Legittima la decisione dell'opposizione al decreto di revoca del gratuito patrocinio emesso dal collegio da parte di un giudice monocratico

Redazione scientifica
04 Maggio 2020

La Corte costituzionale dichiara inammissibile le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 170 del d.P.R. n. 115/2002 e 15 del d.lgs. n. 150/2011, rispetto ai parametri di cui agli artt. 3 e 97 Cost., nella parte in cui prevedono che l'opposizione al decreto di revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato emesso da un giudice collegiale sia decisa da un giudice monocratico, ancorché individuato nel capo dell'ufficio. La Corte, peraltro, non trascura di effettuare significative precisazioni sulle numerose “aporie” del sistema di tutela giurisdizionale in tema di patrocinio a spese dello Stato.

Il caso. Il Presidente delegato della Corte di appello di Torino - investito dell'opposizione contro un decreto di revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato in favore di un richiedente protezione internazionale emesso, a seguito del rigetto per manifesta infondatezza del gravame proposto, dalla stessa Corte d'appello in composizione collegiale - sollevava questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 170 del d.P.R. n. 115/2002 e 15 del d.lgs. n. 150/2011, nella parte in cui prevedono che l'opposizione al decreto di revoca dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato emesso da un giudice collegiale sia decisa da un giudice monocratico, ancorché individuato nel capo dell'ufficio.

Il rimettente denunciava, in primo luogo, le norme impugnate per contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., stante l'irragionevolezza di un meccanismo, costituente un unicum nel sistema processuale, nel quale un giudice monocratico è chiamato a sindacare un provvedimento emesso dal collegio, tanto più ove – come nella fattispecie esaminata – lo stesso attenga ad una revoca del patrocinio a spese dello Stato per questioni sovrapponibili a quelle deducibili in sede di impugnazione della decisione di merito, ossia per avere il beneficiario agito in giudizio con mala fede o colpa grave ex art. 136, comma 2, T.U. in materia di spese di giustizia.

Interveniva in giudizio, con il patrocinio dell'Avvocatura Generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri, per chiedere di dichiarare le questioni di legittimità costituzionale manifestamente inammissibili o infondate, rimarcando l'inapplicabilità dell'art. 97 Cost. alle previsioni sull'organizzazione del processo e l'ampia discrezionalità del legislatore ordinario nella conformazione degli istituti processuali. La difesa erariale sottolineava, inoltre, che i provvedimenti in materia di ammissione e revoca del patrocinio a spese dello Stato hanno natura amministrativa e non giurisdizionale.

La decisione della Corte costituzionale. Dopo la ricostruzione del quadro normativo, anche precedente all'emanazione del T.U. in materia di spese di giustizia, la Corte costituzionale trae le mosse, invece, proprio dall'affermazione della natura giurisdizionale dei provvedimenti che revocano il patrocinio a spese dello Stato, in quanto incidenti su un diritto soggettivo che trova saldo fondamento costituzionale nell'art. 24, comma 3, Cost.

In questa prospettiva la Corte sottolinea la necessità di individuare uno strumento affinché il beneficiario del provvedimento di ammissione oggetto di revoca possa contestare tale decisione nel contraddittorio con l'altra parte (da individuarsi, giova ricordare, nel Ministero della Giustizia, secondo un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, quale titolare del rapporto passivo di debito: Cass. civ., Sez. Un., n. 8516/2012).

Tale rimedio, non contemplato espressamente dal d.P.R. n. 115/2002, rileva la Corte costituzionale, è costituito, secondo quanto di recente affermato dalle stesse Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass. civ., Sez. Un., n. 4315/2020), dall'opposizione al decreto di pagamento di cui all'art. 170 del medesimo decreto che, a propria volta, modula le proprie forme processuali attraverso un rinvio alla disciplina a tal fine dettata dall'art. 15 del d.lgs. n. 150/2011 sulla semplificazione dei riti civili.

Non trascura, nella diffusa motivazione, la Corte costituzionale di fornire significative precisazioni sulla natura di tale strumento, che non deve considerarsi quale mezzo di impugnazione del provvedimento di revoca, costituendo la fase a cognizione piena ed esauriente, in unico grado di merito, di un procedimento unitario che si apre con la pronuncia inaudita altera parte del decreto con il quale viene accertato dal “giudice che procede” l'insussistenza o il venir meno del diritto del beneficiario al patrocinio a spese dello Stato.

Ciò porta con sé la non irrilevante conseguenza – ben rimarcata dalla pronuncia del giudice delle leggi – per la quale non costituirebbe motivo di astensione obbligatoria (e quindi di ricusazione del giudice) del giudice dell'opposizione l'aver emanato o concorso ad emanare il provvedimento oggetto della stessa (seguendo il medesimo iter argomentativo utilizzato, ad esempio, nella decisione della Corte costituzionale sul rito cd. Fornero).

