Rifiuto della trasfusione di sangue salvavita per credo religioso e interruzione del nesso causale tra evento dannoso cagionato da terzi e successivo decesso

Michele Liguori
25 Febbraio 2020

Può essere ritenuto corresponsabile del danno colui che, senza violare alcuna regola di comune prudenza, correttezza o diligenza, non si sia attivato per rimuovere tempestivamente una situazione di pericolo creata da altri?
Massima

Non può essere ritenuto corresponsabile del danno colui che, senza violare alcuna regola di comune prudenza, correttezza o diligenza, non si sia attivato per rimuovere tempestivamente una situazione di pericolo creata da altri.

L'art. 1227, comma 1, c.c. non è espressione del principio di autoresponsabilità ma costituisce applicazione dei principi della causalità e del funzionamento del nesso causale.

La colpa cui fa riferimento l'art. 1227, comma 1, c.c. va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perché il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all'art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato ovvero come criterio di selezione delle concause rilevanti ai fini della riduzione del risarcimento.

La concausa umana rilevante ai fini risarcitori è solo quella colposa, mentre va derubricata quella non colposa che è equiparata alla condotta naturale, perché come quest'ultima non cagiona un danno (ascrivibile alla categoria dei fatti imputabili), ma mere conseguenze negative.

Così come nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario senza consenso, allo stesso modo è irrilevante il rifiuto del danneggiato di sottoporsi ad un trattamento sanitario (intervento chirurgico o trasfusione di sangue) al fine di diminuire l'entità del danno, atteso che non può essere configurato alcun obbligo a suo carico di sottoporsi al trattamento sanitario stesso, non essendo quel rifiuto inquadrabile nell'ipotesi di concorso colposo del creditore, previsto dall'art. 1227 c.c., intendendosi comprese nell'ambito dell'ordinaria diligenza di cui all'art. 1227, comma 2, c.c. soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.

Il rifiuto dell'emotrasfusione ha acquistato una tale rilevanza anche nella coscienza sociale da non ammettere limitazioni di sorta al suo esercizio ed intervenire sul contenimento delle conseguenze risarcitorie a carico dell'offensore significherebbe indirettamente intervenire sulla intensità e sulla qualità del suo riconoscimento.

Il caso

In un incidente stradale avvenuto tra due veicoli il 21 giugno 1993 il conducente non responsabile subisce gravissime lesioni personali riconducibili a due distinte connotazioni clinico‑traumatologiche: ortopediche e vasculo-addominali.

La vittima, appartenente alla fede religiosa dei testimoni di Geova, viene trasportata in Ospedale e sottoposta ad intervento chirurgico d'urgenza ed a tutti gli altri trattamenti del caso, eccetto la necessaria terapia emotrasfusionale in quanto, anche se incosciente, aveva con sé una dichiarazione espressa dalla quale emergeva l'inequivocabile sua volontà di non essere emotrasfusa per ragioni di coscienza religiosa.

La vittima decede la sera dello stesso giorno.

Il Tribunale di Roma, adito dagli eredi della vittima, con sentenza 15 settembre 2010 n. 18332:

- dichiara l'esclusiva responsabilità del conducente investitore in ordine alla produzione dell'evento dannoso;

- rileva che la tesi dell'impresa di assicurazione relativa alla mancanza di nesso causale è priva di giuridica consistenza, sia perché l'omessa trasfusione (determinata dal rifiuto) ha rappresentato solo una concausa, seppure prevalente, dell'exitus (che si sarebbe pertanto ugualmente determinato con una percentuale di probabilità dal 50 al 35%), sia soprattutto perché il rifiuto del consenso al trattamento, lungi dal costituire un fatto "anomalo e imprevedibile", ha costituito il mero esercizio di un diritto, garantito alla vittima dalla Costituzione, inidoneo ad interrompere la continuità fattuale e logico-giuridica tra l'evento sinistro e l'evento-morte;

- condanna l'impresa di assicurazione ed i responsabili civili al risarcimento in favore degli eredi della vittima dei danni tutti subiti.

