Speciale: Licenziamento individuale - Parte III - Omessa contestazione disciplinare. Integrazione della motivazione. Contestazione o licenziamento tardivi
29 Aprile 2020
Abstract
La tematica dei vizi formali o procedimentali - cui si riferisce l'art. 18, comma 6, st.lav. (ove è previsto, tra l'altro, che nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966, nonché della procedura di cui all'art. 7 st.lav., si applica la tutela indennitaria “debole”; disposizione analoga è prevista, per i c.d. nuovi assunti, dall'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015) - è stata affrontata dalla S.C. con alcuni recenti interventi, che hanno sottratto dalla sfera di operatività della citata disposizione i vizi di omessa e non immediata contestazione (salvo, a tale ultimo riguardo, la precisazione di cui “infra”) per ricondurli all'area dei vizi sostanziali; segnatamente, il primo vizio rientrerebbe nella tutela di cui al comma 4 dell'art. 18 st. lav. mentre il secondo in quella del comma 5 del medesimo articolo (e, quanto ai nuovi assunti, deve ritenersi, per correlazione, ai sensi dei commi 2 ed 1 dell'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, che prevede norme analoghe). Tuttavia, la contestazione “tardiva” rispetto ad un termine, di norma breve, stabilito dalla legge (nel settore, deve ritenersi, del pubblico impiego privatizzato) o dalla contrattazione collettiva – normalmente decorrente dall'avvenuta conoscenza dell'infrazione ad opera del datore – riveste natura di vizio attinente al procedimento e trasmoda in vizio sostanziale, come si è detto, solo se la tardività fuoriesce ampiamente dai predetti limiti temporali, in misura tale da compromettere il diritto di difesa. Quanto al licenziamento “tardivo” la situazione è meno definita, poiché il panorama giurisprudenziale - per come si vedrà in seguito - non sembra ancora sufficientemente delineato. Quanto, invece, al profilo della omessa contestazione, non è espressamente affrontato il tema della possibilità di soddisfare le esigenze di difesa cui la contestazione è preordinata attraverso la motivazione del licenziamento, quanto meno ove lo stesso venga intimato a distanza breve o comunque contenuta dall'avvenuta cognizione del fatto ad opera del datore, ciò che potrebbe indurre a riconsiderare e graduare la tutela applicabile nel quadro del sistema delineato dalla riforma “Fornero” e dal “Jobs Act”. Né, su diverso versante, è ancora del tutto chiaro quando la motivazione del licenziamento omessa o non contestuale possa dar luogo a vizio formale o sostanziale, occorrendo affrontare le differenze “ontologiche” che caratterizzano la motivazione nel licenziamento disciplinare rispetto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che non è preceduto da un atto come la contestazione. In questo breve “excursus”, come in quelli precedenti concernenti il licenziamento per “gmo” ed il licenziamento disciplinare, si cercherà di illustrare le implicazioni derivanti dalle varie opzioni interpretative sin qui adottate sulle sopra menzionate questioni, sempre nell'intento di offrire un contributo verso la ricostruzione di un quadro auspicabilmente armonico del sistema di tutele avverso il licenziamento illegittimo.
Secondo l'interpretazione della S.C., l'omessa contestazione disciplinare determina vizio sostanziale, sanzionato con la tutela reintegratoria “attenuata” di cui all'art. 18, comma 4, st.lav. (onde, deve ragionevolmente ritenersi, anche ai sensi della analoga previsione di cui all'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, quanto ai nuovi assunti): “Il radicale difetto di contestazione dell'infrazione determina l'inesistenza dell'intero procedimento, e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al comma 4 dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito” (così Cass. 24 febbraio 2020, 4879; in senso conforme v., in precedenza, Cass. 14 dicembre 2016, n. 25745).
Il nucleo argomentativo poggia sul rilievo che “ai sensi dell'art. 18, comma 4, st.lav., tale tutela è prevista in caso di «insussistenza del fatto contestato», che implicitamente non può che ricomprendere anche l'ipotesi di inesistenza della contestazione (…) si ritiene che la previsione normativa, che parla di «fatto contestato» (fatto materiale contestato nel regime del d.lgs. 23 del 2015), sia indicativa della necessità che il fatto, la cui sussistenza o insussistenza deve essere accertata in giudizio, sia delineato nei suoi esatti termini e contorni in sede di contestazione. Ciò risulta coerente anche con la esigenza di riconoscere idonee garanzie di difesa al lavoratore in sede di giustificazioni”.
