Tutela infortunistica: perché coronavirus sì e influenza no

13 Luglio 2020

Il dibattito sulla inclusione nella tutela infortunistica delle infezioni da agente biologico è antico e risale ai primi del 900. Il r.d. n. 1765 del 1935 ha impostato il problema nei seguenti termini: le infezioni a carattere endemico...

Il virus SARS-CoV-2 è un agente biologico, e provoca la malattia denominata Covid 19 (*).

Essa ha carattere pandemico.

Il dibattito sulla inclusione nella tutela infortunistica delle infezioni da agente biologico è antico e risale ai primi del 900 (ROSSI P., Le infezioni come infortunio sul lavoro: ricostruzione storica del percorso normativo e dottrinario della tutela assicurativa, in Riv. inf. mal. prof. 2019, fasc. 2/3).

Il r.d. n. 1765 del 1935 ha impostato il problema nei seguenti termini: le infezioni a carattere endemico, come la malaria, sono escluse dalla tutela perché affliggono la generalità della popolazione, senza una specificità lavorativa; le infezioni tipiche di un ambiente lavorativo, come il carbonchio, sono incluse nella tutela.

Questo regime è perpetuato nell'art. 2 t.u.1124.

Questa norma è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 226 del 987, nella parte in cui non ricomprende tra i casi di infortunio sul lavoro l'evento dannoso derivante da infezione malarica, perché, a seguito delle disinfestazioni chimiche tramite DDT nel secondo dopoguerra, la malaria non è più una malattia endemica. Con la stessa sentenza la Corte ha dichiarato illegittime le norme speciali che prevedevano per gli eventi da malaria provvidenze diverse da quelle del sistema di tutela per gli infortuni sul lavoro. Con la sua motivazione la Corte, per un verso conferma la antinomia cause pandemiche-cause lavorative, da un altro ammette che l'infortunio sul lavoro da malaria possa avvenire in “circoscritto ambiente infetto”, e cioè per una diffusione ambientale.

La dicotomia cennata, basata sulla nozione originaria di rischio specifico proprio, è stata incrinata dall'ingresso nel sistema di tutela della nozione, di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, di rischio generico aggravato, e cioè di un rischio di per sé incombente su tutta la generalità, ma che per un lavoratore può essere aggravato da un fattore peculiare legato al lavoro. Esempi: l'infermiere che nel camminare nei viali interni dell'ospedale, inciampi nelle irregolarità del terreno e cada; l'infortunio in itinere (sul che v. amplius DE MATTEIS, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2020, pag. 79 e 139).

La infezione da coronavirus è a carattere diffusivo e pandemico; interessa tutta la popolazione, ma non si può negare che il rischio di contrarla è molto maggiore per un operatore sanitario. Il primo fondamento per l'inserimento delle infezioni da coronavirus nel sistema di tutela degli infortuni è perciò la nozione di rischio generico aggravato.

Ciò posto, l'evento va qualificato come infortunio, e non malattia professionale, secondo la nostra storia sistemica, che comprende nella causa violenta anche quella virulenta (DE MATTEIS, cit. pag. 176) come sono gli agenti biologici.

E siccome uno sguardo dalla finestra è sempre utile, si può aggiungere che anche i Paesi fratelli sussumono le infezioni da coronavirus nel sistema di tutela degli infortuni sul lavoro oppure delle malattie professionali, anche se con una latitudine, collocazione sistemica ed automatismi diversi, in parte, dai nostri. Francia e Spagna, ad es., la riconoscono, allo stato, solo per il personale sanitario, anche se vi sono sollecitazioni per una maggiore estensione a tutti i lavoratori.

Molto più aperto ed esteso l'approccio nel nostro Paese. Sulla base dell'art. 42,comma 2, d.l. 17 marzo 2020 n. 18, conv. in l. 24 aprile 2020 n. 27, l'Inail, con la circolare 3 aprile 2020 n. 13 (sulla quale v. CORSALINI G., L'INAIL e il Covid-19, in RDSS, 2/2020), in puntuale richiamo della giurisprudenza sul tema, fa uso massiccio del criterio probabilistico, applicandolo alle diverse categorie di lavoratori,situazioni lavorative ed equiparate:

a) per gli operatori sanitari l'Inail ritiene, in continuità con la circ. 23 novembre 1995 n. 74, che vi sia una elevatissima probabilità che gli stessi vengano a contatto con il coronavirus, indipendentemente dal reparto in cui operano; tale criterio probabilistico assorbe ed elide qualsiasi esigenza di prova dell'episodio infettante; anzi, secondo autorevole dottrina (LA PECCERELLA L., Infezione da coronavirus e tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, in Dir. sic. lav., 1/2020), a fronte di questa elevatissima probabilità, anche la prova, più o meno certa, di contatti con soggetti potenzialmente contagiosi avvenuti al di fuori dell'ambiente di lavoro, non è sufficiente a superare la presunzione semplice di origine professionale;

b) agli operatori sanitari vanno assimilati i lavoratori in costante contatto con il pubblico, dato l'elevato rischio di contagio: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite, banconisti, personale non sanitario operante all'interno degli ospedali con mansioni tecniche di supporto, di pulizia, operatori del trasporto infermi, etc.;

c) altri lavoratori, non esemplificati, cui si possa applicare la stessa presunzione semplice di contagio. La FAQ (Frequently Asked Questions) Inail del 10 aprile 2020 menziona ancora, sempre a titolo esemplificativo, gli operatori delle Residenze sanitarie assistenziali (RSA) ed i tassisti. Nella stessa ratio si possono far rientrare le addette alla pulizia negli studi medici, e simili;

d) lo stesso strumento presuntivo l'Inail ha applicato all' infortunio in itinere: nel mezzo di trasporto pubblico il rischio di contagio è più elevato, trattandosi di ambiente confinato con più persone. La conseguenza è duplice: da una parte ai lavoratori che si avvalgano del trasporto pubblico si applica la presunzione di origine professionale, anche se non appartenenti alle categorie professionali esemplificate sopra; dall'altra l'uso del mezzo privato costituisce in questa fase emergenziale una ulteriore ipotesi di mezzo necessitato.

La posizione dell'Inail è stata ragionata e costante fin dall'inizio.

Nella nota 17 marzo 2020 n. 3675 l'Istituto scriveva: “la tutela assicurativa si estende anche alle ipotesi in cui l'identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica. Ne discende che, ove l'episodio che ha determinato il contagio non sia percepito o non possa essere provato dal lavoratore, si può comunque presumere che lo stesso si sia verificato in considerazione delle mansioni/ lavorazioni e di ogni altro indizio che in tal senso deponga”.

E tale posizione è ribadita nella circolare 20 maggio 2020 n. 22.

Senonché il riferimento alle mansioni/lavorazioni pone un interrogativo: l'elencazione della circolare riprende il modello selettivo dell'art. 4 t.u. 1124 sulle persone tutelate, oppure è semplicemente esemplificativo, come l'elencazione del comma 3 dello stesso art. 4 sui commessi viaggiatori, nella interpretazione della Corte cost. (DE MATTEIS, cit. pag. 87).

Non pare dubbio che l'intento sia esemplificativo, come risulta dalle espressioni adottate (“altri lavoratori non esemplificati, cui si possa applicare la stessa presunzione semplice di contagio”) e dalla menzione di ulteriori figure professionali esemplificate in altri documenti di fonte Inail, come le FAQ citate.

Tuttavia, la esemplificazione avviene per categorie professionali, ed è la mera appartenenza ad una di queste che fa scattare la presunzione di origine professionale, presunzione che permane, secondo autorevole dottrina, anche nel concorso con altre possibili fonti di contagio (LA PECCERELLA cit., nell'ipotesi della cassiera che vada a trovare l'anziana madre ricoverata in una RSA).

Preso atto dell'intento esemplificativo, c'è da chiedersi dove ci si debba fermare scendendo per li rami della scala presuntiva. È il caso, ad esempio, del primo positivo in fabbrica, il quale non potrebbe invocare nessuna presunzione, e rimarrebbe perciò l'unico privo di copertura Inail, mentre tutti gli altri potrebbero dedurre a ragione la presunzione vista prima di essere stati da lui infettati sul posto di lavoro. E quale presunzione si applicherà nel caso di infezione di massa in uno stabilimento industriale (come avvenuto per determinate lavorazioni nella vicina Germania), caso conclamato di infezione da coronavirus sul posto di lavoro, o per i focolai che rispuntano qua e là in complessi produttivi anche nel nostro Paese.

