Sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato

15 Settembre 2020

L'art. 5 del d.lgs. n. 150/2011 detta disposizioni comuni ai molteplici riti ricondotti ai tre modelli “semplificati” (ovvero rito del lavoro, procedimento sommario di cognizione e processo ordinario di cognizione) in ordine alla sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato.
Inquadramento

L'art. 5 del d.lgs. n. 150/2011 detta disposizioni comuni ai molteplici riti ricondotti ai tre modelli “semplificati” (ovvero rito del lavoro, procedimento sommario di cognizione e processo ordinario di cognizione) in ordine alla sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato.

In particolare, è stabilito che nelle ipotesi in cui sia prevista la possibilità di disporre la sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato il giudice decide, se richiesto e sentite le parti, mediante ordinanza non impugnabile, nella quale devono essere indicate le gravi e circostanziate ragioni poste a fondamento della misura adottata.

Qualora sussista un pericolo imminente di un danno grave ed irreparabile, la sospensione può essere disposta mediante decreto pronunciato fuori udienza, con provvedimento che diviene inefficace ove non confermato alla prima udienza successiva con ordinanza emessa nel contraddittorio tra le parti.

Ambito applicativo e portata della norma

La disciplina contemplata dall'art. 5 del d.lgs. n. 150/2011 opera, quindi, in tutte le ipotesi nelle quali nell'ambito dei ventotto procedimenti regolati dal decreto legislativo sulla semplificazione dei riti civili venga richiesta la sospensione dell'efficacia esecutiva dell'atto impugnato.

Questo significa che il provvedimento inibitorio in questione è l'unico che può essere richiesto ai fini della produzione di tale specifico effetto.

In tale prospettiva, in sede applicativa si è affermato, ad esempio, che, state l'esistenza del rimedio cautelare tipico previsto dal combinato disposto degli art. 10 e 5 d.lgs. n. 150/2011, deve ritenersi inammissibile il ricorso al procedimento d'urgenza a carattere residuale di cui all'art. 700 c.p.c. per reagire a violazioni del codice della privacy quale l'erronea segnalazione a sofferenza del proprio nominativo nella Centrale rischi della Banca d'Italia (Trib. Verona, 30 ottobre 2012, in Banca Borsa Titoli di Credito, 2014, n. 2, 212, con nota di Martorano).

Il procedimento ordinario nel contraddittorio tra le parti

In conformità alle regole generali, la concessione del provvedimento è assoggettata, in primo luogo, ad una richiesta della parte interessata, richiesta che, di norma, pur potendo essere effettuata in un atto autonomo, sarà contenuta nell'atto introduttivo del procedimento.

A fronte dell'istanza di parte, la decisione sulla richiesta di sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato è resa dal giudice adito dopo un'udienza nel contraddittorio con l'altra parte.

Non è escluso che nei giorni precedenti o in sede di udienza la parte resistente produca a propria volta una memoria per controdedurre rispetto all'istanza di inibitoria.

La pronuncia è assunta nella forma dell'ordinanza che – mediante un'opportuna specificazione in ragione di alcune prassi maturate nel sistema previgente – deve essere esplicitamente motivata in ordine alle gravi e circostanziate ragioni che giustificano l'emanazione del provvedimento inibitorio.

Deve ritenersi che di analoga motivazione, chiaramente circa l'insussistenza dei presupposti per la concessione della misura richiesta, deve corredare l'ordinanza di diniego.

Il procedimento a contraddittorio differito

Il secondo comma dello stesso art. 5 del d.lgs. n. 150/2011 stabilisce che, in caso di pericolo imminente di un danno grave e irreparabile, la sospensione può essere disposta con decreto pronunciato fuori udienza. La sospensione diviene inefficace se non è confermata, entro la prima udienza successiva, con ordinanza resa nel contraddittorio tra le parti.

La concessione dell'inibitoria dell'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato con decreto inaudita altera parte è subordinata, sul piano del periculum in mora, ad un requisito identico a quello contemplato dall'art. 700 c.p.c. per l'emanazione, anche in detta ipotesi in concorso con il fumus boni juris, di un provvedimento d'urgenza.