A tale ipotesi, dovrebbe ragionevolmente essere equiparata quella della divergenza della motivazione contenuta nel licenziamento rispetto alla contestazione (ed infatti un'incolpazione non “replicata” nel licenziamento è come se non fosse stata mai formulata), della quale il giudice non potrà tener conto. Né, a maggior ragione, potrà rilevare la diversa motivazione contenuta direttamente nella memoria difensiva, come parrebbe desumersi da quanto di recente affermato da Cass. 25 marzo 2019, n. 8293, in ordine ai criteri per individuare i margini di tollerabilità della “divergenza”: “Il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, che vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, può ritenersi violato qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del giudizio, circostanze nuove che, in violazione del diritto di difesa, implicano una diversa valutazione dei fatti addebitati, salvo si tratti di circostanze confermative, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre, ovvero che non modifichino il quadro generale della contestazione (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, rispetto ad una contestazione relativa ad irregolarità nella negoziazione di titoli di credito, commesse da un dipendente di un istituto credito, non aveva valutato, ai fini della sussistenza della giusta causa, il diverso addebito, specificato solo nel corso del giudizio, della richiesta di prestiti ad un cliente per far fronte ad una forte esposizione debitoria)”.
In buona sostanza, secondo questa impostazione, la contestazione disciplinare, sebbene sia una motivazione, in qualche modo, anticipata del recesso datoriale (tant'è che in quest'ultimo viene di norma richiamata per relationem), gioca, in quanto componente essenziale del procedimento disciplinare, un ruolo del tutto autonomo; infatti essa potrebbe intervenire anche un giorno prima del licenziamento (potendo in tal caso considerarsi tardiva, con le conseguenze su cui infra), ma non, secondo il richiamato indirizzo, per la prima volta, sotto forma di motivazione, nello stesso atto di licenziamento, e, tanto meno, successivamente.
Circa la persuasività di tale approdo occorre però formulare alcune considerazioni.
La “ratio” della contestazione disciplinare è quella di consentire al lavoratore di difendersi nel procedimento disciplinare, che è funzionale, però, solo ad una eventuale desistenza del datore dal comminare la sanzione; il datore medesimo, tuttavia, come è noto, potrebbe comunque disinteressarsi delle giustificazioni rese dal lavoratore ed intimare ugualmente il licenziamento.
Ciò che quindi rileva, in concreto, per il lavoratore, è che il medesimo possa esercitare adeguatamente, ove la sanzione disciplinare sia comminata, il diritto di difesa nel processo; e ciò è possibile se egli può avere consapevolezza dell'incolpazione quanto prima possibile.
Quindi, proprio ragionando sul piano del diritto di difesa del lavoratore nel giudizio, il punto davvero rilevante dovrebbe essere non tanto (o non solo) l'omissione della contestazione quanto che tale omissione si perpetui, sotto forma di omessa motivazione del licenziamento: infatti, in questo caso il lavoratore che agisca in giudizio si troverà davvero esposto a difendersi da un “non fatto”, così giustificandosi l'applicazione della tutela reintegratoria attenuata per l'insussistenza del fatto contestato. Viceversa, ove – omessa la contestazione – intervenga la motivazione del licenziamento, il lavoratore avrà gli elementi per procedere alla predisposizione della difesa nel processo, ed allora la violazione dell'omessa contestazione dovrebbe essere riguardata unicamente come vizio formale passibile di tutela indennitaria debole. Ad analoga conclusione dovrebbe pervenirsi allorché ci si trovi di fronte ad una divergenza sostanziale fra la contestazione e la motivazione del licenziamento: infatti, come nel caso della contestazione del tutto omessa, la motivazione consente al lavoratore di approntare la difesa nel giudizio, con la precisazione che, in questo caso, la pregressa contestazione deve intendersi assorbita e superata dalla motivazione divergente (realizzandosi la violazione della regola della immutabilità della contestazione, avente natura procedurale) e non potrà più entrare nell'orizzonte decisorio del giudice.
Tuttavia, rispetto a questo schema occorre introdurre due ulteriori elementi che debbono essere valutati nel quadro della verifica sull'effettiva salvaguardia del diritto di difesa: la completezza e tempestività della contestazione e/o della motivazione. Non vi è dubbio, infatti, che una contestazione (o motivazione) generica è tamquam non esset, così come una contestazione (o motivazione) che intervenga a distanza di anni (o comunque un considerevole lasso di tempo) dall'avvenuta cognizione dei fatti da parte del datore rischi di pregiudicare le concrete possibilità difensive del lavoratore.
