Danno biologico complessivo, menomazioni policrone coesistenti/concorrenti e quantificazione dell'I.P. mediante formula riduzionistica

Vincenzo Liguori
10 Luglio 2020

Laddove in capo al medesimo soggetto sussistano più patologie invalidanti, di cui solo la più recente causata da errore medico, è rilevante - ai fini risarcitori - la quantificazione dell'I.P. complessiva di cui è portatore il danneggiato?

I consulenti medici designati in sede di C.T.U., chiamati a valutare la complessiva I.P. di cui è portatore un danneggiato da medical malpractice, ritengono che la quantificazione dell'I.P. pregressa da cui era già affetto lo stesso non sia pertinente con l'oggetto della consulenza in quanto, a loro dire:

  • le invalidità pregresse sono rilevanti nel solo giudizio di calcolo dell'invalidità civile;
  • le lesioni iatrogene conseguenti all'evento di malpractice sono da considerarsi inopinabilmente coesistenti con le menomazioni pregresse in quanto affliggenti distretti corporei diversi;
  • anche qualora si volesse dare rilievo all'I.P. pregressa essa comporterebbe la quantificazione dell'I.P. iatrogena mediante sommatoria delle invalidità attraverso la formula riduzionistica (quantificando la percentuale di I.P. iatrogena sulla sola residua validità del soggetto risultante dallo scomputo dell'I.P. preesistente).

I quesiti sono due ma tra loro complementari: laddove in capo al medesimo soggetto sussistano più patologie invalidanti, di cui solo la più recente causata da errore medico, è rilevante - ai fini risarcitori - la quantificazione dell'I.P. complessiva di cui è portatore il danneggiato? In tal caso la valutazione finale circa la percentuale di I.P. iatrogena risarcibile può essere compiuta mediante formula riduzionistica?

L'inutile richiamo all'invalidità civile ed alla formula riduzionistica.

È doveroso il seguente preambolo: la quantificazione del danno biologico differisce inesorabilmente dalla quantificazione dell'invalidità civile, rappresentando quest'ultima un concetto di “perdita della validità” rilevante nel solo ambito previdenziale dell'infortunistica del lavoro, sede in cui si accerta e quantifica il grado di incapacità del soggetto - che sia portatore di una o plurime infermità - di esplicare la propria attitudine al lavoro.

Il calcolo dell'invalidità civile, come su definita, è infatti finalizzato alla successiva liquidazione di una prestazione pensionistica/previdenziale - a carico dell'assicuratore sociale ed il cui diritto all'erogazione sorge in capo al soggetto invalido per il solo fatto di trovarsi in una condizione di parziale o totale incapacità al lavoro (la quale rappresenta, in sé e per sé, il fatto costitutivo di tale diritto) - che ha natura indennitaria-solidaristica (e non compensativa-ripristinatoria, come invece nel caso in cui si tratti di valutare il danno alla salute), in quanto tendente a rimuovere lo stato di bisogno ed il disagio economico in cui viene a trovarsi il soggetto che non è più in grado di esplicare o di esplicare solo parzialmente la propria attitudine al lavoro, e ciò a prescindere se tale in-attitudine al lavoro sia causata da infortunio, malattia, invalidità, responsabilità di terzi, anzianità o disoccupazione involontaria, poiché tale prestazione trova il suo referente costituzionale direttamente nell'art. 38 della nostra Carta fondamentale.

Il giudizio di stima dell'invalidità civile, pertanto, individua l'incidenza meramente patrimoniale della perduta attitudine al lavoro ed alla capacità di produrre reddito, non già la lesione del bene salute subìta dal danneggiato ed afferisce, quindi, alla sola sfera patrimoniale di quest'ultimo, non anche a quella non patrimoniale (che è invece rilevante nella diversa sede risarcitoria-ripristinatoria, in cui si è chiamati a stimare la lesione della validità biologica del danneggiato).

La capacità lavorativa generica è infatti un concetto di derivazione giurisprudenziale divenuto oramai obsoleto in ambito risarcitorio, poiché risalente ad un'epoca in cui nel nostro ordinamento non trovava autonomo ristoro il danno alla salute di cui all'art. 32 Cost.

La sommatoria delle percentuali di invalidità con formula riduzionistica, adottata per risalente tradizione nell'ambito dell'infortunistica del lavoro, è infatti una tecnica che mal si adatta alla diversa sede risarcitoria, in quanto poggia su presupposti storico-giuridici differenti dalla valutazione del danno alla salute, divenuti oramai inattuali e sorpassati dal diritto vivente.

