabile d'ufficio, anche in presenza di acquiescenza della parte legittimata a dolersene. Ne consegue che l'attore, anche nel caso di tardiva costituzione della controparte, deve produrre, a pena di inammissibilità, i documenti a sostegno dei fatti costitutivi della domanda entro il secondo termine di cui all'art. 183 c.p.c., potendo la tardività del deposito essere rilevata d'ufficio (Cfr. Cass. civ., ord., n. 16800/2018).

Medesime considerazioni valgono per le preclusioni assertive (Cfr. Cass. civ., sent., n. 13769/2017).

La terza memoria ex art. 183 c.p.c.

Il contenuto della terza memoria difensiva è espressamente limitato alle sole indicazioni di prova contraria, a ulteriore conferma della preclusione istruttoria di cui alla precedente memoria.

Tale ultima memoria autorizzata ha, quindi, lo scopo di consentire alla parte di richiedere le prove che hanno ad oggetto gli stessi fatti che la controparte ha posto alla base della propria istanza istruttoria.

In senso più ampio, la norma consente alla parte di formulare un'istanza istruttoria volta a dare prova di un fatto che sia ostativo degli effetti giuridici del fatto oggetto della prova di controparte.

Giova precisare, che la possibilità di indicare le prove contrarie riguarda il complesso delle prove ex adverso articolate, quindi sia quelle formulate nell'atto introduttivo che quelle formulate nella memoria istruttoria.

Profili processuali

In tema di memoria ex art. 183 c.p.c., non meno rilevanti sono i profili processuali sui quali la giurisprudenza si è interrogata.

In primo luogo, ci si è chiesti se il giudice abbia o meno un obbligo di concedere il triplice termine in presenza dell'istanza di una o di entrambe le parti.

Sembra preferibile ritenere che il giudice possa rifiutare la concessione dei predetti termini, invitare le parti a precisare le conclusioni ed assegnare la causa in decisione anche alla prima udienza di comparizione, qualora ritenga la causa matura per la decisione; ciò può accadere laddove il giudice possa decidere la causa sulla base di questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, ovvero laddove sia possibile la decisione alla luce della documentazione versata in atti dalle parti.

In siffatte ipotesi, obbligare il giudice a concedere il triplice termine per memorie significherebbe favorire richieste meramente strumentali della parte interessata a prolungare i tempi del giudizio, senza alcun beneficio per la difesa delle parti ed ai fini della decisione finale.

Diverso è il caso in cui le parti abbiano già formulato le proprie istanze istruttorie negli atti introduttivi e richiedano la concessione di un solo termine per precisare le domande, eccezioni e conclusioni. In tal caso non sembra possibile che il giudice non conceda il termine, in quanto la pronuncia sulle istanze istruttorie non può prescindere dalla precisazione e definizione del thema decidendum.

Un ulteriore profilo processuale concerne il momento a partire dal quale far decorrere il triplice termine.

Sovente le parti richiedono concordemente di posticipare il decorso dei termini per il deposito delle memorie al fine di avere maggior tempo a disposizione per formulare le proprie istanze e deduzioni.

Nell'ipotesi, invece, in cui uno dei termini scada in un giorno festivo o di sabato, lo stesso si intende prorogato al primo giorno non festivo successivo, onde il termine per depositare la memoria successiva decorrerà da tale ultimo giorno.

Maggiori problemi si sono posti nell'individuare il dies a quo nel caso di termini per il deposito di memorie ex art. 183 c.p.c. concessi dal giudice con ordinanza resa fuori udienza.

Sul punto, sembra preferibile la tesi secondo cui debba trovare applicazione il principio di cui all'art. 155 c.p.c., secondo cui “dies a quo non computatur in termino”, con la conseguenza che il primo giorno di decorrenza indicato dal giudice non andrebbe computato ai fini del deposito delle memorie istruttorie ex art. 183 c.p.c., anche se non sono mancate pronunce di segno contrario nella giurisprudenza di merito (Trib. Padova, sez. II civ., ord., 26 gennaio 2017).

In conclusione

La particolare rilevanza delle memorie ex art. 183 c.p.c. risulta attualmente comprovata non solo dalla natura pubblicistica della disciplina in tema di preclusioni assertive e istruttorie, volte a garantire l'ordinato svolgimento e la celerità del processo, ma anche dalla richiamata esistenza di ipotesi in cui la concessione del triplice termine appare per il giudice doveroso, sia pure nei limiti tracciati.

A riprova di ciò si osserva che la mancata concessione dei termini ex art. 183, comma 6, c.p.c. nei casi in cui la stessa sarebbe stata doverosa comporta una violazione del diritto di difesa delle parti e, quindi, configura un vizio di nullità della sentenza.

Resta inteso che qualora la parte intenda dedurre in appello tale vizio della sentenza di primo grado, sarà suo onere indicare in maniera precisa le attività assertive ed istruttorie che avrebbe svolto ove fosse stato consentito lo scambio delle memorie.

In tal caso, ove la Corte d'appello dovesse ritenere sussistente il vizio dedotto deve rimettere in termini la parte, non venendo in rilievo una delle ipotesi di rimessione della causa al giudice di prime cure tassativamente previste dall'art. 354 c.p.c.

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