Minaccia, mancata perquisizione e omicidio: nesso causale e responsabilità dei giudici

15 Aprile 2020

In tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra la condotta omissiva ed il fatto dannoso consiste nell'accertamento della probabilità, positiva o negativa, che la condotta omessa, se si fosse tenuta, avrebbe evitato il rischio specifico di danno; accertamento da compiersi secondo un giudizio controfattuale.

Il giudizio, che opera sostituendo l'omissione con il comportamento dovuto, deve compiersi secondo il criterio del “più probabile che non”, conformandosi ad un standard “...di “certezza probabilistica” (che) in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). In materia di illecito aquiliano, in presenza di più concause, l'accertamento del nesso materiale e di quella c.d. “prossima di rilievo” è oggetto dell'apprezzamento di fatto operata dal giudice di merito, che in grado di legittimità è sindacabile sotto il profilo della violazione del norme di diritto sostanziale di cui agli artt. 40 e 41 c.p. e 1227 c.p.

Tale in sintesi il contenuto della sentenza della Corte di Cassazione n. 7760, depositata l'8 aprile 2020, che ora andiamo ad analizzare più da vicino.

I fatti all'origine della vicenda giudiziaria. All'origine della vicenda giudiziaria vi è un efferato omicidio: l'uccisione - nell'ottobre 2007 -, a colpi di coltellate sulla pubblica via, di una giovane donna, madre di due minori da parte di quello che stava per diventare il suo ex marito; tra i due era infatti in corso una causa di separazione caratterizzata da forte conflittualità in relazione all'affidamento dei figli. L'uomo venne arrestato subito dopo, tratto a giudizio e condannato per l'omicidio della moglie. Ciò su cui i giudici sono chiamati a decidere nel giudizio de quo, attiene ad una circostanza in particolare: qualche tempo prima di essere uccisa, nel mese di giugno, la donna aveva denunziato che l'uomo le si era mostrato intento a pulirsi le unghie della mano con un coltello. I giudici non avevano disposto la perquisizione dell'uomo e per conseguenza nemmeno il sequestro dell'arma che eventualmente sarebbe seguito. Tale omissione integra, secondo il ricorrente – esercente la potestà genitoriale per conto dei due figli minori della donna – la responsabilità dei magistrati e dunque il diritto al risarcimento dei danni da parte dello Stato in applicazione della l. n. 117 del 13 aprile 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati.

Per la Corte d'Appello nessuna condotta avrebbe potuto evitare l'omicidio. Prospettazione, questa, non condivisa dalla Corte d'appello – che riforma la sentenza del tribunale, favorevole alla richiesta attorea -. I giudici dell'appello affermano le seguenti considerazioni. Risulta incontestato che, a seguito delle due denunce presentate dalla donna, non vi fu alcun atto di perquisizione e sequestro, avendo la Procura proceduto solo alla doverosa iscrizione dell'uomo nel registro degli indagati per i reati dei cui agli artt. 612 (Minaccia) e 388 (Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) c.p. e 4 l. n. 110/1975 (in materia di porto di armi o oggetti atti ad offendere) con successivo esercizio dell'azione penale ex art. 459 e ss. c.p.p. Successivamente, la sentenza evidenza: che all'epoca dei fatti le norme non consentivano l'emissione di misure cautelari per i fatti denunziati; che non era ancora stato introdotto nell'ordinamento il reato di c.d. stalking (oggi previsto nell'art. 612-bis c.p. ad opera del d.l. n. 11/2009, conv. con modif. dalla l. n. 38/2009); che dalle risultanze della C.T.U. disposta nel giudizio di separazione non risultavano patologie psichiatriche dell'uomo; che, inoltre, dalla certificazione del Servizio Territoriale delle tossicodipendenze, questi non risultava in stato di dipendenza da droghe; mancavano quindi i presupposti previsti per la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico o in casa di cura ex art. 73 e ss. c.p.p. e per il trattamento sanitario obbligatorio ex art. 32 e ss., l. n. 833/1978. Pur con le dette precisazioni, tendenti ad escludere la condotta inadempiente degli organi pubblici, la Corte d'Appello continua però “a ritenere dirimente … la mancata effettuazione di una perquisizione”, anche se pone il dubbio, per inciso, che il coltello mostrato alla donna ed oggetto di denuncia fosse poi stato quello utilizzato per ucciderla (evidenziando peraltro che già in precedenza, nel marzo del 2007, l'uomo aveva consegnato ai carabinieri un coltello). La sentenza prosegue affermando che “l'unico addebito che può, pertanto, muoversi alla Procura della Repubblica” è quello della mancata effettuazione della perquisizione dell'arma utilizzata per minacciare la moglie e del successivo sequestro e, nella disamina del nesso causale tra la detta omissione e l'omicidio, conclude che, in considerazione della fermezza mostrata dall'uomo - si era trattato non di un omicidio d'impeto, ma premeditato e compiuto nell'incuranza di essere immediatamente scoperto – “l'omissione addebitabile alla Procura sia stata eziologicamente inefficiente, poiché la perquisizione e l'eventuale sequestro non avrebbero impedito la morte della giovane mamma”. Insomma, per la Corte territoriale qualunque intervento dell'ufficio giudiziario non sarebbe valso ad impedire l'uccisione della donna: l'uomo si sarebbe potuto facilmente procurare un nuovo coltello e lo avrebbe utilizzato, stante l'intento omicida che emerge dal successivo svilupparsi degli eventi.

