Estinzione del giudizio per cassazione e condanna alle spese

Francesco Bartolini
15 Luglio 2020

La pronuncia in commento analizza le conseguenze della rinuncia al ricorso per cassazione, dopo che il giudizio è stato radicato.
Massima

La rinuncia al ricorso per cassazione, dopo che il giudizio è stato radicato, ne comporta l'estinzione indipendentemente dall'accettazione della controparte. L'estinzione determina il venir meno dell'interesse a contrastare l'impugnazione con il controricorso. In mancanza di adesione delle altre parti alla rinuncia, la Corte pronuncia sulla regolazione delle spese del grado valutando l'eventuale sussistenza di ragioni meritevoli di apprezzamento atte a determinare il superamento della regola per cui esse devono far carico alla parte che ha dato causa dapprima all'introduzione del giudizio e poi alla sua estinzione.

Il caso

Avverso la sentenza di appello la parte soccombente propose ricorso per cassazione; controparte resistè con controricorso. In prossimità dell'udienza la ricorrente dichiarò con atto scritto di rinunciare all'impugnazione.

La questione

Le disposizioni dettate dagli artt. 390 e 391 c.p.c. estendono al giudizio per cassazione l'effetto estintivo conseguente alla rinuncia agli atti del giudizio stabilito dal precedente art. 306 c.p.c. Diverso risulta, tuttavia, il regime normativo applicabile nel grado di legittimità per quanto riguarda la natura e gli effetti della rinuncia; e, nella vicenda di specie, la parte convenuta dinanzi alla Corte aveva a propria volta proposto impugnazione, nella forma del controricorso, con la conseguente necessità di una pronuncia su di esso.

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha dichiarato con ordinanza l'estinzione del giudizio in osservanza del disposto di cui al primo comma dell'art. 391 c.p.c. Contestualmente ha indicato le conseguenze che dalla pronuncia derivavano con riguardo alla sorte del controricorso e alla ripartizione delle spese del grado. L'estinzione del giudizio comportava il venir meno dell'interesse della parte convenuta a contrastare l'impugnazione, con conseguente inutilità della prosecuzione del processo per conoscere del controricorso. Non emergevano, poi, ragioni particolarmente meritevoli di apprezzamento, atte a determinare il superamento della regola per cui, in base al principio di causalità, le spese devono far carico alla parte che dapprima ha introdotto il giudizio per cassazione e poi determinato, con la rinuncia, la sua estinzione. La declaratoria di estinzione ha reso inapplicabile la disposizione che fa obbligo alla parte impugnante non vittoriosa di versare una somma pari al contributo unificato già versato all'atto della proposizione dell'impugnazione.

Osservazioni

L'effetto estintivo del giudizio conseguente alla rinunzia agli atti è previsto per il giudizio ordinario di cognizione in via di regola generale dall'art. 306 c.p.c. La regola è applicabile anche al giudizio dinanzi alla Corte di cassazione, peraltro con significative differenze, dovute alla peculiare natura di tale procedimento. La più rilevante di queste diversità è costituita dalla configurazione dell'accettazione della controparte come necessaria, nel processo di merito, a dar luogo alla rinuncia in senso proprio e alla produzione dei suoi effetti: accettazione espressamente prevista dal detto art. 306 e requisito essenziale al punto da essere priva di qualsivoglia efficacia ove sia sottoposta a riserve o a condizioni (Cass. civ., sez. VI, n. 10934/2017; Cass. civ., sez. II, n. 9636/1998). Il preciso testo della norma («… quando la rinuncia è accettata...») indica, inoltre, nel momento di questa accettazione il perfezionamento di un atto complesso che implica l'incontro di due manifestazioni di volontà e che può risolversi in una fattispecie a formazione progressiva. Il consenso deve provenire dalle parti legittimate a disporre degli atti del giudizio e, per tale ragione, è disposto che anche l'accettante deve essere costituito nel processo. Proprio perché si richiede una adesione alla rinuncia, la regolazione delle spese processuali, nel giudizio di merito, è rimessa alle decisioni delle parti interessate e solo in mancanza di un accordo in proposito provvede il giudice in applicazione del principio di soccombenza (questo è il quadro normativo desunto dal tenore letterale della disposizione citata: poi forzato dall'interpretazione giurisprudenziale secondo cui poco importa che manchi la necessaria accettazione: decide il giudice l'estinzione del giudizio quando ritiene che la parte diversa da quella che rinuncia non ha interesse alla prosecuzione della causa: Cass. civ., sez. III, n. 15631/2009; Cass. civ., sez. I, n. 9066/2002).