L'unica soluzione a questo problema reale appare quella suggerita da autorevole dottrina (GIUBBONI S., Covid 19: Obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori, di prossima pubblicazione in Lavoro e previdenza oggi, reperibile in WP CSDLE MASSIMO D'ANTONA), secondo cui il lavoro prestato durante la fase emergenziale costituisce di per sé fattore di aggravamento del rischio di contagio.

Diversi argomenti ci convincono della necessità di aderire a questa proposta dottrinaria, ed estenderla anche al di là della fase emergenziale.

Il primo è di carattere simpatico, per quel che può valere. E' lo stesso processo logico che indusse chi scrive, se mi è consentito, a suggerire, nel lontano 1995, che la destinazione lavorativa costituisce di per sé il quid pluris di cui la giurisprudenza andava in cerca per giustificare la tutela dell'infortunio in itinere quale aggravamento del rischio generico gravante su tutti gli utenti della strada (DE MATTEIS, L' assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, Torino, 1996, 105), principio divenuto poi jus receptum.

In secondo luogo, questa posizione coglie la ragione per cui l'Inail propone la presunzione di origine lavorativa per i lavoratori della lett. b), le cassiere, i tassisti, il trasporto pubblico. È la natura del rischio, il suo carattere diffusivo e asintomatico. Il nemico ti ascolta, come diceva un vecchio manifesto di guerra, subdolo, ignoto, pronto a infettare ovunque e chiunque, difficile ed addirittura impossibile da provare.

Ove si adottasse un approccio puramente categoriale, questo ripeterebbe i difetti del sistema selettivo tanto deprecato: coprirebbe la massima parte dei lavoratori, ma solo per alcuni di essi pretende la prova diabolica del contagio. Dov'è la differenza tra il primo nella catena del contagio in fabbrica ed il tassista, entrambi esposti ad un virus ignoto ed entrambi impossibilitati a provare il contagio?

Infine, questa proposta ricostruttiva corrisponde alla concezione attuale della occasione di lavoro cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità. Partita dall'affermazione che non basta il nesso spaziale e temporale, dovendo il lavoratore provare il nesso funzionale con il lavoro, è oggi pervenuta a statuire che la occasione di lavoro comprende tutte le condizioni, incluse quelle ambientali e socio economiche in cui l'attività lavorativa si svolge, e tutti i fatti, anche straordinari ed imprevedibili, inerenti all'ambiente, indipendentemente dal fatto che il danno provenga dall'apparato produttivo o dipenda da terzi o da fatti e situazioni proprie del lavoratore. Unico limite: il rischio elettivo o la finalità extra lavorativa.

Ma l'argomento decisivo e dirimente è quello fornito dalla direttiva della Commissione del 3 giugno 2020 n. 739, la quale ha integrato, inserendovi il SARS-CoV-2, la Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2000/54/CE sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un'esposizione ad agenti biologici durante il lavoro. Questa direttiva vincola tutti i Paesi dell'Unione europea a considerare il SARS-CoV-2 come un agente patogeno proprio dei luoghi di lavoro, e cioè come un rischio specifico proprio.

Alla luce di tale direttiva è possibile prendere posizione sulla natura, confermativa o innovativa, dell'art. 42, comma 2, cit., che qualifica come infortunio sul lavoro la lesione da coronavirus.

Il carattere confermativo è basato sulla natura del coronavirus quale causa virulenta, e quindi violenta (ROSSI P. cit.; GAMBACCIANI-LA PECCERELLA, La tutela dell'infezione da SARS-CoV-2 come infortunio sul lavoro, in Riv. inf. mal. prof. 2019, n. 2/3).

Il carattere innovativo ed eccezionale è viceversa dedotto dal carattere pandemico dell'infezione, e dalla relativa giurisprudenza costituzionale. Si fa notare che in tanto la Corte cost. n. 226 del 1987 ha sottoposto la infezione malarica a tutela Inail, in quanto questa ha perso il suo carattere endemico. Ove si ritenesse che qualsiasi infezione virale rientri nella tutela, l'estrema conseguenza sarebbe di comprendervi anche la comune influenza stagionale, che è di origine virale (tesi riferita da CORSALINI, La centralità del lavoratore nel sistema di tutela degli infortuni e delle malattie professionali, Milano, 2020, di prossima pubblicazione).

A nostro sommesso avviso, l'art. 42 è confermativo nella parte in cui classifica la lesione da coronavirus come infortunio sul lavoro. Anche nel suo silenzio, la infezione da coronavirus avrebbe dovuto essere così qualificata sulla base dei parametri di sistema (vedi, a proposito dall'epatite contratta da sanitari, DE MATTEIS, cit. pag. 178).