Il metodo di calcolo percentuale delle conseguenze della lesione della salute, come si è accennato, apparve infatti nel mondo del diritto al fine di misurare la perdita del reddito e della capacità di produrlo: con la l. 17 marzo 1898 n. 80 - il cui art. 9, comma 1, secondo alinea, stabiliva che, in caso di infortunio produttivo di inabilità permanente al lavoro, l'indennizzo spettante al danneggiato fosse "eguale a cinque volte la parte di cui è stato o può essere ridotto il salario annuo" - non si concepiva ancora l'autonoma risarcibilità della lesione della salute in sé e per sé considerata, né quella del danno non patrimoniale, la quale veniva anzi ferocemente osteggiata qualora dalla stessa non conseguisse una successiva deminutio patrimoniale (cfr. Cass. Firenze 26/7/1915 in Foro ven., 1915, 548, nella quale il giudice di legittimità esprimeva la seguente massima “non è risarcibile il danno consistente nella perdita di un membro del corpo umano (...), se non si dimostri quale diminuzione patrimoniale certa ne sia per conseguire").

L'unico danno concepibile e misurabile, in quell'epoca, era la riduzione del salario e, per praticità di calcolo, tale riduzione veniva misurata in percentuale considerando pari a 100 non già l'efficienza/validità biologica del danneggiato, bensì la suaesclusiva efficienza lavorativa.

Tale principio veniva ribadito infatti anche dall'art. 9 del R.D. 31 gennaio 1904 n. 51, il cui

regolamento di attuazione (R.D. 13 marzo 1904 n. 141), all'art. 94, disponeva che «deve ritenersi come invalidità permanente parziale la conseguenza di un infortunio, la quale diminuisca in parte ma essenzialmente e per tutta la vita, l'attitudine al lavoro».

La giurisprudenza di legittimità, successivamente, nel corso degli anni ha avuto modo dichiarire agli operatori l'ontologica differenza tra attitudine al lavoro e validità biologica:

  • l'attitudine al lavoro rappresenta un'energia esauribile: è infatti concepibile che un individuo vivente e capace di assolvere le fondamentali funzioni vitali sia tuttavia inabile al lavoro; tale assunto giustifica e rende comprensibile l'approccio logico di quel sistema di quantificazione riduzionistica dell'incapacità lavorativa derivante dall'invalidità psico-fisica in quanto, dovendo misurarsi in punti percentuali la perduta capacità di lavoro, delle preesistenze si teneva conto nella determinazione del grado di incapacità lavorativa in quanto sarebbe stato iniquo addossare all'assicuratore sociale il pagamento di un'indennità corrispondente alla perdita dell'intero salario in casi in cui il danneggiato-lavoratore, prima dell'infortunio, non fosse comunque in grado di ottenere un salario di quel livello o addirittura un qualsiasi salario;
  • la salute, al contrario, è un bene inesauribile: sarebbe infatti inconcepibile l'esistenza in vita d'una persona senza salute ed anche chi fosse affetto da patologie gravissime conserverebbe pur sempre un suo minimo stato di salute e di validità biologica (per quanto gravemente compromessa).

È ius receptum, infatti, che «è l'entità delle concrete rinunce indotte dalla menomazione che determina l'entità del danno, e tale entità può rivelarsi nei singoli casi assai cospicua anche per una persona già affetta da gravi invalidità se, nonostante queste, il danneggiato riusciva comunque a dedicarsi ad attività per lui gratificanti, ed alle quali abbia dovuto rinunciare a causa del secondo infortunio» (Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28986).

Il grado percentuale di invalidità permanente non è affatto il danno, ma solo la sua unità di misura e, pertanto, in sede risarcitoria, l'indagine valutativa deve necessariamente originare dall'accertamento del danno biologico obiettivamente e complessivamente accertato in corpore e sarebbe del tutto anacronistico, errato ed inconferente far uso delle preesistenze invalidanti variando, attraverso calcoli e conteggi proporzionalmente riduzionistici, il grado di invalidità permanente obiettivamente accertato in corpore al leso (cfr. Cass.civ., 11 novembre 2019 n. 28986).

La descritta ontologica differenza tra i suddetti concetti di invalidità (danno da riduzione della attitudine/capacità lavorativa e danno alla salute) rende, pertanto, inutilizzabili i criteri concepiti per stimare l'incidenza delle preesistenze su una lesione della capacità di lavoro nei casi in cui si tratti di stimare l'incidenza delle preesistenze su una lesione della salute.

La valutazione circa la coesistenza/concorrenza delle menomazioni.

A dispetto della più infelice, fallace e sciagurata dottrina medico-legale - che vorrebbe semplicisticamente qualificare le lesioni plurime coesistenti come quelle afferenti organi e/o apparati funzionalmente distinti tra di loro e le lesioni plurime concorrenti come quelle afferenti il medesimo organo e/o apparato - la qualificazione del rapporto di concorrenza o coesistenza tra invalidità policrone si fonda su un giudizio valutativo assai meno empirico ma, anzi, esclusivamente giuridico.