Peraltro, anche seguendo il ragionamento espresso dalla S.C. in ordine alla riconducibilità della mancata contestazione al paradigma della “insussistenza del fatto contestato”, lo stesso dovrebbe logicamente estendersi anche al difetto di tutti gli elementi che sono presupposti di legittimità della contestazione stessa, ossia la specificità e tempestività, sicché occorrerebbe, coerentemente ricondurre i vari vizi, di analoga valenza, ad una medesima sanzione.
Tuttavia, nell'affrontare il tema della genericità della contestazione, la S.C., almeno in una prima pronuncia (Cass. 10 agosto 2016, n. 16896), ha affermato che “Nell'ipotesi in cui la contestazione disciplinare, finalizzata al licenziamento, non contenga una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore, è applicabile l'art. 18, comma 6, st.lav. (nella formulazione ratione temporis vigente, risultante dalla l. n. 92 del 2012), con riferimento alle ipotesi di vizi di forma attinenti alla motivazione del recesso, come ora disciplinata dall'art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966, con conseguente dichiarazione giudiziale di risoluzione del rapporto di lavoro e condanna del datore al pagamento di un'indennità risarcitoria compresa tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”.
La pronuncia è significativa, poiché è riferita a vicenda in cui il datore di lavoro aveva precisato i profili dell'addebito solo con la memoria di costituzione, ed all'esito del giudizio il licenziamento era stato ritenuto legittimo sotto il profilo sostanziale. Sicché la pronuncia stessa, ritenendo applicabile la tutela indennitaria “debole”, pare porsi in contrasto con l'orientamento all'inizio richiamato (che correla la tutela reintegratoria “attenuata” all'omessa contestazione), poiché la genericità della contestazione dovrebbe equivalere, come già detto, a mancanza della stessa; sicché per entrambi i casi la sanzione dovrebbe essere identica.
Tale approccio, però, potrebbe essere rivisto alla luce di una successiva pronuncia (Cass. 24 luglio 2018, n. 19632) nella quale non è stata considerata la parte di addebito formulata in maniera generica: “In tema di licenziamento disciplinare, ove la contestazione sia stata formulata in maniera generica per una parte dell'addebito, è corretto l'operato del giudice di merito che abbia valutato, ai fini della verifica circa la legittimità, o meno, della sanzione, solo i fatti specificamente contestati, senza tener conto dei fatti genericamente indicati. (Nella specie, ritenuta la contestazione specifica in relazione alla condotta di "alterazione manuale delle timbrature delle presenze" e generica in ordine al conseguente fine di vantaggio - non potendosi evincere quali fossero le alterazioni da ricollegare ad un fraudolento occultamento dell'assenza dal luogo di lavoro -, il licenziamento è stato riconosciuto illegittimo perché sproporzionato ed applicata la tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5, st. lav. riformulato).”. Ciò che potrebbe condurre alla conclusione che una contestazione formulata genericamente equivale, nella sostanza, ad un'omessa contestazione, giustificando la tutela reale ove la contestazione non sia sufficientemente corroborata con ulteriori elementi neppure in sede di motivazione del licenziamento, mentre l'integrazione contenuta nella motivazione renderebbe la violazione suscettibile di sanzione indennitaria debole, quale violazione procedurale ai sensi del comma 6 dell'art. 18 st. lav.
Sul piano della tempestività, occorre considerare come il fattore temporale incida pesantemente sul diritto di difesa, oltre che sull'aspettativa del lavoratore di ritenere “superato” l'episodio disciplinare. Infatti, non sembra subire un grave pregiudizio il lavoratore che, ad esempio, venga estromesso dall'azienda con licenziamento motivato a distanza di tre mesi dall'ipotetica commissione dell'infrazione. Egli, infatti, subito dopo il licenziamento, potrà predisporre adeguatamente, visto l'esiguo lasso di tempo trascorso dall'accadimento dei fatti, la strategia difensiva in vista del processo.
Ben più grave è il pregiudizio che il dipendente subisce ove la contestazione sia stata sì formulata, ma a notevole distanza di tempo da quando il datore ha avuto conoscenza dell'infrazione; qui il lavoratore avrà immaginabili difficoltà a ricostruire l'accaduto e ad approntare un efficace apparato probatorio a discarico, a nulla valendo che una contestazione vi sia stata e che essa sia stata successivamente seguita da un licenziamento motivato che ad essa abbia fatto rinvio.
