La disciplina dell'assegnazione delle mansioni dopo il Jobs Act
30 Settembre 2020
Introduzione
La disciplina dell'assegnazione delle mansioni è stata integralmente riformata dall'art. 3 del d.lgs. n. 81 del 2015 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni”, che ha riscritto l'art. 2103 c.c., rimodulando l'operatività dello ius variandi. Invero, particolarmente significative sono le trasformazioni apportate all'esercizio del potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore e concernono principalmente: il differente parametro cui risulta ancorato il concetto di equivalenza delle mansioni, la possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori, la stabilizzazione del livello in caso di assegnazione a mansioni superiori dopo sei mesi continuativi. Per quanto attiene al primo profilo, mette conto evidenziare che la valutazione del concetto di mansioni equivalenti non attiene più al concreto contenuto professionale delle mansioni effettivamente svolte, bensì a quelle “riconducibili allo stesso livello”, risultando così un richiamo alle classificazioni contenute nei contratti collettivi. Il secondo profilo, strettamente collegato al primo, riguarda la possibilità di modificare in peius l'inquadramento del lavoratore, assegnando lo stesso a mansioni inferiori in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore e nei casi previsti dalla contrattazione collettiva, purché le mansioni inferiori rientrino nella medesima categoria legale (art. 2103, comma 2 c.c.) e fermo restando il mantenimento della medesima retribuzione. Per quanto attiene invece al terzo profilo, vale a dire quello concernente l'assegnazione del lavoratore a mansioni superiori, il legislatore ha precisato che il periodo di assegnazione alle mansioni superiori deve presentare la caratteristica della “continuatività” e che la durata temporale delle stesse, oltre il quale l'assegnazione diventa definitiva, è di sei mesi. Inquadramento del lavoratore
Prima di esaminare nel dettaglio le modifiche introdotte dal Jobs Act all'art. 2103 c.c., sembra opportuna qualche considerazione preliminare in tema di inquadramento del lavoratore. Premesso che l'insieme delle mansioni identifica l'oggetto della prestazione lavorativa dedotta nel contratto di lavoro, merita osservare che lo svolgimento della prestazione di lavoro compendia al tempo stesso un obbligo ed un diritto del lavoratore. Invero, come osservato dalla Suprema Corte, “l'art. 2103 c.c., prevede che il datore di lavoro, nell'esercizio del suo potere direttivo, possa conformare il contenuto dell'obbligazione del lavoratore avente ad oggetto la prestazione lavorativa [...] l'esercizio di tale potere è esso stesso oggetto di una obbligazione strumentale a carico del datore di lavoro che è tenuto a conformare la prestazione lavorativa del lavoratore, il quale ha diritto a svolgerla” (Cass., S.U., n. 5454/2009). Dalla mansione va distinta la qualifica, indicando quest'ultima lo status professionale di appartenenza del lavoratore ad una delle quattro macro categorie individuate dall'art. 2095 c.c. (operai, impiegati, quadri, dirigenti). Al riguardo va rilevato che la contrattazione collettiva, in alcuni casi, in aggiunta alle categorie previste dalla legge, ha introdotto le figure dei funzionari e degli intermedi, arricchendo così il sistema classificatorio professionale. Ciò posto, ai sensi del nuovo art. 2103 c.c. “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”, mentre nella formulazione precedente alle modifiche apportate dal Jobs Act, la norma prevedeva l'adibizione del lavoratore alle mansioni per le quali era stato assunto (secondo il principio della contrattualità delle mansioni - da leggersi in combinato disposto con l'art. 96 disp. att. c.c., ai sensi del quale grava sul datore di lavoro l'obbligo di far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell'assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto), o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che avesse acquisito o, ancora, a quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, non ammettendo la possibilità di una mobilità verso il basso, se non in presenza di ipotesi tassativamente previste per legge. Il concetto di equivalenza delle mansioni