I concetti di “coesistenza” e di “concorrenza”, rilevanti al fine di pervenire ad una corretta quantificazione del danno iatrogeno differenziale ed alla integrale e proporzionale liquidazione risarcitoria per il danneggiato, afferiscono ai postumi residuati al soggetto e, dunque, alle menomazioni residuate in seguito all'illecito (rectius: in seguito alla stabilizzazione delle lesioni provocate dall'illecito) e non alle lesioni in senso empirico.

La concorrenza tra menomazioni policrone va, pertanto, valutata a posteriori ed in concreto, non a priori ed in astratto, come invece auspicherebbe la più diffusa e criticabile dottrina medico-legale (secondo cui va esclusa la concorrenza tra invalidità policrone ogniqualvolta esse affliggano distretti corporei differenti).

Ne discende che non può proclamarsi a priori che menomazioni riguardanti organi/distretti diversi mai interferiscano tra loro così come, all'inverso, non può astrattamente ed aprioristicamente escludersi che successive menomazioni riguardanti lo stesso organo/distretto possano non aggravarsi le une a causa delle altre (sebbene tale seconda ipotesi parrebbe limitata a rarissimi casi, quali ad esempio l'amputazione del piede in un soggetto paraplegico).

È ius receptum, infatti, che «quel che dunque rileva, al fine della stima percentuale dell'invalidità permanente, non sono né formule definitorie astratte ("concorrenza" o "coesistenza" delle menomazioni), né il mero riscontro della medesimezza o diversità degli organi o delle funzioni menomati. Poiché si tratta di accertare un nesso di causalità giuridica, quel che rileva è il giudizio controfattuale, e dunque lo stabilire col metodo c.d. della "prognosi postuma" quali sarebbero state le conseguenze dell'illecito, in assenza della patologia preesistente» (Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28986).

Potranno pertanto ben considerarsi tra loro concorrenti anche menomazioni le cui lesioni empiriche abbiano inficiato distretti o organi differenti, purché:

  • abbiano causato l'aggravamento dei postumi pregressi da cui era già affetto il danneggiato e, cioè, l'aggravamento della sua pregressa condizione di parziale disabilità, da cui era già affetto al momento dell'illecito, con conseguente condizionamento negativo di tutta la sua vita, sia da un punto di vista fisico, sia da un punto di vista psicologico, sia da un punto di vista sociale;
  • abbiano un'incidenza negativa sulle capacità, idoneità ed abilità possedute dal danneggiato prima dell'illecito e, quindi, aggravino le menomazioni pregresse di cui era già portatore;
  • provochino il consolidarsi di postumi più gravi rispetto a quelli che avrebbe patito il danneggiato se avesse goduto della piena validità biologica al momento dell'illecito.

Volendo trarre una “massima” generale ed astratta, potrà dunque dirsi che saranno tra loro concorrenti le menomazioni che, intervenute in capo al medesimo soggetto in momenti tra loro successivi e per lesioni differenti, si aggravino le une per mezzo delle altre, così come saranno coesistenti le menomazioni che, sofferte dal medesimo soggetto in momenti tra loro distinti, non si aggravino le une con le altre.

Il ruolo dell'ausiliario medico-legale e la quantificazione dell'I.P. complessiva.

La valutazione complessiva del danno alla salute (in essa compresa l'I.P. pregressa, l'eventuale I.P. sibi e l'I.P. iatrogena), secondo gli insegnamenti della Suprema Corte, è sempre indispensabile per pervenire alla corretta liquidazione del danno alla salute nel rispetto dei principi di integralità e proporzionalità del risarcimento, ed il ruolo del C.T.U. è assoggettato a tale scopo, in quanto ad esso strumentalmente funzionale.

La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire agli operatori che la delimitazione del perimetro dei danni risarcibili è questione afferente la causalità giuridica la quale, dunque, compete al giudice e non certo all'ausiliario medico-legale, la cui primaria funzione deve estrinsecarsi - oltre che nella valutazione dei profili afferenti l'an debeatur (colpa e nesso causale) - nell'attività di quantificazione del danno biologico complessivo di cui è portatore il danneggiato.

Nella quantificazione (rectius: stima) del danno alla salute è demandato al medico-legale il solo compito di misurare l'incidenza della menomazione sulla vita del danneggiato, la quale avviene - convenzionalmente - in punti percentuali; tuttavia, come si è accennato, il grado percentuale di invalidità permanente rappresenta solo l'unità di misura del danno, non la sua liquidazione, e tale misurazione non può che avvenire al netto di qualsiasi valutazione giuridica circa l'area della risarcibilità del pregiudizio subìto dal danneggiato.

