L'istruttoria nell'arbitrato

Fabio Valerini
07 Aprile 2020

Lo svolgimento dell'attività istruttoria nell'arbitrato e l'individuazione delle regole che ne delimitano il quadro normativo rappresenta uno degli aspetti dove l'autonomia delle parti ha ampio margine di intervento pur nei limiti fisiologici della mancanza di imperium da parte degli arbitri. Si analizzeranno, quindi, quali sono i mezzi di prova utilizzabili nell'arbitrato e quali i messi di ausilio giudiziario previsti dalla normativa dando per superata l'individuazione del thema probandum (e, quindi, non analizzando, per ragioni di spazio, il tema dell'applicabilità del principio di non contestazione). Sarà dato spazio, infine, ad un tema discusso rappresentato dal c.d. arbitrato documentale e veloce dove, per espressa previsione delle parti (il più delle volte tramite il richiamo ad un regolamento arbitrale) si limitano i mezzi di prova utilizzabili ai fini della decisione.
Il quadro normativo

Le norme che disciplinano l'attività istruttoria nell'ambito dell'arbitrato sono principalmente contenute negli artt.816-bis e 816-ter e 829 c.p.c. per l'arbitrato rituale e nell'art. 808-terc.p.c. per quello irrituale. Tuttavia, il tema dell'istruttoria probatoria in arbitrato richiama anche tutta la normativa in materia di prove prevista tanto nel codice civile che nel codice di procedura civile quantomeno con riferimento alla possibilità che queste norme possano (ovvero debbano) trovare applicazione (e se sì a quali condizioni e/o con quali limiti) nel procedimento arbitrale. La complessità delle questioni che queste norme pongono (anche in ragione del fatto che presuppongono la risoluzione di questioni di teoria generale come la natura sostanziale o processuale delle regole in materia di prove contenute nel codice civile) impone in questa sede di limitare l'analisi alle problematiche legate ai principali mezzi di prova (e, quindi, rinviando l'esame dei temi, ad esempio, quello delle prove atipiche, dei poteri istruttori d'ufficio dell'arbitro, del principio di non contestazione e della valutazione della prova, ma anche della regola dell'onere della prova piuttosto che della regola della verosimiglianza delle allegazioni come criterio per la decisione arbitrale).

L'attività istruttoria in arbitrato: principi generali

Ebbene, l'arbitrato come, del resto, ogni metodo di risoluzione della controversia eteronomo necessita che la decisione sia fondata su una previa ricognizione dei fatti storici che compongono la situazione giuridica soggettiva (da una parte i fatti costitutivi, dall'altra i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi).

Sono due però i valori non negoziabili in materia di istruzione probatoria. Il primo è la tutela dell'art. 24 Cost. (che vale tanto il diritto d'azione che il diritto di difesa) che implica anche il diritto alla prova (con ogni conseguenza, poi, sui limiti di validità di eventuali previsioni pattizie delle parti in ordine allo svolgimento dell'istruttoria in arbitrato).

Il secondo è il necessario rispetto del principio del contraddittorio che rappresenta comunque il limite minimo che deve essere rispettato affinché un lodo non sia impugnabile (cfr. l'art. 829 c.p.c. ma anche 808-ter c.p.c.).

Nell'ambito dell'attività istruttoria (anzi, direi a maggior ragione in quest'ambito) occorre muovere dai principi e dalle regole che caratterizzano l'arbitrato: in particolare, il principio della libertà delle forme e la (conseguente) regola sull'applicabilità delle regole del processo civile in materia di prove (che comprende poi anche il tema della loro derogabilità).

Sul punto occorre ricordare come le Sezioni Unite con la sentenza n. 9839/2011 hanno affermato il principio di libertà delle forme del giudizio arbitrale: «la scelta legislativa, rimasta inalterata di rimettere alle parti, e in subordine agli arbitri, l'iniziativa e la determinazione delle regole del procedimento [è] la massima espressione del principio di libertà che governa l'arbitrato e dato normativo caratterizzante l'istituto, sancendone la deformalizzazione».

Sono le parti, quindi, che possono determinare le norme che devono essere osservate nel procedimento a pena di nullità.

