Speciale: Licenziamento individuale - Parte IV - Orale; dello pseudo-datore di lavoro; in "frode alla legge" e cessione d'azienda invalida

Luigi Di Paola
12 Maggio 2020

In tema di licenziamento orale vi sono, allo stato, a quanto consta, due pronunzie (analizzate nel prosieguo) nelle quali si trova affermato che ove il lavoratore non provi l'atto espulsivo (benché non siano neppure dimostrate le sue dimissioni) la domanda di ripristino del rapporto andrà rigettata...
Abstract

In tema di licenziamento orale vi sono, allo stato, a quanto consta, due pronunzie (analizzate nel prosieguo) nelle quali si trova affermato che ove il lavoratore non provi l'atto espulsivo (benché non siano neppure dimostrate le sue dimissioni) la domanda di ripristino del rapporto andrà rigettata; sicché viene configurato un modo di cessazione del rapporto ulteriore rispetto a quelli già conosciuti, determinati da dimissioni o da risoluzione bilaterale del rapporto. Attesa la delicatezza del tema si tenteranno alcune riflessioni al riguardo, anche alla luce della giurisprudenza pregressa.

Sembra invece sufficientemente consolidato l'orientamento secondo cui il licenziamento intimato dallo pseudo-datore di lavoro debba essere imputato al vero datore di lavoro; con la conseguenza che il licenziamento in questione deve essere impugnato a pena di decadenza e che la domanda promossa in giudizio dal lavoratore introduce una ordinaria causa di impugnativa del licenziamento (seguendone tutte le regole), e non una volta alla costituzione del rapporto di lavoro direttamente con l'utilizzatore (conseguenza che, tuttavia, sembrerebbe da valutare alla luce della complessiva disciplina dettata in tema di interposizione in senso lato).

Vi è, infine, il tema, assai spinoso (perché investe aspetti di “sistema”), della ipotizzabilità, attualmente, di un licenziamento “in frode alla legge” ogni qual volta la disciplina del licenziamento si riveli per il datore più vantaggiosa di quella concernente altre fattispecie in cui venga comunque in considerazione la illegittima cessazione del rapporto ed un conseguente ordine ripristinatorio accompagnato dalla condanna del predetto datore al pagamento di una somma idonea a compensare, in vario modo ed a vario titolo, il prestatore della “forzata” mancata esecuzione della prestazione lavorativa. L'ipotesi, oggi, potrebbe avere un qualche riscontro nella realtà, avuto riguardo soprattutto al recente mutamento di orientamento della S.C. in materia di nullità della cessione di azienda, incentrato sul riconoscimento della natura non più, come ritenuto in passato, risarcitoria, bensì “retributiva” delle somme perse dal lavoratore a seguito della mancata riammissione in servizio alle dipendenze del cedente, con conseguente non operatività di alcuna detrazione per effetto della retribuzione comunque corrisposta nel periodo dallo pseudo-cessionario. Sicché nella vicenda il lavoratore fruisce della retribuzione sia da parte del datore di lavoro originario sia da quello “di fatto”, anche in relazione allo stesso periodo; il che non è ammesso nella disciplina del licenziamento assoggettato a tutela reintegratoria, in virtù della previsione dell'aliunde perceptum. Si tratta pertanto di valutare se, in tal caso, il datore possa legittimamente avvantaggiarsi, con riguardo al profilo specifico, della più favorevole disciplina del licenziamento pur in presenza di un provvedimento giudiziale che abbia dichiarato la nullità della cessione di azienda.

In questo breve excursus, come in quelli precedenti, si formuleranno alcune osservazioni sulle sopra menzionate questioni, caratterizzate da evidente complessità e delicatezza, alla luce, ancora una volta, della ricostruzione del complessivo sistema civilistico.

V. anche: Luigi Di Paola, Ileana Fedele, Questioni aperte in materia di licenziamento individuale:

Parte I - Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Parte II - Licenziamento disciplinare.

Parte III - Omessa contestazione disciplinare. Integrazione della motivazione del licenziamento. Contestazione o licenziamento tardivi.