Tuttavia, per tale ipotesi, è stata ritenuta (cfr. Cass., SU, 27 dicembre 2017, n. 30985) l'applicabilità della tutela indennitaria “forte” (ex art. 18, comma 5, st. lav.), ossia meno incisiva di quella riconosciuta per il caso di omessa contestazione.
Sul punto sembra dunque apprezzabile una “distonia” nel quadro di modulazione delle tutele.
Sembra allora forse più coerente ammettere che ove l'incolpazione sia contenuta direttamente nel licenziamento, si applichi solo la tutela indennitaria “debole” ove tra il momento di avvenuta cognizione dei fatti ad opera del datore e quello di intimazione del licenziamento sia trascorso un esiguo lasso di tempo (qui, infatti, il lavoratore non subisce alcun concreto pregiudizio al suo diritto di difesa, sicché il vizio è meramente procedurale); oppure quella indennitaria “forte” ove tra i due momenti sia intercorso un ampio lasso temporale, sì da ritenersi che la contestazione (espressa nella motivazione) sia meramente “tardiva” e non “omessa”.
In questa ricostruzione, al fine di “dare corpo” ed oggettiva verificabilità al canone discretivo incentrato sul pregiudizio alla difesa, giova richiamare un precedente, nel quale la S.C. ha riservato a sé, come questione di diritto sindacabile in sede di legittimità, la valutazione del lasso temporale suscettibile di integrare o meno violazione del diritto di difesa (Cass. 27 settembre 2018, n. 23346: “In tema di licenziamento per giusta causa, mentre spetta al giudice di merito verificare in concreto quando un potenziale illecito disciplinare sia stato scoperto nei suoi connotati sufficienti a consentirne la contestazione in via disciplinare, costituisce questione di diritto, sindacabile in sede di legittimità, determinare se l'arco temporale intercorso tra la scoperta dell'illecito disciplinare e la sua contestazione dia luogo, o meno, a violazione del diritto di difesa del lavoratore.”).
A fronte della complessità del tema occorrerà vedere come si muoverà la giurisprudenza. Ai sensi dell'art. 2, commi 2 e 3, della l. n. 604 del 1966, la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato; in difetto, il licenziamento stesso è definito inefficace e la tutela prevista dal legislatore in proposito è, ai sensi degli artt. 18, comma 6, st.lav., e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, quella indennitaria “debole”.
Si tratta però in concreto di appurare la effettiva sfera di operatività di tale impianto normativo, solo in apparenza di agevole decifrazione.
Ed infatti esso presuppone che la motivazione mancante (o generica) al momento di irrogazione del licenziamento possa essere integrata (o specificata) successivamente. Ove infatti ciò non fosse possibile, il vizio diverrebbe sostanziale, poiché un licenziamento privo di motivazione non può fornire evidenza del “fatto”, da provare, che ne dovrebbe essere causa legittimante.
Per tentare una disamina lineare occorre distinguere tra licenziamento per giustificato motivo oggettivo e licenziamento disciplinare.
Nel primo caso l'unica questione è stabilire fin quando possa, pur “tardivamente”, ferma restando la applicazione della tutela indennitaria “debole”, intervenire una motivazione del licenziamento.
Sembra certo che essa possa sempre essere resa (o precisata) dopo il licenziamento con apposito atto, come si evince anche dalla previsione normativa, secondo cui il termine per l'impugnazione del licenziamento decorre dalla comunicazione dei motivi, ove non contestuale alla comunicazione del recesso (art. 6, comma 1, l. n. 604 del 1966).
Potrebbe, invece, prospettarsi il dubbio se la motivazione possa per la prima volta essere contenuta nella memoria difensiva.
In proposito, anche proprio valorizzando il disposto normativo poc'anzi richiamato, che correla chiaramente la stessa decorrenza del termine per l'impugnazione del recesso all'esternazione dei motivi, sembrerebbe doversi optare decisamente per la negativa, non potendosi costringere il lavoratore ad agire “al buio” per poi impostare la strategia difensiva sulla base di quanto illustrato nella memoria difensiva nei ristrettissimi margini fra il deposito della stessa e la prima udienza. Potrebbe obiettarsi che il lavoratore che sceglie di agire senza attendere la motivazione si espone a tale rischio, ma è evidente che l'argomento, per così dire, prova troppo, perché se è vero che non si matura alcuna decadenza a carico del dipendente, è anche vero che non è ragionevole interpretare la norma nel senso di una sostanziale paralisi della reazione del lavoratore in attesa di una motivazione che potrebbe anche non intervenire mai.