Ferma la deformalizzazione dell'arbitrato la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che «ove gli arbitri non abbiano predeterminato espressamente ed univocamente, all'inizio del procedimento, la procedura dell'arbitrato con riferimento al complesso della disciplina del processo ordinario, al procedimento arbitrale non sono applicabili le regole di quel processo» riconoscendo, infine, agli arbitri la possibilità di discostarsi dalle prescrizione del codice di rito purché sia rispettato il principio del contraddittorio (che trova applicazione anche nell'arbitrato irrituale ex art. 808-ter, comma 2, numero 5, c.p.c.).

Così, ad esempio, la giurisprudenza ha chiarito che non vi sono forme particolari che devono essere seguite per le “convocazioni” in arbitrato.

La prassi che si riscontra negli arbitrati ad hoc non amministrati è che gli arbitri, specialmente quando sono avvocati, tendono a preferire quella che si può definire “zona di confort” e, quindi, di fare riferimento (se non applicazione) alla normativa del codice di procedura civile (normalmente quello vigente nello spazio-tempo di riferimento, ma nulla vieta che le parti possano scegliere una diversa versione del codice di rito oppure un codice di rito straniero).
La scelta, però, non sempre è indolore: le norme processuali statali possono essere sicuramente un punto di riferimento, ma non è detto che tutte le regole siano sempre applicabili in assenza di una scelta delle parti (o degli arbitri in apertura del procedimento) e che si debba fare applicazione di tutte le norme di un singolo istituto.

E così per fare un esempio, la Suprema Corte ha precisato che gli arbitri incorrono nella violazione del principio del contraddittorio «qualora abbiano stabilito la natura perentoria dei termini da loro fissati alle parti per le allegazioni e istanze istruttorie e, in relazione a tale determinazione, abbiano dichiarato decaduta una parte per il tardivo esercizio delle facoltà di proporre quesiti e istanze istruttorie, senza che la convenzione d'arbitrato, o un atto scritto separato o il regolamento processuale dagli arbitri stessi predisposto, prevedesse la possibilità di fissare termini perentori per lo svolgimento delle attività difensive e senza una specifica» (così Cass. civ., n. 22994/2018; sulle modalità di applicazione delle norme processuali si veda anche Cass. civ., n. 2717/2007 sulla possibilità di introdurre nuove domande).

Le prove documentali

Nessun dubbio è mai stato posto in ordine alla possibilità che in arbitrato abbiano ingresso tutte le prove pre-costiutuite come le prove documentali (anzi, talvolta, si tende a limitare i mezzi istruttori preferendo proprio la prova documentale). Ne deriva l'ammissibilità come prova, inter alia, dell'atto pubblico, della scrittura privata (autenticata e no) delle riproduzioni meccaniche ed informatiche ex art. 2712 c.c.

In questi casi il problema non è di ammissibilità, ma di che cosa avviene se (a) la parte intende contestare l'efficacia probatoria dell'atto pubblico (ovvero della scrittura privata autenticata) promuovendo una querela di falso e (b) se sorge la necessità di un giudizio di verificazione della scrittura privata a seguito del disconoscimento della sottoscrizione ad opera della parte nei cui confronti la scrittura è stata prodotta, specialmente nell'ipotesi in cui in quel giudizio sia prevista l'applicazione delle regole processuali ordinarie.

Ed infatti, se l'arbitro non è vincolato alle norme sostanziali e processuali ordinarie potrebbe accertare (si intende incidentalmente) la falsità dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata con tutti i mezzi di prova. Viceversa, laddove debba seguire le ordinarie regole processuali vi è sostanziale concordia nell'escludere l'ammissibilità della querela di falso (e, quindi, l'arbitro dovrebbe sospendere il giudizio in attesa della decisione del Tribunale sulla questione) mentre la dottrina è divisa tra chi esclude l'ammissibilità della verificazione in via incidentale della scrittura privata e chi l'ammette (precisando che l'efficacia di quella verificazione sarà esclusivamente endoprocessuale).

Prova testimoniale

La prova testimoniale in arbitrato è prevista espressamente dall'art. 816-ter c.p.c. il quale assicura anche l'assistenza giudiziaria agli arbitri nell'ipotesi in cui il testimone si rifiuti di comparire davanti a loro.

Ebbene, l'art. 816-terc.p.c. prevede due modalità di assunzione della testimonianza: ed infatti, «gli arbitri possono assumere direttamente presso di sé la testimonianza, ovvero deliberare di assumere la deposizione del testimone, ove questi vi consenta, nella sua abitazione o nel suo ufficio. Possono altresì deliberare di assumere la deposizione richiedendo al testimone di fornire per iscritto risposte a quesiti nel termine che essi stessi stabiliscono».