In considerazione degli approdi cui sono pervenute, infine, la dottrina e la giurisprudenza sulla questione, deve quindi ritenersi esclusa la possibilità di emanare un decreto di sospensione ai sensi del secondo comma dell'art. 5 del d.lgs. n. 150/2011 ove la lesione dedotta non incida su posizioni giuridiche soggettive a contenuto non patrimoniale ed in genere di rilevanza costituzionale strettamente connesse al diritto fatto valere, e sia dunque suscettibile di un imminente pregiudizio non ristorabile per equivalente (cfr., ex multis, Trib. Palermo, sez. lav., 9 agosto 2019).

Questo comporta che, a differenza di quanto avviene nel procedimento cautelare uniforme stante la diversa formulazione dell'art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., che subordina la possibilità di emanare un decreto inaudita altera parte quando «la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l'attuazione del provvedimento», questa circostanza non può essere presa in considerazione per derogare alla regola generale del contraddittorio preventivo ai fini della concessione del provvedimento inibitorio in esame. Peraltro ciò si spiega agevolmente considerato che le misure delle quali è richiesta la sospensione sono emesse da autorità amministrative sicché tale pericolo non appare suscettibile di verificarsi.

Altra significativa divergenza rispetto a quanto previsto in tema di decreto cautelare inaudita altera parte dal comma secondo dell'art. 669-sexies c.p.c. attiene alla mancata previsione sia del termine entro il quale il decreto deve essere notificato alla parte resistente sia di quello entro il quale deve celebrarsi l'udienza nel contraddittorio tra le parti.

Diversamente la richiamata disposizione stabilisce che quando è concesso il decreto cautelare inaudita altera parte, il giudice fissa, con lo stesso decreto, l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni assegnando all'istante un termine perentorio non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. Nella prassi applicativa tale previsione normativa è stata oggetto di una rigorosa interpretazione da parte della giurisprudenza specie in ordine alla necessità di rispetto del termine di otto giorni previsto per la notifica del decreto cautelare all'altra parte, al fine di ripristinare il contraddittorio, già eccezionalmente sacrificato, in modo pressoché immediato. È dominante infatti la tesi secondo cui la mancata notifica del ricorso e del decreto con il quale il giudice dispone l'adozione del provvedimento cautelare e fissa la data di udienza per la comparizione delle parti dinanzi a sé comporta l'inefficacia del provvedimento cautelare, per applicazione analogica di quanto previsto dall'art. 669-novies c.p.c. per l'ipotesi di mancata instaurazione del giudizio di merito a seguito della concessione di una misura cautelare ante causam (Trib. Milano, 11 novembre 1993, in Foro it., 1994, I, c. 603 ed in Riv. dir. comm., 1994, II, p. 251, con nota di Becchis; Trib. Salerno, 2 giugno 2000). Talvolta, in una prospettiva assolutamente rigorosa, il medesimo orientamento è stato affermato anche in relazione ad ipotesi nelle quali il giudice aveva erroneamente concesso un termine superiore ad otto giorni per la notifica del decreto cautelare ovvero omesso di indicare detto termine (Trib. Roma, 29 novembre 2002, in Giur. Merito, 2003, p. 867).

Regime dell'ordinanza

La sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato è di norma, come evidenziato, resa con ordinanza.

Parimenti dovrà essere, a pena di inefficacia, confermata all'esito dell'udienza nel contraddittorio tra le parti, con provvedimento avente veste formale di ordinanza, la misura inibitoria già assunta con decreto ai sensi del comma secondo dell'art. 5 del d.lgs. n. 150/2011.

Viene precisato dal primo comma della stessa norma che tale ordinanza non è impugnabile.

Nell'interrogarsi circa la portata di tale locuzione, non può trascurarsi di ricordare il noto dibattito avente ad oggetto, a seguito dell'introduzione del rimedio del reclamo cautelare da parte della legge 26 novembre 1990 n. 353, la possibilità, attraverso la clausola di compatibilità con il procedimento cautelare dell'art. 669-quaterdecies c.p.c., di ritenere ammesso il rimedio del reclamo previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c. anche per provvedimenti di natura sostanzialmente cautelare previsti anche dalla normativa speciale (se si vuole, per i riferimenti, Giordano, 386 ss).

Con più specifico riguardo ai provvedimenti di inibitoria dell'efficacia di misure già emanate da un'autorità amministrativa ovvero nell'ambito della precedente fase del giudizio peraltro la giurisprudenza si è mostrata incline a negare sul piano della compatibilità, attese le differenze sotto il profilo strutturale quanto alla configurazione del nesso di strumentalità, l'esperibilità del reclamo cautelare (cfr. Giordano, 398 ss.).