Tra le novità introdotte dal legislatore, particolare importanza assume la modifica concernente l'esercizio del c.d. ius variandi orizzontale, vale a dire lo spostamento del dipendente a mansioni equivalenti. Prima della novella una simile variazione era consentita a condizione che le nuove mansioni fossero “equivalenti alle ultime effettivamente svolte”, attualmente invece, il nuovo art. 2103 c.c. prevede che il lavoratore possa essere adibito a “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. Ne consegue che il giudizio di equivalenza deve essere condotto assumendo quale parametro non più il concreto contenuto delle mansioni svolte in precedenza dal dipendente, bensì solamente le astratte previsioni del sistema di classificazione adottato dal contratto collettivo applicabile al rapporto. Pertanto, ora risulta legittimo lo spostamento del lavoratore a mansioni che appartengono allo stesso livello di inquadramento cui appartenevano quelle svolte in precedenza dallo stesso dipendente, non dovendosi più accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente. Mette conto evidenziare che, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione del corretto inquadramento di un lavoratore subordinato si compone di tre fasi: l'accertamento in fatto dell'attività lavorativa svolta in concreto, l'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal CCNL di categoria ed il raffronto dei risultati delle suddette fasi (Cass., S.U., n. 21301/2017). Ne consegue che il giudice di merito deve tener conto del contenuto effettivo delle mansioni realmente svolte dal lavoratore, identificare correttamente la qualifica contrattuale di riferimento, nonché procedere al raffronto delle prime con le previsioni della declaratoria contrattuale in relazione al periodo oggetto di causa (Cass., ord., n. 3626/2020). Sul punto, inoltre, è opportuno osservare che l'art. 2103 c.c. nella sua nuova formulazione sembra avvicinarsi alla scelta del legislatore in tema di disciplina delle mansioni nel pubblico impiego, laddove infatti l'art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” fa riferimento ad un criterio formale quale quello delle “mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento”. Assegnazione a mansioni inferiori
In tema di assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori, preme rilevare che, a tutela del prestatore di lavoro, il legislatore ha disposto al comma 5 dell'art. 2103 c.c. che, nell'ipotesi di assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori, previste dai commi 2 e 4, il mutamento delle mansioni deve essere comunicato per iscritto, a pena di nullità, e che il lavoratore ha diritto a conservare il livello di inquadramento ed il trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. Invero, l'art. 2103 c.c. regolamenta in modo stringente le ipotesi di riduzione della retribuzione, prevedendo che la stessa non muti, neppure in caso di passaggio a mansioni inferiori. L'esecuzione di mansioni deteriori rispetto a quelle pattuite non può portare ad una diminuzione della retribuzione, e, qualora la riduzione della retribuzione sia stata concordata tra le parti, l'art. 2103 c.c. al 6 comma stabilisce che tale accordo debba essere concluso in “sede protetta”. Si tratta infatti di una norma funzionalmente orientata a tutelare il lavoratore, cui questi non può rinunciare, pena l'invalidità dell'accordo. Pertanto, la formazione dell'accordo deve avvenire nell'ambito di contesti in cui la volontà negoziale del lavoratore si presume tutelata da illegittime pressioni da parte del datore di lavoro. In particolare, l'accordo deve essere posto in essere di fronte alle commissioni di certificazione, ovvero nelle sedi enunciate dall'art. 2113, comma 4, c.c. vale a dire durante il tentativo di conciliazione provocato dal giudice ai sensi dell'art. 185 c.p.c., di quello svolto di fronte alla commissione di conciliazione ai sensi dell'art. 410 c.p.c.; di quello condotto nell'ambito di un arbitrato o conciliazione regolati dai contratti collettivi ai sensi dell'art. 412 ter c.p.c.; di quello regolato dall'art. 412 quater c.p.c. (Corte d'Appello di Milano, sent. n. 1974/2020). Demansionamento
Ciò posto, sembra opportuno osservare che ove venga denunciata la violazione dell'art. 2103 c.c. allegando di aver sofferto una dequalificazione professionale, il giudice deve stabilire se le mansioni svolte dal lavoratore impediscano la piena utilizzazione e l'ulteriore arricchimento della professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto. Invero, non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, che invece implica una sottrazione di mansioni tale - per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale - da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un conseguenziale impoverimento della sua professionalità (Cass., ord. n. 22488 del 9.09.2019). Ove sia accertata l'illegittimità del demansionamento, il lavoratore ha diritto ad essere reintegrato nelle mansioni precedentemente svolte e ad ottenere il risarcimento dei danni patiti. Invero, merita ricordare che il demansionamento configura un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c.; con la conseguenza che, ove il lavoratore alleghi un demansionamento fornendo la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale, spetta al datore l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, ancora, in base all'art. 1218 c.c., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Assegnazione a mansioni superiori e diritto alla promozione