Sia la testimonianza resa nella sua tradizionale forma orale davanti all'arbitro (e, quindi, costituenda) che nella più recente forma scritta (e, quindi, precostituita) sono mezzi di prova tipici cui deve essere riconosciuta la stessa efficacia probatoria.

In estrema sintesi possiamo dire che gli aspetti più problematici riguardo la prova testimoniale in arbitrato (laddove confrontata con le regole della testimonianza nel processo statale), nel silenzio del legislatore (e delle parti), emergono nell'esame delle seguenti questioni.

La prima questione riguarda l'applicabilità anche in arbitrato dei limiti soggettivi ed oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale previsti dal codice civile e dal codice di procedura civile.

In quest'ambito, quindi, sarebbe possibile ad esempio che l'arbitro assuma la testimonianza della parte oppure utilizzi la testimonianza per acquisire un sapere tecnico (expert witness)

La seconda questione riguarda la possibilità che l'arbitro preveda modalità di assunzione della prova diverse da quelle del secondo libro del processo civile.

In questo senso, ad esempio, l'arbitro potrebbe preferire un sistema di assunzione della prova che valorizzi la cross examination con la possibilità delle parti (“parti” perché nell'arbitrato non è prevista l'assistenza tecnica obbligatoria dell'avvocato, quindi la possibilità di interrogare potrebbe essere riconosciuta direttamente alle parti) di interrogare direttamente i testimoni e non già porre far porre le domande all'arbitro. Ed ancora, l'arbitro potrebbe non richiedere una previa capitolazione di quanto potrà essere chiesto al testimone.

Giuramento

Molti dubbi sorgono (invero per lo più nella dottrina) circa la possibilità che in arbitrato possa essere deferito il giuramento (sia decisorio che suppletorio) e che, in ogni caso, la possibilità di attribuire al giuramento quell'efficacia sostitutiva della decisione che è propria del processo civile. E ciò sia che le parti abbiamo richiamato l'applicazione delle norme processuali civili oppure no.

Nonostante in alcune pronunce (alcune risalenti nel tempo) il giuramento in arbitrato è astrattamente ipotizzabile, alcuni autori hanno messo in dubbio il ricorso all'arbitrato anche per una considerazione non secondaria: l'efficacia del giuramento avrebbe senso a condizione che si possa incriminare penalmente chi spergiura. Ed infatti, per la maggioranza degli autori la norma penale sembra dettata più per il giudizio civile “statale” che per quello “arbitrale” (ancorché l'art. 371 c.p. nel punire chiunque giura il falso “in un giudizio civile” legittima una consentita interpretazione analogica che comprenda anche l'arbitrato).Senonché, la circostanza (ovviamente ove si convenga sulla premessa) che non sia penalmente perseguibile lo spergiuro non appare argomento decisivo: si pensi alla omologa situazione per cui non sarebbe possibile punire la falsa testimonianza che, però, non rende inammissibile il ricorso alla stessa in arbitrato. Del resto, la mancata criminalizzazione di una certa condotta (nel nostro caso il falso giuramento) non esclude certamente che quel fatto (lo spergiuro) sia fonte di responsabilità civile ex art. 2043 c.c. ancorché non abbia la capacità (ma soltanto per espressa previsione normativa) di consentire la revocazione del lodo per falso giuramento.

Ispezione, ordine di esibizione e richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione

L'arbitro può disporre un'ispezione come quella prevista dall'art. 118 c.p.c. e può emettere un ordine di esibizione come quello previsto ex art. 210 c.p.c.: laddove, però, il mezzo richiedesse la cooperazione del terzo, il mezzo potrebbe non approdare a nulla essendo l'arbitro sprovvisto di imperium e non essendo qui previsto un mezzo di ausilio giudiziario come per la testimonianza.

Diversamente, l'ultimo comma dell'art. 816-ter c.p.c. prevede espressamente che «gli arbitri possono chiedere alla pubblica amministrazione le informazioni scritte relative ad atti e documenti dell'amministrazione stessa, che è necessario acquisire al giudizio».

Consulenza tecnica d'ufficio

Nessun dubbio vi può essere sulla possibilità che gli arbitri possano disporre una consulenza tecnica d'ufficio visto il tenore del quinto comma dell'art. 816-ter c.p.c. secondo cui «gli arbitri possono farsi assistere da uno o più consulenti tecnici. Possono essere nominati consulenti tecnici sia persone fisiche, sia enti».

