Gli effetti delle misure per fronteggiare l'emergenza sanitaria sulla regolare esecuzione dell'affitto di azienda
21 Maggio 2020
Ha diritto di sospendere il pagamento del canone l'affittuario della azienda che, a causa dei provvedimenti adottati dal Governo per fronteggiare l'emergenza Covid, non ha potuto svolgere la attività d'impresa?
L'emergenza sanitaria ha costretto il Governo ad adottare misure straordinarie che hanno profondamente inciso sulla vita delle persone e delle aziende. Si tratta di una situazione talmente inedita che molti si sono chiesti se i rimedi previsti dal codice civile siano adeguati o se invece non sia indispensabile un intervento del legislatore che disciplini gli effetti della pandemia sulla regolare esecuzione dei contratti in essere. A titolo esemplificativo, è molto vivace il dibattito su chi debba sopportare il rischio della pandemia nelle locazioni ad uso diverso dalla abitazione. Non sono al riparo dalle conseguenze della pandemia neppure gli affitti di aziende, quando l'oggetto della attività di impresa è stata interessata dalle restrizioni imposte dal Governo, ma potrebbe essere più agevole rinvenire il rimedio nella legislazione vigente. È pacifico che l'affitto di azienda sia disciplinato sia dalle norme del codice civile dedicate all'azienda e, laddove in difetto di una disposizione ad hoc, da quelle dettate in materia di affitto integrate dalle norme sulla locazione. In tal senso ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza che “tra le norme sulla locazione e quelle sull'affitto, compreso l'affitto di azienda, corre il rapporto tipico tra norme generali e speciali, per cui se la fattispecie non è regolata da una norma specificamente prevista per l'affitto dovrà farsi ricorso alla disciplina generale sulla locazione di cose, salvo l'incompatibilità con la relativa normazione speciale” (Cass. civ., sez. III, 28 gennaio 2002 n. 993; App. Milano 14 aprile 2017 n. 1446). Coerentemente, è stata affermata l'applicazione al contratto di affitto di azienda dell'art. 1590 c.c., a mente del quale il conduttore deve restituire la cosa nello stato medesimo in cui l'ha ricevuta (Cass. civ., sez. III, 17 luglio 1991 n. 7942), e dell'art. 1588 c.c. che disciplina la perdita ed il deterioramento della cosa locata (Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2006 n. 11005). Ebbene, le norme sull'affitto sembrano prevedere (e regolare appositamente) alcune specifiche ipotesi sopravvenute che alterino l'equilibrio sinallagmatico. In particolare, si vuol fare riferimento agli artt. 1622 e 1623 c.c. La prima disposizione prevede il caso di perdite determinate da riparazioni e stabilisce che l'affittuario può domandare una riduzione del fitto ovvero lo scioglimento del contratto se la esecuzione delle riparazioni che sono a carico del locatore determina per l'affittuario una perdita superiore al quinto del reddito annuale; a mente dell'art. 1623 c.c., invece, «se, in conseguenza di una disposizione di legge, di una norma corporativa o di un provvedimento dell'autorità riguardanti la gestione produttiva, il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio, può essere richiesto un aumento o una riduzione del fitto ovvero, secondo le circostante, lo scioglimento del contratto», fatte salve le diverse disposizioni stabilite dalla legge, dalla norma corporativa o dal provvedimento dell'autorità. È opinione comune che l'art. 1623 c.c. sia una specificazione del principio stabilito dall'art. 1467 c.c. e mira a tutelare in maniera più rigorosa l'equilibrio contrattuale quando l'evento sopravvenuto, che il detto equilibrio altera, riguarda rapporti in cui è parte un imprenditore. Si tratta di capire, a questo punto, quali siano i presupposti affinché il principio stabilito dalla norma in esame possa applicarsi. Innanzitutto, l'evento sopravvenuto deve essere «la conseguenza di una disposizione di legge ovvero di un provvedimento dell'autorità» ma deve anche riguardare «la gestione produttiva»; inoltre, questo evento deve avere la attitudine a modificare notevolmente il rapporto contrattuale «in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio». Pare opportuno, prima di scendere nel dettaglio, sottolineare la maggiore “duttilità” della disposizione rispetto al principio stabilito dall'art. 1467 c.c.: qui, infatti, la sopravvenuta onerosità – che deve essere eccessiva – dà diritto alla parte, la cui prestazione sia divenuta più onerosa, di chiedere la risoluzione del contratto e la eventuale “rinegoziazione” dell'accordo è subordinata alla decisione dell'altra parte, che può evitare la risoluzione «offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto». È stato correttamente notato che l'art. 1467 c.c. non si preoccupa di garantire la prosecuzione del rapporto contrattuale, evenienza – quest'ultima – che la norma fa dipendere dallo spirito collaborativo della parte che si avvantaggia della eccessiva onerosità sopravvenuta, e tale rimedio dunque mal si presta a fronteggiare le conseguenze sui contratti della emergenza Covid nella misura in cui la (auspicabile) temporaneità delle restrizioni deve conciliarsi con l'interesse della parte pregiudicata dalle misure restrittive di proseguire il rapporto contrattuale una volta superata l'emergenza. L'art. 1623 c.c., invece, privilegia la stabilità del contratto rispetto al rimedio della risoluzione, che in definitiva dipende esclusivamente dalle valutazioni della parte interessata dalla eccessiva onerosità sopravvenuta, sempre che – ovviamente – ricorrano gli altri presupposti stabiliti dalla norma. Quanto a questi ultimi, si è ritenuto che l'avverbio “notevolmente” indichi una situazione meno gravemente sproporzionata rispetto a quella “eccessivamente onerosa”. Inoltre, il rimedio sarebbe esperibile tutte le volte in cui il semplice aggravio della prestazione di una delle parti crei automaticamente un vantaggio a favore dell'altra, che continuerebbe a ricevere il medesimo corrispettivo di una utilità che, a seguito dell'evento perturbatore, vale di meno. Infine, gli effetti della modificazione sopravvenuta del rapporto contrattuale dovrebbero riguardare la “gestione produttiva”, da intendersi però in senso ampio, e la detta modificazione – oltre ad essere sopravvenuta – dovrebbe avere anche i requisiti della imprevedibilità. In mancanza di precedenti specifici in giurisprudenza, occorrerà verificare in concreto se l'art. 1623 c.c. sia suscettibile di applicazione al fine di regolare gli effetti dell'emergenza Covid sui contratti di affitto di azienda. Muovendo dalla “causa” della modificazione del rapporto contrattuale, non pare potersi dubitare del fatto che debba considerarsi tale il provvedimento che ha disposto la “chiusura” di determinati esercizi commerciali e/o attività produttive considerate non essenziali; invece potrebbe essere meno agevole stabilire se sia tale il provvedimento restrittivo che, pur non riguardando direttamente l'attività svolta dalla azienda affittata, abbia comunque comportato una flessione del fatturato. A tale ultimo riguardo si potrebbe osservare che la norma richiede genericamente che il provvedimento abbia riguardato “la gestione produttiva” e che dunque possa considerarsi tale anche quello che solo indirettamente abbia reso più difficoltoso lo svolgimento dell'attività aziendale, ma anche che – in tal caso – debba essere più rigorosa l'indagine volta ad accertare in che misura “il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato” e conseguentemente se questa alterazione si traduce effettivamente in una perdita per una parte ed in vantaggio per l'altra. Vi è da dire, comunque, che sia nel caso di attività direttamente interessata dal provvedimento restrittivo sia nel caso in cui ciò sia avvenuto solo di riflesso, non si potrà prescindere da una considerazione di carattere generale, e cioè che queste misure dovrebbero avere un effetto temporale abbastanza contenuto