Il c.d. giudizio controfattuale non ammette la negazione di ogni possibile antecedente logico. La decisone della Corte dell'Appello però, secondo la sentenza qui in commento, non rispetta il criterio del c.d. giudizio controfattuale: pur dichiarando di applicarlo, infatti, in realtà lo contraddice, negando la rilevanza di qualunque antecedente logico possibile. La Corte rammenta il principio dalla giurisprudenza in tema di responsabilità civile secondo cui la verifica del nesso causale tra la condotta omissiva ed il fatto dannoso consiste nell'accertamento della probabilità, positiva o negativa, che la condotta, se si fosse tenuta, avrebbe evitato il rischio specifico di danno; accertamento da compiersi secondo appunto il giudizio controfattuale. Tale giudizio, una volta sostituita l'omissione con il comportamento dovuto, deve compiersi secondo il criterio del “più probabile che non”, “conformandosi ad un standard “...di “certezza probabilistica” (che) in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana).” (Cass. civ., n. 23197/2018, che a sua volta cita Cass. civ., SS.UU. n. 584/2008). La sentenza rammenta poi l'orientamento costante di legittimità secondo cui in materia di illecito aquiliano, in presenza di più concause, l'accertamento del nesso materiale e di quella c.d. “prossima di rilievo” è oggetto dell'apprezzamento di fatto operata dal giudice di merito, che in grado di legittimità è sindacabile sotto il profilo della violazione di norme di diritto sostanziale di cui agli artt. 40 e 41 c.p. e 1227 c.p. (tra le più recenti, si cita Cass. civ., n. 13096/2017). E, precisa la Corte, accertamento di tipo fattuale è anche quello che il giudice effettua qualora si tratti di responsabilità civile ex l. n. 117/1988, dove l'ipotesi tipica attiene proprio all'interpretazione a applicazione di norme giuridiche (richiama Cass. civ., n. 13189/2015). Nel caso concreto, afferma la Corte, il criterio dell'accertamento controffattuale non è rispettato dalla sentenza impugnata, perché essa, “anche attraverso una eccessiva frammentazione dei fatti, con conseguente inintellegibile polverizzazione di alcuni episodi … priva di rilevanza l'antecedente logico” dato dall'omissione dove afferma che qualunque condotta sarebbe stata inutile ad evitare l'evento, che si sarebbe comunque verificato. Così operando, si conclude, la Corte d'Appello “ha dilatato l'incidenza dell'inadempienza dell'organo giudiziario ai limiti del caso fortuito e della forza maggiore e in ogni caso ha ristretto l'evitabilità dell'evento ai soli casi di assoluta impossibilità di una condotta positiva alternativa”.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

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