Da ciò discende che non è mai compito dell'ausiliario medico legale quello di tracciare il perimetro dei danni risarcibili operando l'arbitraria valutazione di pertinenza o meno dell'incidenza delle menomazioni pregresse rispetto alla misura del danno biologico complessivo e iatrogeno, in quanto:

  • nella quantificazione (rectius: stima) del danno alla salute è demandato al medico-legale il solo compito di misurare, in fatto (e non in diritto e/o in termini di “pertinenza” pseudo-giuridica), l'incidenza della menomazione sulla vita della vittima, la cui quantificazione deve avvenire senza che l'ausiliario esprima valutazioni giuridiche (o pseudo-giuridiche, soprattutto se compiute dall'ausiliario medico-legale sulla base di non condivisibili argomentazioni della dottrina medica) circa l'area della risarcibilità, rimessa questa, si ribadisce, solo al giudice (v. in tal senso, SPERA, Il nuovo quesito medico legale all'esame dell'Osservatorio di Milano in Ridare.it);
  • qualsiasi variazione di tale misurazione del danno inquinerebbe la valutazione giuridica che il magistrato dovrà poi compiere circa l'area della risarcibilità e che esula indubbiamente dalla sfera di competenza dei CC.TT.UU.: se così non fosse tanto varrebbe che il magistrato si svestisse della toga e la consegnasse direttamente ai consulenti medici, demandando loro anche il compito di convertire in danaro tale percentuale!

È ius receptum, infatti, che «l'accertamento in facto della validità residuata all'infortunio è un accertamento concreto: è la descrizione di una condizione personale, che non può essere compiuta preoccupandosi se la percentuale espressa dal criterio adottato per la relativa quantificazione sia equa od iniqua. Spetterà all'organo giudicante, quando verrà il momento di convertire in denaro la stima compiuta dal medico-legale, fare ricorso se del caso all'equità correttiva od a quella integrativa, ex artt. 1226 e 2056 c.c.» (Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28986).

Corollario di ciò è che l'ausiliario medico-legale, nell'attività di stima del danno alla salute patito da chi sia portatore di patologie pregresse, dovrà pertanto limitarsi a:

  • fornire al giudice una prima valutazione «reale e concreta, indicativa dell'effettivo grado percentuale di invalidità permanente di cui la vittima sia complessivamente portatrice all'esito dell'infortunio, valutato sommando tutti i postumi riscontrati in vivo e non in vitro di qualunque tipo e da qualunque causa provocati» (Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28986);
  • fornire al giudice una seconda valutazione «astratta ed ipotetica, pari all'ideale grado di invalidità permanente di cui la vittima era portatrice prima dell'infortunio» (Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28986);
  • valutare, pertanto, il grado di invalidità permanente obiettivo e complessivo presentato dal danneggiato, il quale va determinato sempre e comunque in base all'invalidità concreta e complessiva riscontrata in corpore, senza innalzamenti o riduzioni della misura e senza applicazione di alcuna formula proporzionale e/o riduzionistica (in quanto ciò si tradurrebbe in un'attività liquidativa esulante dai compiti dell'ausiliario medico-legale);
  • indicare il criterio adottato per pervenire alla determinazione del grado di invalidità permanente e i baréme cui ha fatto riferimento, al fine di consentire al giudice la possibilità di ripercorrere l'iter logico seguito nell'attività di quantificazione (e, quindi, di consentire a quest'ultimo di vagliare altresì la correttezza dell'operato dell'ausiliario).

Un diverso criterio adottato dall'ausiliario medico-legale, difatti, finirebbe per identificare il danno con la sua unità di misura (che è la percentuale di I.P.) e finirebbe per non tener conto che ogni individuo vivente possiede peculiarità psico-fisiche rispetto alle quali le conseguenze dannose del fatto illecito e/o dell'inadempimento vanno dapprima valutate e stimate nella loro totalità e, successivamente, depurate della quota non eziologicamente riconducibile alla condotta del responsabile.

Al termine di tale valutazione in facto spetterà poi al magistrato tenere conto delle preesistenze invalidanti nella successiva fase di liquidazione del risarcimento, monetizzando sia l'invalidità complessivamente accertata che quella ipotizzabile in caso di assenza dell'errore medico (o dell'illecito generalmente inteso), sottraendo il valore monetario risultante dalla conversione in danaro della I.P. pregressa (oltre all'eventuale ulteriore I.P. sibi) al valore monetario risultante dalla conversione in danaro della I.P. complessiva, ottenendo così il c.d. danno iatrogeno differenziale risarcibile (relativo all'I.P. iatrogena).

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