Rispetto a questa possibilità (e senza entrare nel dibattito in ordine al valore e funzione della consulenza tecnica e, cioè, se essa sia, o no un mezzo di prova) merita di essere approfondito un tema che si pone nell'arbitrato tutte le volte in cui gli arbitri vengono scelti per le loro qualità di tecnico della materia rilevante per il giudizio: ad esempio in un giudizio volto alla risoluzione del contratto di appalto per inadempimento dell'appaltatore l'arbitro unico (o il collegio, poco importa) è un ingegnere.

La questione che si è posta è la seguente: poiché l'ingegnere ha la competenza tecnica per sapere se l'opera è stata realizzata, o no, a regola d'arte, egli può decidere direttamente oppure deve svolgere comunque una consulenza tecnica d'ufficio?

Ed ancora laddove l'arbitro sia un tecnico, può conferire una consulenza tecnica d'ufficio ad un avvocato affinché risolva le questioni di diritto?

La risposta negativa a tale quesito trova conforto anche nella sentenza della Corte di cassazione, 7 giugno 1989, n. 2765 la quale ebbe modo di affermare che «gli arbitri rituali, ove tenuti a pronunciare secondo diritto, in assenza di una clausola del compromesso che autorizzi il ricorso alla equità od escluda l'impugnabilità del lodo, non hanno il potere di nominare un consulente tecnico e di affidargli la soluzione di quesiti giuridici occorrente per definire la controversia, ancorché essi siano privi di nozioni ed esperienza in materia legale (nella specie, trattavasi di un collegio di tre ingegneri), considerato che ciò implicherebbe una delega, in tutto od in parte, delle funzioni decisorie, la quale non è compatibile con la natura dell'arbitrato rituale secondo diritto, ove gli arbitri assumono attribuzioni non differenti da quelle del giudice ordinario».

Il che non toglie, ovviamente, che nel corso dell'arbitrato possa essere necessario chiedere un parere pro veritate ad un legale, ad esempio, sull'interpretazione di una certa norma del diritto straniero rilevante nel giudizio (e ciò eventualmente anche nelle forme della testimonianza dell'esperto).

Quid juris, però, se le parti nell'ambito della convenzione di arbitrato hanno espressamente escluso la possibilità per l'arbitro di disporre una consulenza tecnica in ragione delle competenze tecniche che deve possedere? In questo caso, secondo l'interpretazione che appare preferibile, l'arbitro potrà disporre una consulenza tecnica, ma i costi della stessa rimarranno a suo esclusivo carico.

Ed ancora, proprio con riferimento alla consulenza tecnica d'ufficio in arbitrato la Corte di cassazione ha avuto modo di fare una precisazione importante alla luce del principio di libertà di forme di cui abbiamo parlato in apertura da applicare con il limite del principio del contraddittorio. Ed infatti, la Suprema Corte ha ritenuto che non dava luogo a nullità la decisione fondata su una consulenza tecnica di ufficio la cui relazione tecnica si era basata anche su nuovi documenti prodotti da una parte al consulente tecnico di ufficio ma comunque resi conoscibili da quest'ultimo al consulente tecnico nominato dall'altra parte: il principio del contraddittorio era stato rispettato dal momento che il consulente di parte aveva potuto svolgere le proprie difese.

Arbitrato documentale o veloce

La possibilità delle parti di regolare il procedimento arbitrale secondo le loro esigenze consente in sede di stipula della convenzione di arbitrato (e ciò soprattutto tramite relatio ai vari regolamenti arbitrali) di prevedere una limitazione dei mezzi di prova utilizzabili?

Ed infatti, molti regolamenti di istituzioni arbitrali (sia pubbliche che private) prevedono, accanto all'arbitrato, per così dire, “ordinario” un arbitrato “documentale” o “veloce”. L'idea sottostante risiede in ciò che, per certe controversie (sia per l'oggetto sia per la qualità delle parti) può essere più conveniente (anche dal punto di vista del contenimento dei costi) avere una risposta più veloce a seguito di un'istruttoria semplificata le cui regole processuali siano, però, predeterminate nel momento in cui ho scelto la strada semplificata.

Regole “semplificate” e “predeterminate” (ad esempio è possibile allegare prove documentali, ma non testimoniali) e non già “sommarie” come nel caso del processo sommario di cognizione (dove il giudice procede all'assunzione delle prove nel modo che ritiene più opportuno omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio).