Il licenziamento orale

La Cassazione ha statuito di recente (Cass. 8 febbraio 2019, n. 3822, seguita da Cass. 16 maggio 2019, n. 13195), che “Il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l'intimazione senza l'osservanza della forma scritta ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell'esecuzione della prestazione lavorativa; nell'ipotesi in cui il datore eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore e all'esito dell'istruttoria - da condurre anche tramite i poteri officiosi ex art. 421 c.p.c. - perduri l'incertezza probatoria, la domanda del lavoratore andrà respinta in applicazione della regola residuale desumibile dall'art. 2697 c.c.”.

In buona sostanza, secondo tale orientamento, ove il lavoratore non riesca a dar prova del licenziamento, la sua domanda volta alla ricostituzione del rapporto andrebbe respinta.

L'orientamento in questione, tuttavia, non pare condivisibile per diverse ragioni.

Infatti il rapporto di lavoro, per tradizionale insegnamento, può cessare per cause tipizzate dalla disciplina di settore, ossia per licenziamento o dimissioni (cfr., tra le più recenti, Cass. 3 dicembre 2013, n. 27058, ove si legge che “Nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, la volontà delle parti di realizzare l'interesse alla cessazione dei suoi effetti può essere attuata soltanto mediante il negozio unilaterale di recesso - licenziamento e dimissioni -, con la conseguenza che, sebbene si sia in presenza di un contratto a prestazioni corrispettive, non si applica la disciplina della rescissione, della risoluzione per inadempimento o per eccessiva onerosità, sicché, in difetto di una specifica autorizzazione legislativa ad incidere sulla materia dell'estinzione del rapporto di lavoro, all'autonomia delle parti - individuali o collettive - non è dato inserire clausole di durata del rapporto - fuori dei casi previsti dalla legge - e neppure condizioni risolutive ai sensi dell'art. 1353 c.c. o condizioni risolutive espresse ai sensi dell'art. 1456 c.c.”).

In aggiunta, viene in considerazione la risoluzione consensuale, quale causa prevista in via generale dal sistema.

Ne consegue che in difetto di licenziamento, di dimissioni o risoluzione per mutuo consenso, il rapporto di lavoro è da considerarsi in essere (al pari di quanto accade in tutte le ipotesi di contratti a termine riqualificati come subordinati a tempo indeterminato).

E tale è la situazione che dovrebbe verificarsi ove il lavoratore non dia prova del licenziamento ed il datore non riesca ad offrire la dimostrazione di un altro atto di cessazione del rapporto (cioè dimissioni o risoluzione consensuale).

Nella descritta situazione, il lavoratore non potrà ovviamente fruire della tutela reintegratoria e risarcitoria prevista per il caso di accertato licenziamento orale. Tuttavia, non dovrebbe essergli precluso di poter conseguire la “riattivazione” del rapporto - basata sulla sussistenza e non operatività di fatto di quest'ultimo -, nonché ottenere le retribuzioni dalla c.d. “messa in mora” (sicché l'eccezione e prova delle dimissioni può essere superflua solo ai fini del disconoscimento della tutela ex art. 18 st.lav., diventando invece necessaria - salva la rilevabilità officiosa della risoluzione consensuale per mutuo consenso - ove il datore intenda opporsi alla tutela ripristinatoria e risarcitoria di diritto comune, non essendovi, peraltro, in tal caso, alcuno sbarramento determinato dall'operatività di decadenze, applicandosi solo il regime prescrizionale quanto alla pretesa monetaria).

La soluzione della Cassazione, invece, sembra impedire l'operatività del testé descritto meccanismo, finendo per riconoscere una forma “atipica” di cessazione del rapporto di lavoro, integrata dalla mancata prova del licenziamento orale.

