Padre avvocato-arbitro e figlio difensore di una parte: illecito anche se le parti non eccepiscono nulla

17 Aprile 2020

Con la sentenza del 9 aprile 2020, n. 7761 le Sezioni Unite della Cassazione hanno avuto modo di affermare alcuni importanti principi in materia di deontologia dell'avvocato in rapporto all'arbitrato.

Il tema centrale affrontato, direi concordemente, sia dal Consiglio dell'Ordine che dal Consiglio Nazionale Forense e, quindi, dalla Cassazione attiene all'individuazione di quale sia il comportamento corretto dell'avvocato che assuma la qualità di arbitro quando una parte di quel procedimento è assistita da un avvocato che condivide lo studio con lo stesso.
Peraltro, il tema, proprio perché coinvolge questioni di incompatibilità, deve essere tenuto particolarmente in considerazione da parte di chi viene nominato arbitro perché l'affidamento dell'istituto arbitrale (e la sua diffusione) dipende senz'altro dalla capacità di chi riveste il ruolo di arbitro di apparire (oltre che essere) imparziale.

L'oggetto dell'esposto. L'esposto da cui aveva preso le mosse il procedimento disciplinare muoveva da un arbitrato irrituale avente ad oggetto la richiesta della società Alfa di veder condannare la ditta Beta esecutrice di alcuni lavori presso il suo albergo al risarcimento dei danni subiti in conseguenza di alcuni vizi.
La società Beta aveva nominato arbitro l'avvocato Tizio mentre Caio, anche lui avvocato e figlio di Tizio, era l'avvocato che assisteva Beta nell'arbitrato.
L'avvocato Tizio aveva rappresentato la sua disponibilità a rinunciare, ma tutte le parti avevano ritenuto di non sollevare eccezioni sulla sua incompatibilità così che mantenne l'incarico.
Il lodo riconobbe il diritto di Alfa a ottenere una somma di circa un milione di euro, ma Alfa non riuscì ad ottenere il dovuto perché la maggior parte dei beni di Beta, poco prima del lodo, erano stati conferiti in trust di cui Caio era stato nominato trustee.
Dal canto suo l'avvocato Tizio aveva sottoposto a pegno le quote sociali per il pagamento del suo compenso di arbitro, mentre l'unico bene immobile di Beta era stato oggetto di un contratto di lease back.

Gli illeciti disciplinari. Per il Consiglio dell'Ordine Tizio è stato sottoposto a procedimento disciplinare per aver accettato e mantenuto l'incarico di arbitro nonostante il figlio (che condivideva il suo studio) fosse il legale di una delle parti e perché aveva agito su uno dei beni della società “liberi” così diminuendo le possibilità di soddisfazione della società Alfa, mentre Caio per aver consigliato, compiuto e permesso atti di occultamento patrimoniale arrivando anche a rivestire la qualità di trustee.
All'esito del procedimento Tizio è stato sanzionato con la censura (anche in considerazione della “brillante e stimata carriera” nonostante la gravità degli addebiti) così come Caio per aver accettato la carica di trustee (mentre era stato assolto dall'incolpazione di aver consigliato gli atti di occultamento siccome non provata).
Anche il Consiglio Nazionale Forense aveva confermato la decisione del Consiglio dell'ordine rigettando il ricorso dei due avvocati.

In particolare, per il CNF la norma (oggi) dell'art. 61 comma 3 (olim l'art. 55) secondo «L'avvocato non deve accettare la nomina ad arbitro se una delle parti del procedimento sia assistita, o sia stata assistita negli ultimi due anni, da altro professionista di lui socio o con lui associato, ovvero che eserciti negli stessi locali» si applica tanto all'arbitrato rituale che irrituale e prescinde dall'eventuale “consenso” delle parti.
Peraltro, la causa di incompatibilità dell'arbitro opera, diciamo così, “nell'interesse pubblico” e rappresenta senz'altro una giusta causa di recesso dall'incarico.
In questi casi non ci si può limitare a rappresentare alle parti la circostanza, ma occorre trarre le conseguenze dell'incompatibilità e quindi rinunciare all'incarico.

Illecito permanente e autonomo. Secondo la Suprema Corte questa circostanza messa in evidenza correttamente dal CNF ha un duplice effetto.
In primo luogo, determina che l'illecito deontologico consistente nel mantenere l'incarico nonostante la causa di incompatibilità deve essere qualificato come illecito permanente che termina o con il recesso o con l'emanazione del lodo.
In secondo luogo, poi, il mantenimento dell'incarico è un illecito autonomo rispetto a quello dell'assunzione dell'incarico.

Irrilevante la mancanza di contestazioni. Inoltre, per la Suprema Corte «alcun effetto sanante può attribuirsi alla circostanza per cui nessuna contestazione all'assunzione e all'espletamento del mandato arbitrale venne mossa nel corso del procedimento arbitrale dalla parte che successivamente ha denunciato al Consiglio dell'Ordine la commissione di un illecito disciplinare».
Ed infatti – prosegue la Corte – «il divieto di assunzione è … inteso a tutelare il profilo deontologico dell'avvocatura garantendo l'indipendenza e l'imparzialità del collegio arbitrale in quanto tale e a prescindere dalla correttezza dello svolgimento effetti del mandato. Sicché non è negoziabile dalle parti».

*Fonte: www.dirittoegiustizia.it

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.