La Corte d'Appello di Roma con sentenza 25 maggio 2017 n. 3510:

- accoglie l'appello principale dell'impresa di assicurazione e quello incidentale dei responsabili civili, reputa il sinistro un antecedente causale necessario dell'evento morte, giudica che le possibilità di sopravvivenza della vittima, ove fosse stato sottoposto alla trasfusione di sangue, erano tra il 50 ed il 65%, conclude che l'evento morte era legato eziologicamente al concorso in pari misura di due cause: la condotta alla guida del responsabile e l'esposizione volontaria da parte della vittima ad un rischio - e, cioè, quello connesso alla circolazione stradale atteso che sapeva “che, in caso di incidente, avrebbe potuto avere bisogno di sottoporsi alla somministrazione di sangue o emoderivati, che per motivi religiosi avrebbe rifiutato” - e riduce il risarcimento del 50% per il concorso colposo della vittima;

- accoglie, altresì, l'appello incidentale degli eredi della vittima e liquida loro sia il danno non patrimoniale sulla scorta dei valori del punto di invalidità determinati secondo la più aggiornata tabella del Tribunale di Roma, sia una più congrua liquidazione del danno da lucro cessante.

Gli eredi della vittima propongono ricorso per cassazione avverso tale pronuncia affidato a tre motivi:

- con il primo sostengono che la Corte d'Appello ha erroneamente applicato i principi della causalità, di cui agli artt. 40 e 41 c.p. e l'art. 1227 c.c., qualificando il rifiuto per motivi religiosi di sottoporsi alla trasfusione di sangue, nonostante la scelta volontaria di condurre un'automobile, una “esposizione volontaria ad un rischio” anomalo, gratuito e voluttuario;

- con il secondo sostengono che alla vittima è stato negato il diritto di avere la libertà di fare le proprie scelte sugli interventi sul suo corpo, senza dover essere penalizzato per l'esercizio del diritto, allo stesso modo di altri cittadini adulti capaci; la Corte d'Appello ha così creato una discriminazione contro ogni Testimone di Geova che si trova ad affrontare una situazione in cui gli viene detto che una trasfusione di sangue farebbe la differenza in ambito medico ed ha incluso il rifiuto alle emotrasfusioni la natura di condotta colposa e antigiuridica, tale da pregiudicare in astratto e a priori ogni loro potenziale diritto risarcitorio per danni fisici cagionati alla propria persona e ciò in aperto contrasto col principio di laicità dello Stato (principio supremo dell'ordinamento);

- con il terzo lamentano l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e cioè che la trasfusione non avrebbe salvato la vita alla vittima.

La Suprema Corte con ordinanza 15 gennaio 2020 n. 515:

- accoglie i motivi di ricorso;

- cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

La questione

La questione giuridica generale è la seguente: può essere ritenuto corresponsabile del danno colui che, senza violare alcuna regola di comune prudenza, correttezza o diligenza, non si sia attivato per rimuovere tempestivamente una situazione di pericolo creata da altri?

In particolare pone i seguenti problemi/interrogativi:

- può essere ritenuto corresponsabile del danno colui che, per un credo religioso, rifiuti la trasfusione di sangue salvavita?

- può tale rifiuto essere inquadrato nell'ipotesi di concorso colposo del creditore, previsto dall'art. 1227, comma 2, c.c.?

Le soluzioni giuridiche

Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate” (Dante Alighieri, Inferno, Canto III, verso 9).

La pregevole ordinanza della Suprema Corte qui in commento è lunga, articolata e complessa ed una sua bignamizzazione ne svilirebbe il contenuto e la portata e, comunque, non ne consentirebbe la sua integrale comprensione.

Questo comporta:

- da un lato, che il presente commento dovrà tener conto di tutti i passaggi logici della decisione;

- dall'altro lato, che il lettore, se vuole comprendere effettivamente il contenuto e la portata della decisione, dovrà rassegnarsi fin da subito ad intraprendere una lettura non facile e che non potrà esaurirsi in pochi minuti.

La Suprema Corte, prima di esaminare le varie questioni, affronta il problema, relativo al risarcimento del danno, dell'accertamento del doppio nesso causale:

- il primo, tra condotta e l'evento di danno, c.detto nesso di causalità materiale;

- il secondo, tra l'evento di danno e le conseguenze dannose risarcibili, c.detto nesso di causalità giuridica.

