Onere della prova circa la qualità di erede a carico della parte che riassume il processo

Mattia Caputo
22 Settembre 2020

La sentenza che qui si va a commentare riguarda una problematica foriera di importanti ricadute applicative in ambito processuale, cioè quella del riparto dell'onere della prova circa l'esistenza oppure no della qualità di erede della parte processuale deceduta nel corso del giudizio in capo al soggetto nei cui confronti il processo sia stato riassunto.
Massima

In considerazione del principio della prossimità della prova – presidio ontologicamente sistemico che apporta al canone dell'articolo 2697 c.c. una specifica tutela dal suo abuso – deve affermarsi che spetta ai chiamati all'eredità di un soggetto deceduto nelle more di un processo, e conseguentemente convenuti in riassunzione, in primis allegare e quindi dimostrare di non esserne divenuti eredi.

Il caso

Il Tribunale di Siracusa, adito da due persone che si assumevano danneggiate a causa di un sinistro stradale, condannava gli eredi del danneggiante, nonché la compagnia assicuratrice, a risarcire i danni in favore di parte attrice. Avverso tale sentenza la compagnia assicuratrice proponeva appello; in sede di gravame venivano chiamati in causa e si costituivano anche i figli di uno dei due convenuti, deceduto nelle more del giudizio di primo grado, i quali eccepivano, tra l'altro, la carenza della loro qualità di eredi, deducendo di non avere essi accettato l'eredità della madre. La Corte d'appello di Catania accoglieva parzialmente l'impugnazione, riduceva l'ammontare del risarcimento del danno dovuto in favore degli appellati e condannava gli eredi della convenuta, ciascuno fino alla concorrenza della quota ereditaria, a rimborsare alla compagnia assicuratrice le somme pagate in esecuzione della sentenza di primo grado.

Gli eredi della originaria convenuta proponevano ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte d'appello di Catania per violazione di norme di diritto e, in particolare, degli artt. 459 e 2697 c.c., per avere il giudice del gravame, sulla base dei precedenti più recenti della Suprema Corte, ritenuto correttamente instaurato il contraddittorio nei loro confronti motivando che essi non avevano dimostrato di non avere accettato l'eredità della madre - originaria convenuta, deceduta nel corso del processo di primo grado - pur avendo essi contestato la loro qualità di eredi, laddove secondo un altro orientamento l'onere di provare la qualità di eredi in capo ai terzi chiamati sarebbe stato a carico della compagnia assicuratrice appellante quale parte non colpita dall'evento interruttivo, e non invece i presunti eredi onerati di dimostrare l'insussistenza della loro qualifica di eredi.

La Corte di cassazione, con la decisione in esame, ha dapprima analizzato i due orientamenti formatisi relativamente alla questione del riparto dell'onere della prova circa la sussistenza o insussistenza della qualità di erede in capo al soggetto nei cui confronti il processo viene riassunto a seguito di morte di una delle parti, per poi accogliere, all'esito di un articolato percorso argomentativo, l'interpretazione più recente secondo cui l'onere di allegare e dimostrare l'insussistenza della qualità di erede incombe in capo al soggetto, chiamato all'eredità, nei cui confronti viene riassunto il processo. Tale impostazione, secondo la Suprema Corte, si impone al fine di assicurare il rispetto del principio, costituzionale e sovranazionale, del giusto processo e con esso i corollari della ragionevole durata del processo ed il diritto di difesa, così da evitare interpretazioni del principio dell'onere della prova di cui all'articolo 2697 c.c. tali da portare a risultati formalistici, come tali non idonei ad attuare il giusto processo ma, anzi, in grado di stimolare comportamenti abusivi, antitetici rispetto ad un processo, appunto, “giusto”.

Sulla base di questa motivazione la Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso.

La questione

La sentenza che qui si va a commentare riguarda una problematica foriera di importanti ricadute applicative in ambito processuale, cioè quella del riparto dell'onere della prova circa l'esistenza oppure no della qualità di erede della parte processuale deceduta nel corso del giudizio in capo al soggetto nei cui confronti il processo sia stato riassunto. In particolare la pronuncia in oggetto si occupa dell'annosa questione del se l'onere di provare la qualifica di erede della parte deceduta durante il processo in capo al soggetto nei cui confronti viene riassunto il giudizio ricada sulla controparte che, appunto, lo riassume, oppure se incomba sul soggetto che ha ricevuto la notificazione dell'atto di riassunzione e che contesta di non essere erede l'onere di fornire la prova della carenza di tale qualità.