rispetto alla naturale durata di un contratto di affitto di azienda. Detto in altri termini, se due mesi di “forzata” sospensione dell'attività aziendale per effetto di un provvedimento legislativo o dell'autorità hanno conseguenze più gravi – in termini di ripartizione del rischio – quando l'affitto d'azienda abbia una durata breve (si pensi ad un anno), più miti questi riflessi dovrebbe essere se invece l'affitto sia stato programmato su un più ampio intervallo temporale. E questa circostanza potrebbe essere particolarmente decisiva laddove – come detto – la restrizione non abbia riguardato direttamente la gestione produttiva, precludendola del tutto. Poiché, comunque, non sarebbe sufficiente solo la incidenza del provvedimento sulla gestione produttiva, occorrendo anche che a causa di ciò il rapporto contrattuale risulti notevolmente modificato e ciò si traduca nella perdita per l'uno e nel vantaggio per l'altro, non potrà prescindersi dal tentare di stabilire quando si potrà dire di essere in presenza di una alterazione del sinallagma che ha “notevolmente modificato” il rapporto contrattuale. Se si accede alla tesi secondo cui l'avverbio “notevolmente” indica una modificazione meno intensa rispetto alla prestazione che sia divenuta “eccessivamente onerosa”, potrà essere utile verificare innanzitutto quando possa parlarsi di eccessiva onerosità. In giurisprudenza si rinvengono definizioni meramente qualitative ma non quantitative della eccessiva onerosità: sicché, essa “consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni” (Cass. civ., Sez. III 25 maggio 2007 n. 12235) e sussiste quando la prestazione “sia divenuta troppo gravosa per il debitore” (Cass. civ., Sez. Lav., 7 marzo 2002 n. 3296) ovvero se la sua esecuzione comporta «al debitore della prestazione un sacrificio che altera l'economia del contratto e l'equilibrio originariamente esistente tra le corrispettive prestazioni» (Cass. civ., Sez. II, 21 febbraio 1994 n. 1649); in ogni caso deve essere valutata «comparando il valore di entrambe (le prestazioni) al momento in cui sono sorte e a quello in cui devono eseguirsi» (Cass. civ., Sez. II, 29 maggio 1998 n. 5302). In ogni caso, se l'art. 1623 c.c. è una specificazione dell'art. 1647 c.c. il cui scopo preminente è la conservazione del contratto bensì il riequilibrio del sinallagma, non occorrerebbe necessariamente una sproporzione delle reciproche prestazioni (che comunque difficilmente potrebbe negarsi se la misura restrittiva ha impedito l'esercizio della attività di impresa svolta attraverso l'azienda) ma basterebbe che il rapporto contrattuale risulti notevolmente modificato in relazione alle programmate utilità. In altri termini, la norma sembra correlare la entità della variazione del rapporto contrattuale (che deve essere notevolmente modificato) alla perdita ed al vantaggio risentiti rispettivamente da ciascuna delle parti: sarebbe sufficiente, quindi, che la modificazione esogena (la disposizione di legge o il provvedimento dell'autorità) si risolva in una perdita per l'uno e nel vantaggio per l'altro rispetto alle originarie utilità perché l'equilibrio possa ritenersi alterato, con la ulteriore conseguenza di ammettere la “rettifica” dell'originario accordo attraverso la riduzione del canone (effetto conservativo del contratto) oppure, qualora la diminuzione del fitto non sia comunque conveniente, lo scioglimento del vincolo contrattuale. Dunque, data la utilità che ciascuna parte contrattuale intende realizzare dalla altrui prestazione (e cioè godimento di un bene produttivo – l'azienda – a fronte di un corrispettivo), dovrebbe riconoscersi all'affittuario – qualora a causa della misura restrittiva adottata per fronteggiare l'emergenza sanitaria la attività aziendale abbia subito una totale limitazione anche se temporanea – il diritto di chiedere la riduzione del canone se egli ha interesse alla prosecuzione del rapporto contrattuale. Più problematica sarà la soluzione quando