Si appropria di somme versate dai condomini invocando un presunto diritto di credito: amministratore condannato

Redazione scientifica
01 Luglio 2020

Confermata la condanna di un amministratore di condominio per appropriazione indebita in relazione ad alcune somme versate dai condomini dello stabile amministrato.

La vicenda. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 12618/20, depositata il 21 aprile, decidendo sul ricorso presentato da un amministratore di condominio condannato dal Tribunale di Milano e poi dalla Corte d'Appello per appropriazione indebita in relazione ad alcune somme versate dai condomini dello stabile amministrato. Il ricorrente si duole per il vizio di motivazione della sentenza impugnata in quanto egli avrebbe legittimamente esercitato il proprio diritto di ritenzione per il soddisfacimento di ragione creditorie nei confronti dei condomini, di cui però la Corte aveva negato la sussistenza di adeguati mezzi di prova. Sempre secondo il ricorrente, la condotta avrebbe dunque dovuto essere qualificata come esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Sussistenza del reato di appropriazione indebita. Il ricorso risulta inammissibile per genericità dei motivi proposti. Il Collegio evidenzia infatti come la motivazione offerta dalla pronuncia impugnata si sottragga ad ogni censura avendo correttamente valutato tutti gli elementi probatori acquisiti. È infatti emerso che l'amministratore si era appropriato del denaro depositato su conti correnti intestati ai condomini del quale aveva possesso in qualità di mandatario e unico delegato ad operare. Tali somme risultavano gravate da vincolo di destinazione: il ricorrente aveva infatti l'obbligo di incassare i canoni con l'accordo di restituirli ogni 3 mesi ai proprietari dopo aver detratto il proprio compenso professionale nella misura del 3% annuo del monte locazioni e le spese documentate. Le somme di cui si era appropriato il ricorrente corrispondevano invece ad un presunto diritto di credito, non documentato e comunque irrilevante ai fini della sussistenza del reato. La giurisprudenza afferma infatti pacificamente che il reato di appropriazione indebita non viene meno laddove l'imputato invochi di aver trattenuto le somme come compensazione di propri preesistenti crediti, privi dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità. Deve essere inoltre esclusa la configurabilità, invocata dal ricorrente, del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 392 c.p.) in quanto tale fattispecie non sussiste nel caso in cui il soggetto che si è appropriato di denaro o beni a preteso soddisfacimento di un credito avesse sugli stessi piena signoria, oltre a piena coscienza e volontà di appropriarsene. Tali elementi corrispondono infatti all'elemento psicologico del reato di cui all'art. 464 c.p. non potendo parlarsi di buona fede rispetto all'azione compiuta.
In conclusione, la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.