La Suprema Corte chiarisce che:

- il nesso di causalità materiale è un criterio oggettivo di imputazione della responsabilità, che va accertato in base al combinato disposto di cui agli artt. 40 e 41 c.p.;

- il nesso di causalità giuridica consente, invece, di individuare e selezionare le conseguenze dannose risarcibili dell'evento e va accertato in base al disposto di cui all'art. 1223 c.c. (anche se nell'ordinanza è indicato per mero errore materiale, anche se solo un volta, l'art. 1222 c.c.);

- tale distinzione tra causalità materiale e giuridica va condivisa e confermata in quanto:

(-) è l'unica in grado di offrire un'appagante soluzione al delicato problema dell'accertamento del nesso di causa rispetto ad eventi, come quello esaminato, ad eziologia multifattoriale e più in generale al concorso tra cause umane e cause naturali e tra cause umane colpevoli e cause umane non colpevoli alla produzione dell'evento dannoso, escludendo la possibilità di una riduzione proporzionale in ragione della minore incidenza dell'apporto causale del danneggiante, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, non tra una causa umana imputabile ed una concausa umana non imputabile o tra una causa naturale ed una causa umana imputabile;

(-) è conforme al suo orientamento pietrificato.

La Suprema Corte, chiarita così la cornice dei principi di riferimento, esamina le singole problematiche e ritiene di non condividere il pensiero del giudice di merito.

La Corte d'Appello, infatti, ha sostenuto che la vittima si è esposta volontariamente ai rischi connessi alla circolazione stradale solo perché era consapevole che, in caso di incidente, avrebbe potuto avere bisogno di sottoporsi alla somministrazione di sangue o emoderivati, che per motivi religiosi avrebbe rifiutato e, con tale suo comportamento, ha aumentato il rischio o l'esposizione ad rischio ed ha ridotto il risarcimento applicando il principio secondo cui “l'esposizione volontaria ad un rischio o, comunque, la consapevolezza di porsi in una situazione da cui consegua la probabilità che si produca a proprio danno un evento pregiudizievole, è idonea ad integrare una corresponsabilità del danneggiato e a ridurre proporzionalmente, la responsabilità del danneggiante” (Cass. civ., 26 maggio 2014, n. 11698).

La Suprema Corte precisa che tale assunto è errato in quanto:

- costituisce una nuova categoria di imputazione dell'evento, con cui il giudice attribuisce “come fatto proprio” un evento che a stretto rigore non risulta essere stato provocato da colui al quale viene riferito;

- si fonda sull'idea che il titolare di una situazione giuridica soggettiva vanti la pretesa che altri non aumentino ingiustamente il rischio di una sua lesione, sicché, sotto il profilo della causalità materiale, si tratta di accertare se sussista un nesso misurabile in termini statistici tra fatto imputabile al danneggiante e aumento del rischio;

- attribuisce alla vittima come fatto proprio il decorso causale effettivo attribuendole una omissione e, quindi, per il tramite del ragionamento ipotetico, che è quello che viene utilizzato per verificare l'apporto causale del comportamento alternativo lecito - ossia la condotta che in nome del dovere di diligenza in concreto doveroso e dell'obbligo giuridico di impedire l'evento riferibile al titolare della posizione di garanzia - che avrebbe dovuto essere (ma non è stato) tenuto, si procede all'accertamento del se la condotta alternativa avrebbe avuto significative, probabilità di salvare il bene giuridico.

La Suprema Corte, ancora, precisa che la Corte d'Appello:

- non ha tenuto conto che il rifiuto di sottoporsi a determinate cure mediche, sia per motivi religiosi che per altra natura, anche quando tale rifiuto possa causare la morte del soggetto:

(-) non può essere considerato un fattore anomalo e imprevedibile;

(-) è espressione di un diritto di rango costituzionale;

- ha, quindi, erroneamente riconosciuto un concorso di responsabilità del decesso che ha imputato in pari misura al danneggiante e alla vittima, quest'ultima responsabile di essersi volontariamente esposta ad un rischio.