Ma vi è di più; proprio le considerazioni dianzi svolte inducono a precludere anche la possibilità di una motivazione che intervenga successivamente all'impugnazione del lavoratore, quanto meno quella giudiziale, se non quella stragiudiziale, in quanto, in quel momento, la strategia processuale è già stata compiutamente delineata ed incartata ed un atto integrativo successivo esporrebbe comunque il dipendente a dover rivedere pressoché integralmente le proprie difese in sede di prima udienza, a meno di non dover immaginare (ma parrebbe ipotesi non percorribile anche per il rischio di proliferazione dei giudizi) un'ulteriore e diversa impugnazione collegata alla comunicazione dei motivi.
Nella giurisprudenza della S.C. la questione non risulta direttamente affrontata, anche se a conforto dell'opzione negativa qui prospetta sembra potersi citare un precedente che ha esaminato una questione analoga di identica valenza. Infatti, Cass. 20 marzo 2019, n. 7851, ha affermato che “Il datore di lavoro non può addurre in giudizio, a giustificazione del licenziamento, fatti diversi da quelli già indicati nella motivazione enunciata al momento dell'intimazione del recesso, ma soltanto dedurre mere circostanze confermative o integrative che non mutino la oggettiva consistenza storica dei fatti anzidetti; il principio di contestualità ed immodificabilità della motivazione ha natura imperativa e la sua violazione è sanzionata con l'inefficacia del licenziamento”.
Se tale indirizzo verrà confermato, esso non potrà che applicarsi anche al caso di licenziamento con motivazione carente o generica, la quale non potrà essere introdotta, pertanto, per la prima volta nella memoria difensiva e, preferibilmente, neppure in un atto separato successivo alla notificazione del ricorso del lavoratore ed antecedente alla scadenza dei termini per il deposito della memoria difensiva.
Di conseguenza, il licenziamento privo di motivazione (o con motivazione generica) - ove quest'ultima non venga esternata prima del giudizio – dovrebbe integrare la “manifesta insussistenza del fatto” (ai sensi dell'art. 18, comma 7, st.lav.), in quanto il datore, come sopra anticipato, non potendo esprimere le ragioni del licenziamento in memoria, non può neppure dare la prova in giudizio della legittimità del licenziamento stesso.
Con riguardo al licenziamento per mancanze il ragionamento è analogo ma lievemente più articolato, attesa la presenza di un procedimento disciplinare, sicché la motivazione può, in qualche modo, essere anticipata nella “contestazione”, ossia nell'incolpazione, che poi verrà, di norma, richiamata, anche solo per rinvio, nel licenziamento.
Per l'ipotesi in cui la contestazione manchi o sia divergente rispetto al licenziamento si fa rinvio a quanto visto nel paragrafo precedente concernente l'omessa contestazione, ribadendo, per quanto qui interessa, che le ragioni dell'incolpazione devono per lo più coincidere con quelle del licenziamento e poi, ancora, con quelle indicate nella memoria difensiva, non potendo il giudice tener conto di ragioni diverse ed ulteriori, contenuta nella memoria, ove non meramente confermative od integrative, rispetto a quelle anticipate con la contestazione e ribadite con il licenziamento.
Ove invece l'addebito formulato con la contestazione non sia ripreso, neppure tramite rinvio, nel recesso, si rientra nell'ipotesi di mancanza della contestazione, perché il licenziamento immotivato travolgerebbe anche la contestazione già formulata. Occupandosi della problematica relativa alla tutela derivante dalla violazione del principio di tempestività o immediatezza della contestazione disciplinare, le Sezioni Unite, con la citata sentenza n. 30985 del 2017, hanno distinto due ipotesi: a) quella in cui, per come già anticipato, la tardività (ingiustificata) è riferita allo scorrere di un ampio lasso temporale dall'avvenuta cognizione dei fatti ad opera del datore, con conseguente applicazione della tutela indennitaria “forte” di cui all'art. 18, comma 5, st.lav.; b) quella in cui la tardività è correlata alla scadenza di un termine di legge o di contratto collettivo entro cui formulare la predetta contestazione, con applicabilità della tutela indennitaria “debole” di cui all'art. 18, comma 6, st.lav.