In senso contrario, in passato, si era pronunciata Cass. 16 maggio 2001, n. 6727, ove è affermato che “Nei giudizi di impugnativa di un licenziamento, ai fini della prova di quest'ultimo - il cui onere grava sul lavoratore -, non può ritenersi sufficiente la prova della cessazione di fatto delle prestazioni lavorative o, di per se stesse, di circostanze quali il rifiuto o la mancata accettazione delle prestazioni da parte del datore di lavoro, ferma restando la necessità della adeguata valutazione della incidenza sostanziale o probatoria di queste circostanze, sotto il profilo dell'integrazione di un licenziamento per fatti concludenti o della prova della sussistenza di un precedente atto risolutivo del datore di lavoro. La mancata prova del licenziamento, peraltro, non comporta di per sé l'accoglibilità della tesi - eventualmente sostenuta dal datore di lavoro - della sussistenza delle dimissioni del lavoratore o di una risoluzione consensuale, e, ove manchi la prova adeguata anche di tali altri atti estintivi, deve darsi rilievo agli effetti della perdurante sussistenza del rapporto di lavoro, per quanto di ragione (in relazione anche al principio della non maturazione del diritto alla retribuzione in difetto di prestazioni lavorative, salvi gli effetti della eventuale mora credendi del datore di lavoro rispetto alle stesse), tenuto presente anche che, quando è chiesta la tutela (cosiddetta reale) di cui all'art. 18 legge n. 300 del 1970 o all'art. 2 della legge n. 604 del 1966, l'impugnativa del licenziamento comprende la richiesta di accertamento di inesistenza di una valida estinzione del rapporto di lavoro, della vigenza del medesimo e di condanna del datore di lavoro alla sua esecuzione e al pagamento di quanto dovuto per il periodo di mancata attuazione”.

Il precedente in questione era stato ribadito da Cass. 4 giugno 2018, n. 14202.

L'indirizzo promosso dalle sentenze del 2019, pertanto, se ulteriormente confermato, modificherebbe radicalmente la fisionomia del sistema generale che governa le modalità di cessazione del rapporto di lavoro, in quanto configurerebbe la mancata prova del licenziamento orale quale causa di estinzione del rapporto, benché essa sia inidonea a costituire attestazione che il rapporto è cessato per un motivo diverso dal licenziamento stesso; senza contare che rimarrebbe senza risposta il quesito su come, in definitiva, il rapporto di lavoro sia venuto meno.

Potrebbe tuttavia sostenersi che il rigetto della domanda del lavoratore vada in via esclusiva riferito alla domanda di impugnativa del licenziamento orale, senza che possa valere il principio – invece affermato dalla citata Cass. n. 6727 del 2001 – secondo cui la richiesta di tutela reale comprende quella di accertamento di inesistenza di una valida estinzione del rapporto di lavoro e della vigenza del medesimo.

Se così fosse, dovrebbe ammettersi che la domanda di impugnativa in questione é “diversa” da quella volta alla riattivazione di fatto del rapporto - nonché al conseguimento delle retribuzioni dalla “messa in mora” -, con la conseguenza che, da un lato, in presenza della prima, il giudice non potrebbe, senza incorrere nel vizio di extrapetizione, accordare la tutela correlata alla seconda, e che, dall'altro, quest'ultima sarebbe legittimamente proponibile in un separato processo senza che al lavoratore possa essere poi opposto il giudicato implicito in conseguenza del rigetto della predetta domanda di impugnativa.

La problematica potrebbe essere accostata a quella che si pone con riguardo alla relazione esistente tra azione di accertamento della nullità del termine e azione di impugnativa del licenziamento, ritenute non sovrapponibili (cfr., per la diversità delle azioni, tra le altre, Cass. 8 maggio 2000, n. 5821, nella quale è precisato che ove la parte abbia erroneamente “richiesto la declaratoria di illegittimità del licenziamento e la reintegrazione nel posto di lavoro, il giudice del merito non può emettere pronuncia di nullità della disdetta e di risarcimento dei danni senza ledere il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, giacché non si limiterebbe soltanto a dare una diversa qualificazione giuridica ai fatti dedotti, trattandosi di azioni diverse non solo per petitum e causa petendi, ma altresì per quanto concerne la disciplina della decadenza, della prescrizione e dei criteri di determinazione del danno”).

Ove dovesse optarsi per la diversità delle domande (ma la questione è complessa e richiederebbe un maggiore approfondimento), la proliferazione dei procedimenti potrebbe essere evitata mediante la proposizione di entrambe nello stesso processo, di cui la seconda in via subordinata, ferma restando la possibilità per il giudice di qualificare esattamente la pretesa (non potendo escludersi che anche una domanda di impugnativa del licenziamento orale sia congegnata in modo tale da esprimere anche una richiesta di riattivazione di fatto del rapporto).