La Suprema Corte, ancora, precisa che:

- non vi sono le premesse per ipotizzare che la morte ha rappresentato la sommatoria di due condotte, ciascuna dotata di propria individualità, con conseguente necessità di definire in termini oggettivi la proiezione causale di ciascuna di esse;

- la condotta del danneggiante, dal punto di vista naturalistico, non poteva costituire la mera premessa contingente per la produzione dell'evento, giacché aveva una forza causale idonea a produrre l'evento stesso.

La Suprema Corte, ancora, individua i punti deboli del ragionamento della Corte d'Appello - che ha fondato il concorso di responsabilità sulla possibilità di sopravvivenza che la vittima avrebbe avuto ove si fosse sottoposta a trasfusione e sull'esposizione volontaria ad un rischio idonea a creare una corresponsabilità del danneggiato e a ridurre proporzionalmente la responsabilità del danneggiante - nell'impossibilità di invocare la teoria dell'aumento del rischio in relazione ad un comportamento preventivo involgente in modo così stringente la libertà di autodeterminazione di un soggetto nonché dalla incomparabilità del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti ove non sia in gioco una pluralità di comportamenti umani colpevoli (Cass. civ., 9 aprile 2003, n. 5539).

La Suprema Corte, ancora, precisa che il precedente posto dalla Corte d'Appello alla base del suo ragionamento e della sua decisione (Cass. civ., 26 maggio 2014, n. 11698) non era pertinente in quanto in quel caso la vittima - trasportata su un veicolo impegnato in una corsa clandestina di velocità e deceduta nell'evento - si era consapevolmente posta a bordo del veicolo ben sapendo che lo stesso da lì a breve sarebbe stato impegnato in una corsa clandestina.

La Suprema Corte, ancora, precisa che la Corte d'Appello del tutto erroneamente:

- ha utilizzato un non più in auge principio di autoresponsabilità e/o di un dovere, imposto dall'art. 2 Cost., di adozione di condotte idonee a limitare gli aggravi per gli altri in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile;

- ha esteso tale principio fino al punto di considerare come incauto il comportamento di chi, potendo prevedere il verificarsi di un incidente stradale produttivo di lesioni personali richiedenti una trasfusione di sangue, non si sia impegnato nell'adottare le opportune cautele;

- ha ritenuto legittimo pretendere che egli si astenesse dall'esporsi ai rischi derivanti dalla circolazione stradale, salvo sopportare le conseguenze del proprio comportamento irresponsabile o incauto;

- ha quindi addossato alla vittima, per effetto di una indefinita negligenza, le conseguenze dell'essersi trovato nel luogo in cui è avvenuto il fatto dannoso;

- ha privato surrettiziamente di pregio il pieno riconoscimento del diritto di un soggetto di rifiutare un trattamento sanitario e ciò a maggior ragione quando tale decisione sia assunta per ragioni religiose.

La Suprema Corte, ancora, precisa che la sua giurisprudenza è sempre più compatta ad affermare che il concorso non colposo del danneggiato lascia tendenzialmente intatto l'obbligo integrale risarcitorio a carico del danneggiante in quanto una diversa determinazione:

- finirebbe con l'addossare alla vittima, che contribuisce senza sua colpa alla causazione del danno, il peso dell'incidenza negativa della propria azione e/o omissione sull'evento finale;

- contrasterebbe con il principio generale che fonda sulla colpa la ragione per ascrivere una responsabilità altrimenti priva di significativa rilevanza giuridica;

- farebbe smarrire il significato complessivo della fattispecie di responsabilità, per il quale il danno ingiusto acquista rilievo sul piano risarcitorio non già di per sé, ma in quanto cagionato da una o più condotte (oppure da uno o più fatti) soggettivamente imputabili ad uno o a più soggetti.

La Suprema Corte, ancora, precisa che:

- se l'evento finale (il danno) risulta il frutto dell'azione combinata di due condotte, una colposa del danneggiante e l'altra non colposa del danneggiato, è corretto addebitare interamente il fatto e le conseguenze pregiudizievoli derivatene alla condotta colposa del danneggiante, in virtù del brocardo qui in re illicita versatur etiam pro casu tenetur;

- se, invece, il danneggiato è colpevole in toto o in parte non è corretto pretendere che il danneggiante assuma su di sé il peso, in toto o in parte, di un danno che non ha cagionato ovvero ha cagionato solo in parte.