Sebbene nei regolamenti arbitrali questa facoltà sia assolutamente diffusa, parte della dottrina ha avanzato alcuni dubbi di compatibilità di questa possibilità quantomeno nelle ipotesi in cui la scelta avvenga nel momento della stipula della convenzione prima che sia sorta la controversia poiché si risolverebbe in una rinuncia preventiva in materia di prove che incontrerebbe, in ogni caso, il limite ai patti di inversione dell'onere della prova che, ex art. 2698 c.c., non devono avere come effetto quello di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l'esercizio del diritto.

Viceversa, potrebbe essere ritenuto ammissibile la scelta delle parti di aggravare il procedimento istruttorio prevedendo (beninteso prima dell'accettazione degli arbitri), ad esempio, che l'arbitro non possa fare applicazione della regola che gli consente di non ammettere le prove superflue e sovrabbondanti richieste dalle parti.

La rilevanza della violazione delle regole in materia di prova

Dobbiamo analizzare quali siano le conseguenze della violazione da parte degli arbitri delle regole in materia di prova.

Per l'arbitrato rituale le due norme fondamentali sono dettate dall'art. 829 c.p.c. ai numeri 7) e 9). Ed infatti, il lodo può essere impugnato per nullità se «nel procedimento non sono state osservate le forme prescritte dalle parti sotto espressa sanzione di nullità e la nullità non è stata sanata» e «se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio».

Per l'arbitrato irrituale le norme di riferimento sono contenute nel secondo comma dell'art. 808-ter c.p.c.: il n. 4) sanziona con l'annullabilità del lodo «se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo» e il n. 5) «se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio».

Anche per l'arbitrato irrituale, quindi, il rispetto del principio del contraddittorio e del diritto alla prova rappresenta un aspetto fondamentale come aveva già avuto modo di precisare la Suprema Corte secondo cui occorre che l'arbitro irrituale addivenga alla pronuncia di una «decisione, secondo diritto o equità e nel rispetto del principio del contraddittorio, al termine di un procedimento in cui, previa definizione del thema decidendum, sia stato consentito a ciascuna delle parti lo svolgimento di attività di allegazione, eccezione e prova su di un piano di parità».

Peraltro, la deduzione come motivo di impugnazione della violazione delle regole processuali, secondo l'interpretazione oramai seguita dalla giurisprudenza di legittimità è possibile a condizione che vi sia un interesse al mezzo: non è sufficiente una violazione processuale (qui invero qualificata) ma occorre che ci sia stata, in concreto, una lesione di un potere o di una facoltà della parte che se ne lamenta.

Per completezza è bene richiamare l'attenzione su ciò, che l'art. 831 c.p.c. assoggetta il lodo alla revocazione inter alia«se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza» e «se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario».

Effetti dell'assunzione della prova sui termini per il lodo

Infine, resta da dire di un effetto dell'assunzione delle prove sul procedimento arbitrale e, più precisamente sul rispetto del termine per la pronuncia del lodo da parte degli arbitri. Ed infatti, in base all'art. 820, comma 4 c.p.c. «se le parti non hanno disposto diversamente, il termine è prorogato di centottanta giorni nei casi seguenti e per non più di una volta nell'ambito di ciascuno di essi: a) se debbono, essere assunti mezzi di prova; b) se è disposta consulenza tecnica d'ufficio». Peraltro, il termine per la pronuncia rimane anche sospeso laddove l'arbitro abbia ammesso la testimonianza, ma il testimone si sia rifiutato di comparire e gli arbitri abbiano chiesto assistenza giudiziaria al presidente del tribunale affinché ne ordini la comparizione: in quest'ipotesi l'ultimo comma dell'art. 816-ter c.p.c. prevede che «la pronuncia del lodo è sospeso dalla data dell'ordinanza alla data dell'udienza fissata per l'assunzione della testimonianza».

Guida all'approfondimento
  • M. Bove, L'istruzione probatoria nel giudizio arbitrale, in Giusto proc. civ., 2014, fasc. 4;
  • E. Del Prato, I poteri innominati degli arbitri, DPUCP, 2018, 80;
  • A. Fabbi. La prova nell'arbitrato internazionale: Limiti all'autonomia della volontà nella disciplina dell'istruzione e modelli di case management della prassi del commercio internazionale, Torino, 2015;
  • F.P. Luiso, Diritto processuale civile, vol. V, Milano, 2019;
  • G. Verde, Lineamenti di diritto dell'arbitrato, 2018.
Sommario