Il licenziamento intimato dallo pseudo-datore di lavoro

Altro problema è stabilire, nell'ipotesi di fenomeni interpositori in senso lato, quale rilevanza possa avere il licenziamento intimato dallo pseudo-datore di lavoro.

In passato si riteneva che il licenziamento in questione fosse inefficace, perché irrogato, appunto, da un non legittimato, in quanto non titolare effettivo del rapporto di lavoro (cfr., per tutte, Cass. 16 giugno 1998 n. 5995: “In ipotesi di interposizione fittizia nel rapporto di lavoro il potere di recesso deve essere esercitato dal contraente reale e non già da quello fittizio. Pertanto il licenziamento intimato dal soggetto interposto, privo del potere di recesso, è inefficace, sicché, non potendo incidere sul rapporto reale, non richiede al lavoratore, che agisce per l'adempimento, alcuna impugnazione, né decorre il termine di decadenza di cui all'art. 6 della legge n. 604 del 1966”).

A seguito della normativa dettata in tema di somministrazione di lavoro (cfr. l'art. 38 del d.lgs. n. 81 del 2015 - analogo al precedente art. 27 del d.lgs. n. 276 del 2003 - ove è previsto, per quanto qui interessa, che, in caso di somministrazione irregolare, “il lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell'utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest'ultimo, con effetto dall'inizio della somministrazione” e che “Tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione”), appalto e distacco (le cui rispettive discipline - i.e.: artt. 29 e 30 del d.lgs. n. 276 del 2003 - ricalcano quella sulla somministrazione), la S.C. ha ritenuto che “In tema di somministrazione irregolare, nell'ipotesi di costituzione del rapporto di lavoro direttamente in capo all'utilizzatore ai sensi dell'art. 27, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, è onere del lavoratore impugnare il licenziamento nei confronti di quest'ultimo, posto che, in virtù del subentro disposto ex lege, gli atti di gestione compiuti dal somministratore producono nei confronti dell'utilizzatore tutti gli effetti negoziali, anche modificativi del rapporto di lavoro, ivi incluso il licenziamento” (così Cass. 13 settembre 2016, n. 17969; in senso conforme v. Cass. 7 marzo 2019, n. 6668).

In buona sostanza, nei casi di interposizione fittizia in senso lato, occorrerebbe distinguere, ai fini della disciplina applicabile in punto di costituzione del rapporto con l'effettivo beneficiario della prestazione lavorativa, a seconda della sussistenza, o meno, di un atto di licenziamento proveniente dallo pseudo-datore di lavoro (somministratore, appaltatore, distaccatario).

Nel primo caso, il lavoratore dovrebbe impugnare il licenziamento, entro il termine di decadenza ex art. 6 della l. n. 604 del 1966, o nei confronti del sostanziale datore di lavoro o anche del solo soggetto intimante, in quanto, per il principio di diretta imputabilità, l'atto ricevuto da quest'ultimo è come se fosse stato ricevuto dall'utilizzatore.

In tale prospettiva, il lavoratore dovrebbe dare dimostrazione dell'effettiva titolarità del rapporto in capo all'utilizzatore e, poi, eventualmente, dell'illegittimità del licenziamento nei casi in cui l'onere ricada su di lui (ad esempio, licenziamento discriminatorio, pretestuoso, ecc …); il convenuto, dal canto suo, dovrebbe fornire la prova, ove fosse dimostrata l'interposizione fittizia in senso lato, della legittimità del licenziamento ove intimato per giusta causa o giustificato motivo.

Tuttavia, la prova della legittimità del licenziamento è in radice incompatibile con la negazione dell'interposizione, poiché la prova in questione attesta per implicito la sussistenza della effettiva titolarità del rapporto in capo al committente (o utilizzatore etc…).

Sicché l'oggetto della causa verterà, in buona sostanza, sulla sussistenza, o meno, dell'interposizione.