La ragione della diversificazione delle tutele, benché non espressamente illustrata nella sentenza delle Sezioni Unite, dovrebbe risiedere nel fatto che, nel secondo caso, la violazione ha carattere effettivamente procedurale, perché l'unico interesse leso è quello del lavoratore alla certezza di una determinata situazione giuridica che lo riguarda, ossia quella di vedersi contestati gli addebiti entro un determinato arco temporale, decorrente dall'avvenuta conoscenza dei fatti ad opera del datore, di solito assai breve (15 o al più 30 giorni); in linea generale non vi è, qui, diversamente dal primo caso, alcun affidamento del lavoratore medesimo a non subire procedimenti disciplinari e neppure una violazione del suo diritto di difesa. Ed infatti l'inutile scadenza del termine non attesta, ragionevolmente, né una inerzia significativa implicante un intento datoriale di non perseguire l'illecito disciplinare, né un pregiudizio alle esigenze difensive del lavoratore, che sarà comunque nelle condizioni di raccogliere adeguatamente il materiale istruttorio a lui utile in vista dell'eventuale irrogazione della sanzione.
La situazione però dovrebbe mutare ove la contestazione sia formulata, ad esempio, a distanza di un anno dalla scadenza del termine legale o convenzionale; in tale ipotesi, alla violazione procedurale si sovrappone quella di natura sostanziale che, appunto, si realizza allorquando vengano pregiudicate esigenze difensive del lavoratore e venga leso il suo affidamento, ingenerato da una prolungata e non giustificata inerzia del datore, a non vedersi perseguito disciplinarmente. Pertanto, nella predetta ipotesi dovrebbe applicarsi la sola tutela indennitaria forte (dovendo in essa ritenersi assorbita quella debole, essendo da escludersi il cumulo delle tutele, ai sensi del richiamato comma 6 dell'art. 18 st.lav., ove è previsto che ove il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, applica le tutele di cui ai commi quarto, quinto e settimo, ossia quella reintegratoria attenuata o quella indennitaria “forte”).
Se dal vizio relativo alla contestazione passiamo ad esaminare il licenziamento intimato oltre il termine stabilito dalla contrattazione collettiva, in un primo precedente (Cass. 16 agosto 2016, n. 17113) trovasi l'affermazione che “La violazione del termine per l'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare, stabilito dalla contrattazione collettiva (nella specie, dall'art. 8, comma 4, del c.c.n.l. Metalmeccanici), è idonea a integrare una violazione della procedura di cui all'art. 7 st.lav., tale da rendere operativa la tutela prevista dall'art. 18, comma 6, dello stesso Statuto, come modificato dalla l. n. 92 del 2012”; la soluzione, quindi, coincide con quella valevole in tema di contestazione intimata fuori termine.
Sullo sfondo vi è, probabilmente, l'idea che il richiamo all'art. 7 st.lav. ad opera del citato art. 18, comma 6, st.lav., non debba considerarsi limitato al solo procedimento disciplinare di concezione legale, bensì vada interpretato in maniera più ampia, sì da ricomprendere - in ossequio ai canoni di logica e ragionevolezza - anche quello di creazione negoziale nonché quei profili che vanno semplicemente ad innestarsi sul procedimento di matrice statutaria.
Benché la soluzione appaia ragionevole, essa sembra urtare avverso il dato letterale della disposizione da ultimo richiamata, ove è previsto che la tutela indennitaria “debole” si applichi solo per violazioni della procedura di cui all'art. 7 st.lav. (e, deve ritenersi, per le stesse violazioni procedurali, o di analoga natura, delineate in maniera diversa o più dettagliata dalla contrattazione collettiva), che però non comprende anche la irrogazione della sanzione, disciplinando la fase che va dalla contestazione a quella immediatamente antecedente alla predetta irrogazione.
Certo è, però, che la tutela indennitaria “forte” - a stretto rigore applicabile - potrebbe rivelarsi eccessiva a fronte di un licenziamento intimato, ad esempio, dopo due giorni dalla scadenza del termine stabilito per la sua irrogazione.