la suddetta misura restrittiva ha riguardato la “gestione produttiva” non direttamente ma di riflesso: si pensi al caso della attività di fabbricazione di beni il cui mercato di riferimento abbia subito una notevole contrazione a causa della chiusura delle attività commerciali dedite alla vendita di quei beni, con conseguente riduzione se non congelamento degli ordini di acquisto. Tuttavia, se l'azienda «è il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa» e se l'affitto di azienda è il contratto con il quale il detto imprenditore concede a terzi il godimento di questo bene produttivo, e dunque il suo sfruttamento economico attraverso l'esercizio dell'attività imprenditoriale, dovrebbe ugualmente ammettersi quanto meno la possibilità di una verifica giudiziale dei presupposti per la applicazione dei rimedi previsti dall'art. 1623 c.c. A questo punto, però, occorre chiedersi se l'affittuario potrà sospendere o ridurre unilateralmente il pagamento del canone ed a quale criterio dovrà farsi riferimento per determinare la “giusta” diminuzione dell'affitto. Al primo quesito dovrebbe darsi una risposta negativa; ha recentemente affermato la Cassazione che «in tema di contratto di affitto (nella specie, di azienda), il riequilibrio del piano contrattuale in conseguenza di un provvedimento autoritativo che abbia alterato l'originaria previsione negoziale, ai sensi dell'art. 1623 c.c., è legittimamente disposto dal giudice su richiesta della parte che risenta della perdita, con decorrenza dalla data di proposizione della domanda giudiziale, non potendo essere disposta l'applicazione retroattiva del rimedio in forza di un accertamento giudiziale ufficioso» (Cass. civ., Sez. I, 5 marzo 2018 n. 5122). Si desume dal sopra richiamato principio e dalla irretroattività del provvedimento del Giudice che l'affittuario non potrebbe riequilibrare unilateralmente il sinallagma; invero se gli effetti della decisone del giudice non possono retroagire al momento in cui si è verificato il disequilibrio, a maggior ragione tali effetti non potrebbero avere efficacia sanante della unilaterale determinazione della parte colpita dal provvedimento di legge o dell'autorità. Tuttavia, non sarebbe neppure del tutto irragionevole riconoscere all'affittuario la possibilità di invocare la eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c., specie qualora la utilità della controprestazione sia venuta meno interamente perché a causa del provvedimento restrittivo non è stato possibile proseguire l'attività d'impresa. In altri termini, nella specie potrebbe venire in soccorso dell'affittuario il principio ultimamente affermato dalla giurisprudenza in materia di locazione di immobili secondo il quale, «sebbene il pagamento del canone costituisca la principale e fondamentale obbligazione del conduttore, la sospensione parziale o totale dell'adempimento di tale obbligazione, ai sensi dell'art. 1460 c.c., può essere legittima non solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte, ma anche nell'ipotesi di inesatto inadempimento, purché essa appaia giustificata in relazione alla oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, riguardata con riferimento all'intero equilibrio del contratto e all'obbligo di comportarsi secondo buona fede» (Cass. civ., Sez. III, 22 settembre 2017 n. 22039). Se, come detto, l'affitto d'azienda è regolato dalle norme sull'affitto e se queste possono essere integrate dalle disposizioni in materia di locazione, potrebbe ragionevolmente sostenersi che il principio appena richiamato possa avere una portata applicativa più ampia. In ogni caso, la scelta dell'affittuario di sospendere o ridurre l'affitto difficilmente potrebbe considerarsi inadempimento imputabile perché, ai sensi dell'art. 3 comma 6-bis del D.L. 23 febbraio 2020 n. 6 convertito con modifiche dalla L. 5 marzo 2020 n. 13, «il rispetto delle misure di contenimento …. è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti». Infine, quanto