La Suprema Corte, ancora, precisa che il diverso approdo giurisprudenziale non tiene conto che:

- l'art. 1227, comma 1, c.c. non è espressione del principio di autoresponsabilità ma costituisce applicazione dei principi della causalità e del funzionamento del nesso causale;

- la colpa cui fa riferimento l'art. 1227, comma 1, c.c. va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perché il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all'art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato ovvero come criterio di selezione delle concause rilevanti ai fini della riduzione del risarcimento (Cass. civ., 17 febbraio 2017 n. 4208; Cass. civ., 3 dicembre 2002 n. 17152).

- la concausa umana rilevante ai fini risarcitori è solo quella colposa, mentre va derubricata quella non colposa che è equiparata alla condotta naturale, perché come quest'ultima non cagiona un danno (ascrivibile alla categoria dei fatti imputabili), ma mere conseguenze negative.

La Suprema Corte, ancora, precisa che:

- il rifiuto della trasfusione di sangue (anche se salvavita) costituisce atto di esercizio di un diritto garantito dall'ordinamento;

- l'aliud agere preteso dal danneggiato - costituito dalla sottoposizione ad una terapia emotrasfusionale - non può essere preteso dal danneggiato e la sua omissione trova giustificazione nel legittimo rifiuto per motivi religiosi.

La Suprema Corte, ancora, precisa a sostegno del suo assunto che tale conclusione è confortata:

- dal principio secondo il quale - essendo la comparazione fra cause imputabili a colpa/inadempimento e cause naturali esclusivamente funzionale a stabilire, in seno all'accertamento della causalità materiale, la valenza assorbente delle une rispetto alle altre - non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità dell'apporto causale (e non della colpa) del danneggiante, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (Cass. civ., 6 maggio 2015 n. 8995; Cass. civ., 21 luglio 2011 n. 15991);

- dalla immodificabilità e/o invariabilità del principio su indicato nel caso in cui si deve accertare il peso causale del comportamento omissivo in quanto le differenti modalità di accertamento del nesso causale lasciano impregiudicato il fatto che quando si immagina la condotta da sostituire al processo statico lasciato dall'omissione si fa comunque riferimento ad una condotta doverosa (Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581).

Ciò, sostanzialmente, in quanto:

- sia la causalità dell'omissione che l'apporto concausale della condotta del danneggiato convergono e, sia pure attraverso percorsi argomentativi non del tutto sovrapponibili, si saldano su una premessa comune relativamente all'accertamento causalistico: la ricorrenza di una condotta colposa (in senso proprio od improprio) per l'imputazione della responsabilità e, pertanto, a tal fine occorre che il danno sia una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire, verificandosi un intreccio fra la causalità e la colpa, giacché la causalità nell'omissione non può essere meramente materiale, in quanto “ex nihilo nihil fit” ed il suo accertamento postula un giudizio ipotetico sulla idoneità dell'azione prescritta e colpevolmente omessa ad impedire l'evento, pur restando, comunque, distinguibili il piano della causalità e quello della colpevolezza (Cass. civ., 31 maggio 2005, n. 11609);

- l'omissione ricorre solo in caso di violazione di un preciso e specifico obbligo giuridico di comportamento;

- la violazione dei generici doveri di comportarsi secondo prudenza, diligenza, perizia determina soltanto la sussistenza dell'elemento soggettivo della colpevolezza quando si tratta di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), purché la condotta omissiva non è essa stessa considerata fonte di danno dell'ordinamento;

- l'omissione può essere causa o concausa di un evento di danno solo è possibile ravvisare ex ante un comportamento pretendibile.

La Suprema Corte - dopo aver affrontato e risolto il problema del nesso di causalità materiale - precisa che il problema del nesso di causalità giuridica e, quindi, della selezione delle conseguenze dannose risarcibili è affatto diverso (Cass. civ., 29 febbraio 2016, n. 3893).