Sicché, potrebbe ritenersi che, benché la violazione non attenga tecnicamente alla procedura di cui all'art. 7 st.lav. e non trovi quindi una correlazione con una violazione legale, essa determini, tuttavia, rispetto alla legge, un miglioramento della posizione del lavoratore ed un contestuale aggravamento della posizione del datore (giacché un licenziamento intimato, ad esempio, dopo trenta giorni dalla contestazione non sarebbe, in difetto di un termine, tardivo), con la conseguenza che la tutela va modulata sulla base dell'interesse che la previsione convenzionale ha inteso proteggere. E non pare dubbio che l'interesse in questione, qui, sia quello del lavoratore alla mera certezza di una situazione giuridica che lo riguarda, ossia lo stesso interesse che nel sistema è protetto con l'applicazione della tutela indennitaria “debole” in caso di sua lesione.
Tuttavia, in un caso analogo a quello esaminato dalla pronuncia sopra indicata, la S.C., più di recente (Cass. 3 settembre 2018, n. 21569), ha affermato che “La violazione del termine di cui all'art. 21, n. 2, comma 3, del c.c.n.l. gas e acqua del 2011, secondo cui, se il provvedimento disciplinare non viene emanato nei dieci giorni lavorativi successivi al quinto giorno dal ricevimento della contestazione, le giustificazioni si riterranno accolte, non integra una mera violazione di natura procedimentale ma comporta la totale mancanza della giusta causa per effetto dell'ammissione del datore di lavoro dell'insussistenza della condotta illecita sanzionata; ne deriva che, in tale ipotesi, la tutela applicabile è quella di cui all'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970 e non quella di cui al comma 6 della predetta norma”.
Ciò sul principale rilievo che “il ritardo nell'irrogazione della sanzione, contravvenendo un silenzio che vale come accettazione delle difese del lavoratore, si risolve in un venire «contra factum proprium», contrario alla clausola di buona fede che presidia il rapporto di lavoro”, con conseguente “insussistenza del fatto contestato per avere il datore di lavoro accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa. L'addebito mosso a carico del lavoratore era, infatti, venuto a cadere per l'intervenuta implicita ammissione da parte del datore di lavoro dell'insussistenza della condotta illecita che rendeva il fatto contestato non più configurabile come mancanza sanzionabile”.
Ma potrebbe invece ritenersi, da un lato, che la violazione della buona fede costituisce un inadempimento comportante l'applicabilità della tutela indennitaria “forte”, per come ricavabile dalla citata sentenza delle Sezioni Unite; dall'altro, che la tutela reintegratoria, in tal caso, creerebbe uno sbilanciamento nel sistema, in quanto essa sarebbe prevista per una violazione certamente meno rilevante di quella che si avrebbe – nell'ipotesi in cui non sia stabilito alcun termine – in presenza di licenziamento “tardivo” in quanto intimato a lunga distanza dalla contestazione disciplinare; in tale ultimo caso, infatti, benché la Cassazione non si sia ancora pronunziata al riguardo, è lecito ipotizzare che debba applicarsi la tutela indennitaria “forte”, in analogia a quanto visto a proposito della tardività della contestazione, venendo in rilievo gli stessi pregiudizi.
Si tratta quindi di verificare, sui vari profili, come si muoverà per l'avvenire la giurisprudenza, tenuto anche conto del segnalato contrasto. Conclusioni
Le delicate questioni sollevate dai temi affrontati necessitano un approfondimento sistemico e complessivo, che valga ad inserire in un quadro auspicabilmente coerente i diversi vizi formali e/o procedurali nell'ambito del sistema di modulazione di tutele discendente dalla riforma “Fornero” e dell'applicazione del “Jobs Act” per i nuovi assunti.
Nel presente contributo, partendo dall'esame delle soluzioni interpretative offerte dalla S.C. in ordine ai casi sinora emersi, è stato tentato un approccio ricostruttivo orientato a riconoscere la tutela reintegratoria laddove il vizio procedurale si traduca in una mancanza del fatto posto a base del licenziamento, la tutela indennitaria debole ove il vizio non attinga tale soglia, ma rimanga confinato sul piano della regolarità formale, collocandosi l'area della tutela indennitaria forte nella sfera intermedia, inquadrabile come irregolarità formale che comporta un qualificato pregiudizio alla tutela del lavoratore sì da trasmodare in vizio sostanziale.
In sintesi, allo scopo di offrire una panoramica di insieme pur nella consapevolezza dei limiti di un'analisi necessariamente semplificata rispetto ad una tematica così complessa ed intrecciata, potrebbe offrirsi la seguente chiave interpretativa:
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