Nonostante tali ampie premesse, la Corte dichiara inammissibile la questione di costituzionalità correlata al parametro di irragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. sottolineando la discrezionalità, particolarmente ampia, del legislatore processuale.

Soprattutto, evidenzia la Corte, un eventuale accoglimento della questione prospettata sarebbe fortemente manipolativo, in quanto implicherebbe necessarie puntualizzazioni, ai fini del rispetto del principio del giudice naturale pre-costituito per legge, sui criteri di individuazione dei colleghi chiamati a decidere le opposizioni su decreti di revoca emessi da un giudice collegiale, sol che si rifletta sulla circostanza che, nell'affastellato sistema normativo costruito ancor oggi in materia di patrocinio a spese dello Stato, al giudice civile è rimessa tanto la cognizione sui provvedimenti in materia pronunciati dal giudice penale, che dallo stesso giudice amministrativo.

Sarebbe quindi necessario un riordino del sistema normativo complessivo che non spetta alla Corte costituzionale, bensì al legislatore ordinario (cui viene implicitamente, e neppure tanto, sollecitato di intervenire).

La questione di legittimità costituzionale delle stesse norme impugnate per contrasto con l'art. 97 Cost. è invece dichiarata infondata stante l'inapplicabilità del parametro alle norme che disciplinano il processo.

Per quanto riguarda invece la questione di inammissibilità del profilo di censura riguardante «l'inapplicabilità del criterio di liquidazione del compenso nel caso di estinzione della procedura esecutiva prima della vendita dell'immobile stimato» eccepita dal Presidente del Consiglio dei ministri, essa risulta non fondata. Il rimettente ha osservato che, nel caso di estinzione atipica della procedura esecutiva, l'esperto non solo non potrà percepire alcun compenso ma dovrà restituire anche gli acconti già incassati. Questa incongruenza è addotta dal giudice a quo «come un ulteriore elemento sintomatico dell'irragionevolezza della disposizione che è chiamato ad applicare nel decidere sulla domanda di liquidazione dell'esperto».

Dunque, circa il criterio di determinazione del compenso dello stimatore, per costante giurisprudenza di questa Corte, «il diritto di percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.) non è correttamente evocato con riguardo all'opera prestata dagli ausiliari del giudice. L'adeguatezza del compenso, difatti, non può essere valutata con riferimento all'art. 36 Cost., che postula un necessario e logico confronto tra prestazioni e retribuzione e la possibilità di ricostruire l'incidenza delle singole prestazioni sulla complessiva attività dell'ausiliario e sulla formazione dell'intero reddito professionale del singolo prestatore». Tali presupposti difettano nel caso in esame.

Inoltre, il fatto che, «il valore di stima dell'immobile differisca dal valore di vendita, e che, nella stima del bene, si prescriva un criterio di massima, il valore di mercato, disatteso nella liquidazione del compenso, non denota di per sé l'irragionevolezza della previsione censurata. Il valore di vendita, difatti, pur condizionato da numerose variabili, non è inidoneo a rispecchiare il pregio dell'impegno professionale, secondo un rapporto di ragionevole correlazione».

Con la riforma delle procedure concorsuali (d.l. n. 83/2015), anche la giurisprudenza di legittimità ha equiparato, sotto il profilo funzionale, la figura dell'operatore esperto di cui all'art. 107 R.d. n. 267/1942 a quella dell'esperto incaricato di determinare il valore degli immobili assoggettati alla vendita forzata e da ciò deriva anche l'omogeneità del criterio di determinazione del compenso. Il compenso dell'esperto, dunque, deve essere liquidato a norma dell'art. 161, comma 3, disp. att. c.p.c.

Infine, il legislatore consente la liquidazione di acconti nella misura del 50% del valore di stima; anche in questo ambito, la novella dettata dal d.l. n. 83/2015 ha attuato «un bilanciamento non irragionevole tra i diversi interessi rilevanti e non ha mancato di apprestare tutela anche al diritto dei professionisti di ricevere – senza dilazioni ingiustificate – un compenso adeguato all'impegno garantito».

Sulla base di questi motivi, la Corte costituzionale dichiara inammissibili, perché tardivi, gli interventi spiegati dall'APE nazionale e regionale, nonché da altre Associazioni del settore e dichiara infondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 161, comma 3, disp. att. c.p.c., aggiunto dall'art. 14, comma 1, lett. a-ter, d.l. n. 83/2015 sollevate dal Tribunale di Vicenza, in riferimento agli artt. 3, 36, 41, 97 e 117, comma 1, Cost., «quest'ultimo in relazione al principio di proporzionalità, quale principio generale del diritto comunitario primario».

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.