La Suprema Corte, infatti, chiarisce che il suo orientamento in tema di risarcimento del danno e rifiuto della vittima a sottoporsi ad un trattamento sanitario è chiaro:

- nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario senza consenso;

- la scelta della vittima di non sottoporsi al trattamento sanitario al fine di ridurre l'entità del danno risentito non può incidere sul risarcimento del danno ad essa spettante;

- non può essere configurato alcun obbligo a carico della vittima di sottoporsi al trattamento sanitario in quanto il rifiuto non è inquadrabile nell'ipotesi di concorso colposo del creditore, previsto dall'art. 1227 c.c., intendendosi comprese nell'ambito dell'ordinaria diligenza di cui all'art. 1227, comma 2, c.c., soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (Cass. civ., 5 luglio 2007 n. 15231; Cass. civ., 10 maggio 2001 n. 6502).

La Suprema Corte, infatti, chiarisce che anche in altri casi ha ritenuto non esigibile dalla vittima ogni attività indirizzata al contenimento dei danni, che possa interessare in modo abnorme la libertà personale, creando obblighi autonomi condizionanti le scelte riconducibili alla libertà di autodeterminazione.

Cosi, per esempio, ha escluso che la vittima è tenuta:

- ad attivarsi giudizialmente per contenere i danni (Cass. civ., 21 aprile 1993, n. 4672; Cass. civ., 31 luglio 2002, n. 11364);

- ad iscriversi nelle liste di collocamento per evitare danni al datore di lavoro da cui è stato licenziato illegittimamente (Cass. civ., 6 agosto 2002, n. 11786);

- ad attivarsi per spegnere l'incendio sprigionatosi nell'immobile locato per contenere i danni (Cass. civ., 10 ottobre 1997, n. 9874).

La Suprema Corte, ancora, a sostengo del suo assunto precisa che:

- non è giustificata la possibilità di impiegare, nel caso esaminato, la valutazione equitativa per contenere l'esposizione risarcitoria dell'autore del comportamento illecito, perché ciò significherebbe arrecare, sia pure in via indiretta, un vulnus ad un diritto che, invece, trova sempre più ampio riconoscimento e garanzia di tutela;

- la natura del diritto esercitato e, cioè, il rifiuto dell'emotrasfusione, ha acquistato una tale rilevanza anche nella coscienza sociale da non ammettere limitazioni di sorta al suo esercizio;

- intervenire, pertanto, sul contenimento delle conseguenze risarcitorie a carico del danneggiante significherebbe indirettamente intervenire sull'intensità e sulla qualità del suo riconoscimento.

Osservazioni

La decisione in commento non è un vero è proprio leading case.

Lo specifico problema, infatti, è stato trattato da una precedente decisione di legittimità che già aveva affermato, seppur come mero obiter, che non potrebbe a priori negarsi tutela risarcitoria a chi abbia consapevolmente rifiutato una trasfusione di sangue perché in contrasto con la propria fede religiosa quand'anche gli si sia salvata la vita praticandogliela, giacché egli potrebbe aver preferito non vivere, piuttosto che vivere nello stato determinatosi (Cass. civ., 9 febbraio 2010 n. 2847).

Tale precedente è stato completamente ignorato dalla Suprema Corte nel caso in commento anche se non è dato sapere se ciò sia stato fatto consapevolmente o inconsapevolmente.

La decisione in commento è senz'altro da condividere sia per l'articolato e complesso percorso logico-giuridico seguito che per la soluzione adottata.

Il rifiuto della trasfusione di sangue per un credo religioso, infatti, non determina l'interruzione del nesso causale tra evento dannoso cagionato da terzi e successivo decesso della vittima.

Infatti:

- l'autore della condotta illecita risponde del danno per l'intero, senza alcuna riduzione proporzionale della responsabilità in ragione della minore gravità del suo apporto causale rispetto alla causa naturale, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (Cass. civ., Sez. Un. 21 novembre 2011 n. 24408; conf. Cass. civ., 11 novembre 2011 n. 28986; Cass. civ., 8 novembre 2019 n. 28811; Cass. civ., 22 dicembre 17 n. 30922; Cass. civ., 20 novembre 2017 n. 27524; Cass. civ., 29 febbraio 2016 n. 3893; Cass. civ., 13 novembre 2015 n. 23208; Cass. civ., 6 maggio 2015 n. 8995; Cass. civ., 13 gennaio 2015 n. 280; Cass. civ., 17 dicembre 2014 n. 26541; Cass. civ., 13 novembre 2014 n. 24204; Cass. civ., 21 luglio 2011 n. 15991; Cass. civ., 9 aprile 2003 n. 5539; Cass. civ., 16 febbraio 2001 n. 2335);