Tale soluzione, del resto, come immediatamente osservato in dottrina in sede di primo commento all'art. 5 del d.lgs. n. 150/2011, dovrebbe derivare ex se dalla circostanza che la norma è stata dettata successivamente all'entrata in vigore del procedimento cautelare uniforme ed il legislatore ha espressamente previsto la non impugnabilità dell'ordinanza (così Panzarola, 64, il quale evidenzia che è stata così realizzata un'inopportuna riforma in peius del regime precedente, almeno secondo l'interpretazione del sistema chepoteva essere trattata dall'art. 669-quaterdecies c.p.c., con potenziali profili di illegittimità costituzionale dell'art. 5 del d.lgs. n. 150/2011 per la conseguente disparità di trattamento in punto di regime tra le varie misure cautelari).

Segue. L'intervento della Corte costituzionale

La Corte costituzionale era stata investita proprio della questione della compatibilità della previsione della non impugnabilità dell'ordinanza di inibitoria in materia di opposizioni a sanzioni amministrative, emesse anche per violazione delle norme sulla circolazione stradale, resa ai sensi del comma secondo dell'art. 5 del d.lgs. n. 150/2011 con l'art. 3 Cost., per un assunto trattamento dissimile e deteriore rispetto a situazioni simili, concernenti provvedimenti aventi analoga natura cautelare.

La Corte costituzionale ha ritenuto insussistente la dedotta disparità di trattamento, stante l'eterogeneità, rispetto agli evocati tertia comparationis, e la peculiarità delle controversie in relazione alle quali il censurato comma 1 dell'art. 5d.lgs. n. 150/2011 dispone la non impugnabilità delle ordinanze che decidono sulla sospensione del provvedimento impugnato.

In particolare, con riferimento ai procedimenti sottoposti alla propria attenzione dal giudice rimettente, la Corte ha osservato che i procedimenti di opposizione a sanzione amministrativa, di cui all'art. 6, comma 7, d.lgs. n. 150/2011, sono connotati dalle caratteristiche della celerità, della mera eventualità di un'istruzione in senso stretto - siccome essenzialmente documentale - e dalla particolarità del relativo oggetto, che si risolve nella contestazione della legittimità della pretesa sanzionatoria della pubblica amministrazione.

Analogamente, i procedimenti previsti dall'art. 32, comma 3, d.lgs. n. 150/2011, aventi ad oggetto un credito dell'Amministrazione fatto valere tramite l'ingiunzione emessa ai sensi dell'art. 2 del R.d. n. 639/1910, che, pur quando riconducibile nell'ambito di rapporti obbligatori di diritto privato, costituisce manifestazione, comunque, del potere di auto-accertamento ed autotutela della PA che, da un lato, è idoneo a dar vita ad un giudizio sulla legittimità della pretesa e, dall'altro, cumula le funzioni del titolo esecutivo e del precetto.

La Corte costituzionale ha così evidenziato che rispetto a tali procedimenti non è irragionevole la scelta del legislatore delegato del 2011 di sottrarli alla regola di reclamabilità dei provvedimenti di concessa o denegata sospensione di cui all'art. 669-terdeciesc.p.c., per accentuarne la celerità ai fini della loro definizione nel merito e per concentrare l'esame di tutti i correlati profili di opposizione in capo ad un unico giudice, fatta salva, ovviamente, l'assoggettabilità delle decisioni di primo grado agli ordinari rimedi impugnatori, anche in considerazione della natura solo latamente cautelare delle ordinanze che decidono sulla sospensione o meno dell'efficacia esecutiva dei provvedimenti impugnati nelle controversie oggetto del riordino in questione.

Riferimenti
  • Farina M., Commento all'art. 5, in Commentario alle riforme del processo civile. Dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, a cura di Martino – Panzarola, Torino 2013;
  • Giordano, Il procedimento cautelare uniforme. Prassi e questioni, Giuffrè, 2008;
  • Impagnatiello, La sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, in Foro it., 2012, V, 86 ss.;
  • Panzarola, Commento all'art. 5, in Semplificazione dei riti civili a cura di Sassani – Tiscini, Roma 2011;
  • Penasa, Commento all'art. 5, in Codice di procedura civile commentato. La “semplificazione” dei riti e altre riforme processuali, a cura di Consolo, Milano, 2012.

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