Le soluzioni giuridiche

In ordine alla questione affrontata dalla sentenza che si commenta si sono formati due orientamenti giurisprudenziali.

Secondo una prima ricostruzione l'onere di fornire la prova dell'assunzione della qualità di erede della persona nei cui confronti viene riassunto il processo incombe sulla parte rispetto alla quale non si è verificato l'evento interruttivo del giudizio. Questa impostazione trova il suo fondamento nel principio dell'onere della prova di cui all'articolo 2697 c.c., in forza del quale incombe sulla parte che agisce in giudizio dimostrare l'assunzione della qualità di erede in capo al convenuto nei cui confronti riassume il processo, poiché tale qualifica rappresenta un elemento costitutivo del diritto azionato – attenendo alla titolarità del diritto stesso, sul versante passivo del rapporto processuale -, che come tale va provato dalla parte chi agisce.

Per un altro filone ermeneutico, invece, in caso di interruzione del processo dovuta alla morte di una delle parti, il ricorso per riassunzione ad opera della parte non colpita dall'evento interruttivo, notificato individualmente nei confronti dei chiamati all'eredità, è idoneo ad instaurare validamente il rapporto processuale tra notificante e destinatario della notifica, laddove quest'ultimo rivesta la qualità di successore universale della parte deceduta; con la conseguenza che il chiamato all'eredità non assume la qualifica di erede per il solo fatto di avere ricevuto ed accettato la notificazione dell'atto di riassunzione, ma ha l'onere di contestare, costituendosi in giudizio, l'effettiva assunzione di tale qualità ed il conseguente difetto di legittimazione passiva. Quest'orientamento si basa essenzialmente su due argomenti: in primo luogo sulla necessità di assicurare il rispetto del principio, di rilievo costituzionale (art. 111 Cost.) e sovranazionale (art. 6 CEDU), del giusto processo, per cui risulterebbe assolutamente difficile, se non impossibile, per la parte che riassume il processo a seguito della morte della controparte ed all'interruzione del processo, accertare l'assenza dell'atto di rinuncia di ogni singolo avente diritto all'eredità, nonché di procedere eventualmente mediante l'”actio interrogatoriaex art. 481 c.c. a conoscere le determinazioni dei singoli chiamati all'eredità entro il breve termine per riassumere tempestivamente il processo in stato di quiescenza. In secondo luogo, poi, depone in tal senso il principio di vicinanza o riferibilità dell'onere della prova, in virtù del quale è più agevole per il soggetto chiamato all'eredità allegare e provare di non avere accettato l'eredità, mentre ciò risulterebbe assai più complesso e defatigante per la parte processuale rispetto alla quale non si è verificato alcun evento interruttivo

Con la sentenza in esame la Corte di cassazione ha preliminarmente chiarito che la divergenza tra i due orientamenti giurisprudenziali di cui sopra deriva da una diversa percezione del disposto dell'art. 2697 c.c., non potendo dubitarsi che è la questione sottoposta al suo scrutinio riguardi l'allocazione dell'onere della prova in ordine ad un fatto costitutivo del diritto fatto valere in giudizio, quale è appunto la titolarità del diritto controverso (sul lato passivo del rapporto processuale) collegata indefettibilmente alla qualità di erede della parte nei cui confronti il processo sia stato riassunto.

Ciò posto, la Suprema Corte ha evidenziato come recentemente il problema sia stato affrontato e risolto facendo ricorso al principio di vicinanza dell'onere della prova ed ai valori costituzionali, consacrati nell'art. 111 Cost. – modificato con legge costituzionale n. 2/1999, successivamente al formarsi dell'orientamento secondo cui l'onere di provare la qualità di erede in capo al soggetto nei cui confronti sia stato riassunto il processo interrotto per morte di una delle parti incomberebbe sulla parte che lo riassume – che devono condurre necessariamente ad un'interpretazione non già formale, bensì funzionale al raggiungimento, appunto, un processo “giusto”, delle regole processuali, tra le quali rientra indubbiamente l'art. 2697 c.c.