Il difforme regime della rinuncia agli atti nel gravame dinanzi alla Suprema Corte risulta chiaramente dal raffronto tra quanto appena ricordato a proposito del citato art. 306 e il combinato disposto degli artt. 390 e 391 c.p.c. La prima di queste norme non richiede l'accettazione della controparte ma impone unicamente che ad essa l'atto di rinuncia sia notificato o comunicato. La diversità è rivelatrice di una scelta legislativa che ha richiesto la compartecipazione della controparte soltanto sotto la forma di una presa di conoscenza della altrui decisione e, quindi, a puro titolo di opportuna forma di trasparenza e di lealtà processuale. Sul punto, però, si confrontano due concezioni diverse, nella giurisprudenza. La più radicale vuole che non si applichi in alcun modo l'art. 306 c.p.c. e che la rinuncia al giudizio in cassazione non costituisca un atto c.d. “accettizio” (richiedente, cioè, l'accettazione per essere produttivo di effetti processuali) né un atto recettizio in senso stretto, dal momento che l'art. 390 c.p.c. ne consente la semplice comunicazione agli avvocati delle parti, non investiti, nel giudizio di legittimità, della rappresentanza di queste ma del solo compito di loro difesa (Cass. civ., sez. V, n. 28675/2005; Cass. civ., sez. VI n. 3971/2015). Ne consegue che l'atto di rinuncia determina di per sé l'estinzione del procedimento indipendentemente dalla notifica e dalla comunicazione, richieste unicamente per provocare l'eventuale adesione di controparte e prevenire in tal modo la condanna alle spese. A questo orientamento si contrappone quello che ravvisa nella rinuncia un atto unilaterale recettizio, inidoneo a determinare l'estinzione del giudizio se non notificato alle parti costituite o comunicato ai loro difensori. In difetto di notifica o di comunicazione, si afferma, la rinuncia è inefficace; e tuttavia essa dimostra palesemente che il ricorrente non ha più interesse alla sua impugnazione, circostanza di cui deve darsi atto con una pronuncia di inammissibilità sopravvenuta del gravame (Cass. civ., sez. III, n. 12743/2016; Cass. civ., sez. I, n. 17187/2014; Cass. civ., sez. III, n. 2259/2013).

Il contrasto di opinioni ha un risvolto di conseguenze pratiche. Sia la declaratoria di estinzione che la pronuncia di inammissibilità del ricorso comportano il passaggio in giudicato della decisione impugnata. Ma Cass. civ., sez. III, n. 2259/2013 ha consentito alla controparte cui la rinuncia non era stata notificata o comunicata di manifestare la volontà di ottenere comunque la pronuncia sull'oggetto del contendere. Una siffatta facoltà è certamente da ritenersi esclusa ove si consideri la rinuncia quale atto che produce l'estinzione del giudizio di per sé, in modo automatico, restando indifferenti l'accettazione, la notifica o la comunicazione (Cass. civ., sez. VI, n. 25824/2014; Cass. civ., Sez. Un., n. 3129/2005; Cass. civ., Sez. Un., n. 23737/2004). Pur nel sussistente contrasto ricordato, esiste un aspetto dell'adesione delle parti alla rinuncia agli atti del giudizio sul quale la giurisprudenza converge. Esso riguarda la cancellazione della trascrizione dell'atto di citazione introduttivo del processo: la cancellazione può essere ordinata soltanto se in proposito vi è la concorde richiesta delle parti: Cass. civ., sez. III, n. 18741/2016; Cass. civ., sez. VI, n. 13715/2013; Cass. civ., sez. III, n. 8991/2012.

In ordine al controricorso il Supremo collegio si è limitato ad osservare che per effetto della rinuncia la sentenza impugnata era passata in giudicato: con il venir meno dell'interesse del controricorrente a contrastare l'impugnazione. La natura di mera controdifesa dell'atto imponeva una siffatta decisione, non potendosi riferire alla parte resistente intento diverso da quello di una sostanziale conferma della pronuncia ad essa favorevole. Diverso sarebbe stato il discorso nell'ipotesi della proposizione di un ricorso in via incidentale.

In ordine alle spese del grado, il vigente testo dell'art. 391, comma 2, c.p.c. rende facoltativa la condanna alle spese della parte che ha dato causa all'estinzione del giudizio di legittimità: pone, cioè, a discrezione della Corte l'osservanza della regola per la quale le spese debbono far carico alla parte che ha dato causa al processo. In proposito l'unico limite imposto all'apprezzamento demandato al collegio giudicante è nel senso che la pronuncia di condanna alle spese non può essere disposta se alla rinuncia hanno aderito le altre parti. Nella vicenda di specie non risultava in alcun modo l'adesione dei controinteressati e pertanto il collegio si è ritenuto libero di valutare le risultanze di causa onde trarne una indicazione di conferma oppure di deroga della generale regola di accollo dei costi processuali al rinunziante. I motivi giustificativi della rinuncia sono stati ritenuti privi di riscontro e in ogni caso «... recessivi rispetto all'interesse della parte non rinunciante ad ottenere il rimborso delle spese processuali affrontate per resistere al ricorso: tanto più in considerazione della particolarità e complessità delle questioni prospettate con l'atto di impugnazione e dell'impegno che l'approntamento delle difese, quindi, imponeva».

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