Ma anche ove il convenuto deducesse, quale difesa subordinata, che il licenziamento è comunque legittimo, la relativa prova sarebbe tutt'altro che agevole, poiché, in primo luogo, non è detto che, ove l'impugnativa sia stata inoltrata solo allo pseudo-datore di lavoro, quest'ultimo la trasmetta all'utilizzatore, il quale potrebbe pertanto vedersi chiamato in giudizio rimanendo per lo più all'oscuro della vicenda, che dovrà fronteggiare direttamente in sede di contenzioso.

Inoltre, nell'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sarebbe pressoché impossibile la prova dell'assolvimento dell'obbligo di repechage, che lo pseudo-datore avrà eventualmente adempiuto in relazione alla sua azienda.

In definitiva, le sorti del contenzioso si giocano comunque sull'interposizione, con l'unica sostanziale variante della necessità dell'impugnativa del licenziamento, ad opera del lavoratore, entro i termini di decadenza.

Infine, qualora il lavoratore esca vincitore nella controversia, potrà fruire, ovviamente, delle tutele avverso il licenziamento illegittimo.

Nel secondo caso, invece - che può verificarsi allorquando il lavoratore agisca in giudizio a rapporto ancora in corso con lo pseudo-datore di lavoro o quando il rapporto stesso sia cessato con atto diverso dal licenziamento -, il lavoratore, ove dimostri la titolarità sostanziale del rapporto in capo all'utilizzatore, dovrebbe proporre impugnativa stragiudiziale a pena di decadenza, in caso di somministrazione irregolare, entro il termine decorrente dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l'utilizzatore (ex art. 39 del citato d.lgs. n. 81 del 2015; discorso analogo vale per il caso di appalto e distacco non genuini exart. 32, comma 4, lett. b), della l. n. 183 del 2010).

Qui la tutela applicabile è costituita dal ripristino del rapporto con l'utilizzatore nonché dall'assegnazione al lavoratore vittorioso di un'indennità onnicomprensiva (ex artt. 39 del più volte richiamato d.lgs. n. 81 del 2015 e 32, comma 5, della menzionata l. n. 183 del 2010).

Ciò posto, permane il dubbio che il legislatore abbia voluto creare, nell'ambito del fenomeno interpositorio, tale doppio binario.

Infatti, nel sistema della somministrazione irregolare non sembra esservi spazio per l'operatività della disciplina sul licenziamento, essendo il rimedio predisposto a vantaggio del lavoratore, in via esclusiva, l'azione volta alla costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore (e di ciò prende atto la stessa S.C., per come emerge dall'incipit del principio di diritto, ove si fa riferimento ai “casi di costituzione d'un rapporto di lavoro direttamente in capo all'utilizzatore, ai sensi dell'art. 27 comma 1, d.lgs. n.276 del 2003”).

L'impianto delineato per l'accertamento del fenomeno interpositorio in senso lato è, quindi, perfettamente autosufficiente, tanto è che il legislatore, allorquando ha previsto il rimedio dell'azione per la costituzione del rapporto direttamente con l'utilizzatore, si è disinteressato delle modalità di cessazione del rapporto con lo pseudo-datore (che, infatti, non deve essere chiamato in giudizio).

E non si apprezza alcun interesse meritevole di tutela perché possa farsi luogo ad una tale diversificazione di regimi; che non può essere ravvisato in quello del sostanziale-datore ad una pronta cognizione dell'intenzione del lavoratore di intentare una causa per la ricostituzione del rapporto, poiché, come visto, l'impugnativa potrebbe essere indirizzata solo allo pseudo-datore, il quale potrebbe non trasmetterla al vero legittimato. Senza contare che quell'interesse è già soddisfatto mediante l'introduzione di un termine di decadenza appositamente previsto per l'impugnativa della somministrazione irregolare, appalto non genuino etc…

Peraltro, proprio con riguardo alla fase estintiva, il principio di imputabilità finirebbe per favorire, ingiustificatamente, il datore di lavoro, in quanto la disciplina sanzionatoria del licenziamento è oggi meno favorevole per il lavoratore di quella concernente la costituzione del rapporto con l'utilizzatore.