al criterio da adoperare per rideterminare l'ammontare dell'affitto, potrebbe applicarsi analogicamente quello stabilito dall'art. 1622 c.c., sia pure con un correttivo. A mente dell'art. 1621 c.c. il locatore durante l'affitto è tenuto ad eseguire a sue spese le riparazioni straordinarie ed in questo caso l'affittuario ha diritto, ai sensi dell'art. 1622 c.c., ad una riduzione dell'affitto in ragione della riduzione del reddito quando la esecuzione delle dette riparazioni gli ha determinato una perdita superiore al quinto del reddito annuale. Tuttavia, se la perdita è stata determinata da modificazioni sopravvenute del rapporto contrattuale, e cioè la fattispecie appositamente disciplinata dall'art. 1623 c.c., il riallineamento del sinallagma non sarà subordinato al dato quantitativo (ossia non sarà richiesto che la perdita sia superiore al quinto del reddito annuale) ma il Giudice potrebbe ridurre l'ammontare dell'affitto parametrandolo alla riduzione del reddito (rectius, fatturato) determinata su base annuale. Si tratta di un criterio che, pur se previsto per fattispecie diversa, avrebbe il vantaggio di affidare ad elementi oggettivi il riequilibrio contrattuale, sottraendolo al rischio di una eccessiva discrezionalità. Giova dare conto, però, di una novità introdotta dal D.L. 19 maggio 2020 n. 34, c.d. “Decreto Rilancio”. L'art. 28, estendendo una misura già prevista dall'art. 65 del D.L. 17 marzo 2020 n. 18 (convertito con modifiche dalla l. 24 aprile 2020 n. 27) in favore di esercenti attività di impresa che avessero in locazione commerciale immobili con categoria catastale C/1, ha riconosciuto un credito di imposta del 30% per i canoni di affitto di azienda se dell'azienda fa parte almeno un immobile ad uso non abitativo destinato all'attività industriale, commerciale, artigianale, agricola, di interesse turistico o all'esercizio abituale e professionale dell'attività di lavoro autonomo. Il credito d'imposta sarà commisurato all'importo del canone versato nei mesi di marzo, aprile e maggio 2020 ed a condizione che sia documentata una diminuzione del fatturato o dei corrispettivi di almeno il 50% per ciascun mese di riferimento rispetto allo stesso mese del periodo d'imposta precedente e purché l'affittuario nell'anno 2019 abbia generato ricavi inferiori ai 5 milioni di euro. Questa agevolazione fiscale, se sussisteranno i presupposti di legge, tenderà a riequilibrare il sinallagma contrattuale senza che il sacrificio debba essere interamente sostenuto dall'affittante ed indirettamente – a mio avviso – conferma la validità del criterio oggettivo suggerito ed al quale potrebbero fare ricorso le parti, ed in difetto di accordo il Giudice, al fine di compensare la perdita ed il vantaggio rispettivamente subiti a causa della pandemia e dei provvedimenti restrittivi adottati dal governo per contenere l'emergenza sanitaria. Rimane un ultimo aspetto di ancora più difficile soluzione. È possibile, anche se non è prevedibile, che gli effetti di questa pandemia si riflettano sui consumi futuri – almeno a breve – se una diffusa contrazione dei redditi e ricavi e se l'incertezza sulla fine dell'emergenza incideranno sulla propensione alla spesa di cittadini ed imprese: in questo caso potrebbe accadere che, nonostante la ripresa delle attività commerciali ed industriali, i volumi d'affari rimangano sostanzialmente modesti e comunque inferiori alle attese anche rispetto all'anno precedente. Non è escluso, quindi, che gli affittuari di azienda cercheranno di ribaltare anche questo rischio sull'altra parte, ma sarebbe oggettivamente più difficile affermare che ciò possa giustificare il diritto ad una più prolungata estensione temporale degli interventi correttivi atti a riequilibrare le contrapposte prestazioni: si tratterebbe, infatti, di effetti solo del tutto indirettamente riferibili ai provvedimenti governativi e dunque probabilmente estranei all'ambito di applicazione dell'art. 1623 c.c.
|