- il comportamento della vittima (rifiuto) è legittimo atteso che è tutelato dall'ordinamento ed, in particolare, da norme di rango superiore (artt. 2, 3, comma 1, 13, comma 1, 19 e 32, comma 2, Cost.);

- il comportamento della vittima (rifiuto) non è una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento-morte, ex art. 41, comma 2, c.p., rispetto al comportamento dell'agente in quanto la vittima senza la condotta illecita del terzo:

(-) non avrebbe riportato le lesioni personali che hanno creato un pericolo per la sua vita;

(-) non avrebbe necessitato delle cure da parte dei sanitari;

(-) non avrebbe necessitato della trasfusione di sangue salvavita;

- le cause sopravvenute idonee a escludere il rapporto di causalità sono quelle che:

(-) innescano un percorso causale completamente autonomo rispetto a quello determinato dall'agente (e tale non è la necessità di far ricorso alla trasfusione di sangue salvavita in quanto tale necessità deriva dalle lesioni cagionate dall'agente, senza le quali non vi sarebbe stata alcuna necessità di trasfusione);

(-) seppur inserite in un percorso causale ricollegato alla condotta (attiva od omissiva) dell'agente, si connotano per l'assoluta anomalia ed eccezionalità, sì da risultare imprevedibili in astratto e imprevedibili per l'agente (e tale non è il rifiuto della trasfusione di sangue, tra l'altro legittimo, per un credo religioso);

- il comportamento della vittima (rifiuto) non determina un suo concorso colposo, ai sensi dell'art. 1227, comma 1 e/o 2, c.c., anche in caso di suo decesso atteso che il rifiuto, in quanto legittimo, non può mai qualificarsi come “fatto colposo” e, quindi, imputabile;

- l'obbligo giuridico posto dall'ordinamento a carico del creditore o della vittima di un fatto illecito altrui di attivarsi, in adempimento dei principi generali di correttezza e buona fede di cui all'art. 1175 c.c., per evitare il danno o ridurre od elidere le conseguenze dannose, infatti, comprende solo quelle attività che rientrano nell'ambito dell'ordinaria diligenza e che, quindi, non sono:

(-) gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (Cass. civ., 15 ottobre 2018 n. 25750; Cass. civ., 30 luglio 2018 n.20146; Cass. civ., 29 settembre 2017 n. 22820; Cass. civ., 5 luglio 2017 n. 16484; Cass. civ., 4 luglio 2017 n. 16395; Cass. civ., 19 dicembre 2016 n. 26157; Cass. civ., 11 marzo 2016 n. 4865; Cass. civ., 10 luglio 2014 n. 15824; Cass. civ., 22 aprile 2013 n. 9722; Cass. civ., 20 settembre 2012 n. 15940);

(-) in contrasto con la sua libertà, la sua autodeterminazione ed il suo credo religioso (M. Liguori, Rifiuto della trasfusione di sangue: se il paziente poi muore, il nesso causale è interrotto?, in Ridare.it, 30 Giugno 2017).

La decisione in commento è senz'altro da apprezzare anche per il condivisibile richiamo al principio della coscienza sociale in un determinato momento storico, che ha posto alla base della sua decisione.

Il richiamo non era scontato in quanto la Suprema Corte, nel suo massimo consesso, pochi anni orsono aveva contestato il rilievo giuridico di tale parametro ed aveva ritenuto, in maniera non condivisibile, che «un'indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se può avere rilievo sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le diverse opzioni culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l'attività dell'interprete del diritto positivo» (Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2015 n. 15350).

La decisione in commento, se proprio si vuole “trovare il pelo nell'uovo”, è criticabile solo per la scelta del giudice di legittimità di rimettere la causa al giudice di merito anziché deciderla nel merito, così come il disposto di cui all'art. 384, comma 2, seconda alinea, c.p.c. le consentiva (rectius: imponeva) di fare).

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