Sicché, tenuto conto dell'impianto normativo che deve orientare l'interprete, sembra doversi dare risposta negativa al quesito se con il termine “gestione” il legislatore abbia effettivamente voluto far riferimento anche ad un atto che ponga fine al rapporto.

Peraltro, avuto riguardo al dato lessicale, si può gestire ciò che è in vita, mentre il rapporto di lavoro non lo è più per effetto del licenziamento.

Cessione di azienda invalida e licenziamento “in frode alla legge”

La S.C. ha recentemente affermato che “In caso di cessione di ramo d'azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all'art. 2112 c.c., il pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente a detto accertamento ed alla messa a disposizione delle energie lavorative in favore dell'alienante da parte del lavoratore, non produce effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa” (così Cass. 3 luglio 2019, n. 17784; in senso conforme v. Cass. 7 agosto 2019, n. 21158 - anche sul rilievo che “l'invalidità della cessione determina l'istaurazione di un diverso ed autonomo rapporto di lavoro, in via di mero fatto, con il cessionario” - e Cass. 7 agosto 2019, n. 21160, ove è precisato che “sancita la natura retributiva e non risarcitoria delle somme da erogarsi ai lavoratori da parte del cedente inadempiente, non trova applicazione il principio della compensatio lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità di quanto altrimenti percepito”; in precedenza, in senso difforme, v., tra le altre, Cass. 25 giugno 2018, n. 16694: “In caso di dichiarazione di nullità della cessione di ramo di azienda, il cedente, che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro, è tenuto a risarcire il danno secondo le ordinarie regole civilistiche, sicché la retribuzione, corrisposta dal cessionario al lavoratore, deve essere detratta dall'ammontare del risarcimento”).

Tale orientamento prende le mosse da Cass., sez. un., 7 febbraio 2018, n. 2990 - nella quale, con riferimento alla declaratoria di accertamento dell'interposizione fittizia di manodopera, è stato precisato che nell'ipotesi in cui per fatto imputabile al datore di lavoro non sia possibile ripristinare il rapporto, vi è obbligo per quest'ultimo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora decorrente dal momento dell'offerta della prestazione - ed è stato ritenuto espressione del diritto vivente “sopravvenuto” da Corte cost. 28 febbraio 2019, n. 29.

Ciò posto, si tratta di stabilire se, in tale situazione, il cedente possa comunque procedere al licenziamento del personale già ceduto, così determinando una sovrapposizione della disciplina del licenziamento a quella della nullità della cessione di azienda.

In tal caso, il licenziamento intimato - verosimilmente per giustificato motivo oggettivo - sarà (salvo l'ipotesi, comunque in astratto configurabile, in cui ricorrano effettivamente le condizioni per procedere a detto licenziamento) plausibilmente illegittimo, ma l'applicabilità della disciplina del licenziamento aprirebbe le porte all'operatività della regola dell'aliunde perceptum ove i lavoratori abbiano continuato a lavorare presso il cessionario.

Infatti, la predetta disciplina andrebbe, per così dire, a sostituirsi a quella concernente la cessione di azienda invalida (poiché il datore darebbe esecuzione all'ordine giudiziale contenuto nella sentenza, ma con riserva di impugnazione di quest'ultima, e, al contempo, si precostituirebbe un nuovo titolo, apparentemente legittimo, per evitare la prosecuzione nel tempo del rapporto di lavoro con i dipendenti già ceduti).

Qui potrebbe ritenersi, in prima battuta, che il licenziamento debba considerarsi inesistente (ossia tamquam non esset), sul presupposto che la mancata riammissione “sostanziale” (o di fatto) dei lavoratori in azienda precluda al datore di poter legittimamente intimare un atto espulsivo.

Tuttavia, in realtà, ai fini dell'esercizio del potere di licenziamento, ciò che conta è la sussistenza di un rapporto di lavoro giuridicamente in essere tra le parti; e non vi è dubbio che la declaratoria di nullità della cessione di azienda attesti tale sussistenza, sicché il cedente, per acquisire il potere di licenziare, non ha bisogno di ripristinare di fatto il rapporto di lavoro con i lavoratori ceduti.