La Terza Sezione richiama così un precedente in cui la Corte di cassazione aveva stabilito che la legittimazione passiva del soggetto nei cui confronti sia stato riassunto il processo può essere individuata allo stato degli atti, cioè rispetto a quei soggetti che oggettivamente presentino un valido titolo per succedere (come ad esempio il rapporto di coniugio o di parentela con la parte deceduta), laddove non sia conosciuta, né conoscibile mediante l'ordinaria diligenza, alcuna circostanza idonea a dimostrare che il titolo a succedere sia nelle more venuto meno (ad esempio per rinuncia all'eredità, indegnità, premorienza ecc.).

Per tale orientamento, dunque, secondo gli ordinari criteri di riparto dell'”onus probandi” grava su colui che riassume il processo l'onere di accertare diligentemente che i convenuti in riassunzione siano formalmente investiti del titolo a succedere e che tale titolo persista al momento della riassunzione; in presenza di tali presupposti, allora, incombe sul soggetto nei cui confronti il processo sia stato riassunto l'onere di dimostrare di non rivestire la qualità di erede. Questa soluzione, secondo il precedente richiamato dalla Suprema Corte (n. 21287/2011), è l'unica conforme ai principi costituzionali del giusto processo di cui all'articolo 111 della Carta Costituzionale, ed in particolare dei principi della ragionevole durata del processo e di tutela del diritto di difesa, poiché laddove si ritenesse che onerata della prova dell'esistenza della qualità di erede in capo al soggetto nei cui confronti il processo viene riassunto sia la parte non colpita dall'evento interruttivo, si porrebbe quest'ultima in una situazione di enorme difficoltà – ove non di impossibilità – di procedervi, qualora ad esempio, essendo stata dichiarata la morte della controparte ed interrotto il processo oltre il termine di un anno, entro il quale è ammessa la notifica agli eredi impersonalmente e collettivamente, essa si trovasse gravata del compito di accertare la mancanza di atti rinuncia di ogni singolo avente diritto all'eredità; o, finanche, di dover procedere a formulare istanza ai sensi dell'articolo 481 c.c., facendo fissare un termine alle controparti per dichiarare se intendano accettare o rinunciare, procedura che difficilmente potrebbe esaurirsi nel termine ristretto fissato dall'ordinamento per la riassunzione tempestiva del processo. Una siffatta interpretazione comporterebbe quindi un “vulnus” per il diritto di difesa della parte non colpita da eventi interruttivi, la quale si vedrebbe costretta a compiere attività defatiganti di ricerca delle prove dell'accettazione o della rinuncia all'eredità da parte dei chiamati, oltre a minare il canone della ragionevole durata del processo, ben potendo a norma di legge il chiamato all'eredità restare tale per dieci anni (atteso che il suo diritto ad accettare l'eredità si prescrive, appunto, in dieci anni), con conseguente allungamento dei tempi processuali; tempi processuali che sarebbero dilatati significativamente anche nel caso in cui si ravvisasse - stante l'onere di provare la qualità di erede del soggetto destinatario dell'atto di riassunzione - la necessità per la parte non colpita dall'evento interruttivo di iniziare un sub-procedimento quale quello dell'”actio interrogatoria” di cui agli articoli 481 c.c. e 749 c.p.c. Inoltre l'orientamento in esame ha valorizzato anche il principio di vicinanza dell'onere della prova, in base al quale è più agevole per il chiamato all'eredità allegare e provare di non avere accettato l'eredità, mentre sarebbe molto più complesso per la parte non colpita dall'evento interruttivo dimostrare l'effettiva qualità di erede del chiamato, attesa la complessità dei fenomeni ereditari e non essendovi un sistema di pubblicità che consenta un controllo da parte dei terzi sull'effettiva acquisizione della qualità di erede da parte di quest'ultimo.