Nel caso di assegnazione a mansioni superiori, l'art. 2103 c.c. al settimo comma sancisce che il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e precisa che l'assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la stessa non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi. Mette conto osservare che, fermo restando il diritto del prestatore di lavoro a percepire la retribuzione corrispondente alle mansioni superiori svolte, nella formulazione precedente all'intervento del Jobs Act, l'arco temporale di svolgimento delle mansioni superiori oltrepassato il quale l'assegnazione diventava definitiva era fissato a tre mesi. Inoltre, la definitività dell'assegnazione era legata al fatto che la stessa non avesse avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. In tema di assegnazione a mansioni superiori, la Suprema Corte ha recentemente ribadito che affinché possa ravvisarsi “la sistematicità e la frequenza di reiterate assegnazioni di un lavoratore allo svolgimento di mansioni superiori il cui cumulo sia utile all'acquisizione del diritto alla promozione automatica in forza dell'art. 2103 c.c.”, occorre, almeno, una programmazione iniziale della molteplicità degli incarichi ed una predeterminazione utilitaristica di siffatto comportamento; tali elementi possono evincersi da circostanze obiettive ed in particolare, “oltre alla frequenza e sistematicità delle assegnazioni, la rispondenza delle stesse ad una esigenza strutturale del datore di lavoro, tale da rivelare la utilità per la organizzazione aziendale della professionalità superiore” (Cass., ord. n. 1556 del 23 gennaio 2020). Al riguardo, preme rilevare altresì che per quanto concerne il diritto del lavoratore ad ottenere la attribuzione della qualifica superiore ex art. 2103 c.c., la giurisprudenza di legittimità ha affermato che qualora il prestatore, oltre a mansioni proprie della categoria di appartenenza, svolga anche altre mansioni definite dalla contrattazione collettiva come proprie della categoria superiore rivendicata, il giudice di merito deve attenersi al criterio della prevalenza e quindi deve aver riguardo al contenuto della mansione primaria e caratterizzante la posizione di lavoro (Cass., ord. n. 32699 del 12 dicembre 2019). Osservazioni
In conclusione, sembra interessante qualche riflessione in tema di mansioni promiscue; in particolare, sul punto, la Suprema Corte (Cass., ord., n. 32699/2019) ha recentemente richiamato l'orientamento secondo cui "Quando la disciplina collettiva, in caso di svolgimento da parte del lavoratore di mansioni di diverse categorie, prevede l'attribuzione della categoria corrispondente alla mansione superiore, sempreché essa abbia carattere di prevalenza o almeno di equivalenza di tempo, il giudice deve compiere una rigorosa e penetrante indagine quanto alla continuità, alla rilevanza e all'impegno temporale giornaliero delle mansioni, delle diverse categorie, espletate dal lavoratore. Nel caso in cui sia assolutamente impossibile comparare le rispettive mansioni secondo il criterio dettato dal contratto collettivo, si deve fare ricorso ai criteri validi per l'ipotesi di assenza di una disciplina collettiva in materia. In tal caso, se il lavoratore svolge nella sua interezza la mansione, il cui espletamento è attributivo della categoria superiore, spetta tale categoria (senza che il contemporaneo esercizio della funzione inferiore, qualunque ne sia la quantità, abbia alcun rilievo ostativo); se, invece, detto criterio non soccorre, assume, se possibile, carattere assorbente quello della quantità delle energie lavorative profuse nelle singole mansioni del lavoratore, nel senso che deve ritenersi caratterizzante una mansione che - anche se esercitata con scarsa frequenza e continuatività - richieda un alto grado di specializzazione e rilevante profusione di impegno intellettivo e materiale; gradatamente può costituire, anche da sola, fattore di normalità la frequenza nell'espletamento di determinate funzioni, ai fini dell'inquadramento nella relativa categoria; in ultima analisi operano il criterio della comparazione qualitativa e quantitativa oraria, con prevalenza della seconda, se concorrente con la prima" (Cass. n. 12125 del 13 settembre 2000; Cass. n. 6843 del 7 aprile 2004).
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