In sostanza, il datore potrebbe trarre un vantaggio dalla intimazione del licenziamento, poiché può contare sulla detrazione dell'aliunde perceptum in attesa della sentenza definitiva sulla cessione che, peraltro, se fosse a lui favorevole (con declaratoria di validità della cessione stessa), porrebbe nel nulla il licenziamento, poiché intimato da non legittimato.

Ecco allora che l'iniziativa datoriale potrebbe integrare una ipotesi di frode alla legge, poiché viene utilizzato uno schema negoziale di per sé lecito (i.e.: il licenziamento) per eludere l'applicazione di una norma che impone il pagamento della integrale retribuzione al lavoratore estromesso - e che abbia messo in mora il datore - nel caso di mancato ripristino del rapporto di lavoro per effetto di statuizione giudiziale.

Se così fosse, il licenziamento dovrebbe giudicarsi nullo (ai sensi dell'art. 18, comma 1, st. lav. e, per i nuovi assunti, dell'art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015).

Tuttavia, anche in tal caso, il datore potrebbe continuare a contare sulla detrazione dell'aliunde perceptum, giacché essa è contemplata anche in caso di licenziamento nullo.

Si avrebbe pertanto la anomala situazione in cui anche la condotta palesemente contra legem del datore, derivante dal compimento di un negozio in frode alla legge, con il quale, nella sostanza, si mira a porre nel nulla alcuni effetti della statuizione giudiziale, sarebbe sanzionata meno severamente di quella meramente inadempiente alla predetta statuizione.

Sicché il disconoscimento dell'aliunde perceptum nell'ambito della invalidità della cessione di azienda - pur sostanzialmente giustificato da una ragione di necessario rispetto della statuizione giudiziale ed in funzione di coazione all'adempimento - si risolve in una sorta di sanzione per il datore che il legislatore non ha neppure previsto per le ipotesi più gravi di licenziamento.

Si replica, ragionevolmente, che la giustificazione della diversità di regime è rinvenibile nella specialità della disciplina del licenziamento.

Ma occorre precisare che il principio di detraibilità opera, attualmente - avuto riguardo alla ritenuta applicabilità, da parte delle Sezioni Unite, con la citata sentenza n. 2990 del 2018 del principio di imputazione anche per il periodo post-sentenza che accerta l'illegittimità dell'interposizione - anche con riguardo alla somministrazione irregolare, all'appalto non genuino e al distacco illegittimo, risultandone peraltro una frammentarietà del quadro priva di giustificazioni immediatamente percepibili, poiché il fenomeno pratico che viene in rilievo - incentrato sul rifiuto del datore di lavoro di adempiere all'ordine giudiziale di riammissione in servizio del lavoratore che, dopo la sentenza - o altro provvedimento di valenza analoga - lavori per terzi, è sostanzialmente comune a tutte le ipotesi sopra considerate.

Ci si potrebbe dunque chiedere se, a fronte di fenomeni analoghi, la disciplina formalmente speciale del licenziamento non assurga, invece - con riferimento alla regola dell'aliunde perceptum -, a normativa di settore del diritto del lavoro, dotata di valenza generale, attesa la sua ampia sfera di applicazione, nonché rispondente ad un principio comune a quasi tutte le ipotesi in cui rilevi il ripristino (giuridico o di fatto) del rapporto di lavoro, incentrato sulla detrazione dal risarcimento delle poste che il lavoratore abbia conseguito da altra attività lavorativa.

Salvo ravvisare nella rafforzata esigenza, in epoca attuale, di garantire la pronta esecuzione del comando giudiziale, un obiettivo irrinunciabile nel settore lavoristico, che potrebbe, però, a questo punto, essere compiutamente realizzato, de iure condendo, con una coerente parificazione delle situazioni, mediante la soppressione in via normativa dell'aliunde perceptum anche nell'ambito della disciplina del licenziamento, con la parallela precisazione, quanto ai fenomeni interpositori, che il principio di imputabilità di cui all'attuale art. 38 del d.lgs. n. 81 del 2015 si applica solo per il periodo fino alla sentenza.

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