Con la sentenza che si annota la Corte di cassazione, oltre a fare proprie tutte le argomentazioni ora esposte, ha rilevato come il principio di vicinanza dell'onere della prova costituisca il parametro della relatività, in riferimento ai principi costituzionali e sovranazionali, dell'automatismo di cui all'art. 2697 c.c., per cui tale principio costituisce lo strumento per attuare il giusto processo, e con esso la ragionevole durata ed il diritto di difesa, e non piuttosto per eluderlo, legittimando al contrario comportamenti abusivi. In altri termini, secondo la Suprema Corte occorre adottare un'interpretazione del principio dell'onere della prova non già formale, bensì funzionale allo scopo di favorire, quanto più possibile, la decisione di merito e non di rito; in tal senso deve necessariamente pervenirsi, secondo la Suprema Corte, al risultato interpretativo per cui la parte tenuta a provare il passaggio oppure no da chiamato all'eredità ad erede è il chiamato stesso, in quanto è per quest'ultimo più agevole fornire la prova di non rivestire la qualifica di erede, piuttosto che non per la parte non colpita dall'evento interruttivo della morte della controparte dimostrare la sussistenza della qualifica di erede del soggetto rispetto al quale riassume al processo. Al contempo, sottolinea la Corte di cassazione, l'onere della prova dell'insussistenza della qualità di erede in capo al chiamato all'eredità realizza due ulteriori effetti virtuosi: accelera la tempistica processuale (che sarebbe invece dilatata laddove vi fosse l'onere per la parte non colpita dall'evento interruttivo di procurarsi la prova dell'eventuale accettazione e rinuncia all'eredità da parte dei chiamati o, addirittura, di proporre l'”actio interrogatoriaex art. 481 c.c.) e garantisce l'attuazione del diritto costituzionale di difesa, evitando comportamenti abusivi della parte nei cui confronti il processo è riassunto (la quale potrebbe altrimenti contestare di essere erede della parte deceduta pur avendo in precedenza accettato l'eredità stessa o limitarsi a contestare la carenza della propria qualità di erede per ritardare la decisione).

Pertanto, conclude la pronuncia in oggetto, va accolto l'orientamento più recente secondo cui spetta ai chiamati all'eredità di un soggetto deceduto nelle more di un processo, convenuti in riassunzione, di allegare e dimostrare di non essere divenuti eredi, poiché tale soluzione è quella più consona ai valori costituzionali e sovranazionali del giusto processo.

Osservazioni

La pronuncia in esame appare, a parere di chi scrive, assolutamente condivisibile per avere aderito all'orientamento secondo cui, in caso di morte della parte in corso di causa e di conseguente interruzione del processo, spetta al soggetto nei cui confronti sia stato riassunto il giudizio e che contesti di rivestire la qualità di erede della parte processuale deceduta l'onere di dimostrare l'insussistenza della qualifica di erede. Tale impostazione, infatti, risulta assolutamente in linea con il principio di vicinanza dell'onere della prova, ormai cristallizzato dalla storica pronuncia n. 13533/2001 delle Sezioni Unite Civili, poiché è estremamente più agevole per chi contesta di non essere erede dimostrare di non esserlo – ricadendo tale circostanza nella sua sfera giuridica -, piuttosto che per la controparte dimostrare il contrario, essendo quest'ultima altrimenti onerata di una prova estremamente gravosa, ove addirittura non “diabolica”. In tal senso, come evidenziato dalla Suprema Corte nell'iter argomentativo, la soluzione accolta si salda perfettamente anche con i canoni – costituzionali e sovranazionali – del giusto processo, riducendo da una parte i tempi processuali, altrimenti dilatati dalle ricerche cui sarebbe tenuta la parte non colpita dall'evento interruttivo in ordine a chi rivesta effettivamente la qualità di erede al fine della regolare prosecuzione del processo, e dall'altra non aggravando il diritto di difesa della controparte, altrimenti onerata di un carico probatorio molto difficile da assolvere, nonché a possibili comportamenti abusivi del chiamato all'eredità, il quale potrebbe limitarsi a contestare la sua qualifica di erede senza allegare o provare alcunché, perfino nel caso in cui abbia già in precedenza acquisito tale qualità, avendo accettato l'eredità.

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