Nello stesso tempo esso è innovativo nella parte in cui, con la sua qualificazione espressa, ed in correlazione con la direttiva citata, muta il fondamento giustificativo della tutela, da rischio generico aggravato a rischio specifico proprio.

Questa conclusione è basata sul tenore delle diverse norme del titolo X del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, le quali si applicano a tutte le attività lavorative nelle quali vi è il rischio di esposizione ad agenti biologici (art. 266), perché presenti nell'ambiente, e non solo a quelli esclusivi dell'ambiente lavorativo. E la classificazione di tali agenti comprende (art. 268) quelli per i quali sussiste un elevato rischio di propagazione nella comunità. Infine, l'allegato XLVI, cui rinvia l'art. 268, già comprende nella lista (“un primo elenco”) la famiglia dei Coronaviridae, cui appartiene il SARS-CoV-2.

Il rischio nella infezione da coronavirus nel nostro caso è costituito, come risulta dagli innumerevoli provvedimenti legislativi ed amministrativi di contenimento, dall'aggregazione sociale per ragioni lavorative: aggregazione interna, con altri colleghi, o esterna, per i contatti imposti per ragioni lavorative con una pluralità di soggetti, potenziali e ignoti portatori di contagio, o sui mezzi di trasporto pubblico necessari per raggiungere il posto di lavoro.

La qualificazione di rischio specifico proprio ha come conseguenza di rendere superata la esemplificazione della circolare, necessitata dalla nozione allora adottata di rischio generico aggravato.

Superata la esemplificazione, ma non il sistema presuntivo semplice che è alla sua base e di tutto il sistema di tutela, e che consente la prova contraria di una origine non lavorativa del contagio. Si può fare l'esempio di un sanitario che risulti positivo il primo giorno di lavoro dopo un mese di vacanza; in tal caso si può presumere che il contagio sia avvenuto fuori dalla occasione di lavoro, in relazione al normale periodo di incubazione (7-14 giorni). Ma anche qui con la massima cautela, suggerita dalla stessa scienza medica ed epidemiologica, che segnala casi di latenza anomala del contagio.

Come al legislatore è consentito determinare la soglia di lesione al di sopra della quale interviene la tutela sociale, così gli è consentito determinare quali siano gli agenti biologici per i quali vi è rischio di esposizione nelle attività lavorative e le cui infezioni possano determinare malattie gravi (art. 268) degne di tutela, cosa che ha fatto nell'allegato XLVI cui rinvia l'art. 268, integrato ora espressamente con il SARS-CoV-2, mai identificato prima.

Pertanto, la norma in esame, nella misura in cui costituisca espressione ed applicazione del principio del rischio generico aggravato, ha valore confermativo del sistema; nello stesso tempo ha una funzione integrativa della lista degli agenti biologici di cui all'allegato XLVI cit. ed anticipatoria della specifica norma comunitaria.

L'intervento dell'art. 42 è dunque altamente opportuno, perché evita possibili ritorni di fiamma al dibattito delle origini di carattere classificatorio, nonché a quelli recenti in relazione al carattere pandemico della infezione da coronavirus; a parte le precisazioni in tema di quarantena e l'intervento sul calcolo del tasso di premio.

Il ragionamento seguito, basato anche sulla lista degli agenti biologici di cui all'allegato XLVI cit., non può supportare la tesi della estensione ad altre infezioni virali minori, come l'influenza stagionale, anch'essa causata da un virus appartenente alla stessa famiglia, per le seguenti ragioni: la famiglia dei Coronaviridae è classificata nell'all. LXVI nel gruppo 2, di bassa probabilità, mentre per il SARS-CoV-2 vi è una indicazione specifica di gravità nella Direttiva e nell'art. 42; l' art. 268 cit. limita la tutela alle “malattie gravi” che, nel caso dell'influenza stagionale e per la fascia di popolazione in età lavorativa, non sembrano sussistere; nell'ottica del rischio generico aggravato questo deve essere qualificato, e cioè corrispondere a ragioni di tutela sociale per eventi di una certa gravità.

(*) Il presente scritto costituisce estrema sintesi dell'appendice “La infezione da coronavirus come infortunio sul lavoro” in corso di pubblicazione come allegato al volume Infortuni sul lavoro e malattie professionali di DE MATTEIS A., Milano 2020.

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