La convocazione avanti la D.T.L. deve essere spedita nel termine di 7 giorni previsto dall’art. 7 l. n. 604/1966 e non anche ricevuta
15 Ottobre 2020
In materia di licenziamento per g.m.o., il termine di 7 giorni previsto dall'art. 7, comma 3, l. n. 604/1966, entro il quale la D.T.L. deve inviare la convocazione delle parti avanti a sé, deve intendersi come termine entro cui deve essere spedita la convocazione; mentre nel termine di venti giorni previsti dal successivo sesto comma della predetta norma deve ritenersi compreso sia il termine per la ricezione della convocazione, sia quello entro cui l'incontro deve svolgersi.
Questo il principio dettato dalla Corte di cassazione con sentenza n. 22212/20, pubblicata il 14 ottobre.
Il caso esaminato: impugnazione di licenziamento per violazione della procedura prevista dall'art. 7 l. n. 604/1966. Un'azienda, volendo procedere a licenziamento per g.m.o., attivava la procedura di conciliazione prevista dall'art. 7 l. n. 604/1966. Preso atto della mancata ricezione entro 7 giorni dalla richiesta, della convocazione avanti a sé da parte della D.T.L., procedeva con licenziamento. Che veniva impugnato dal lavoratore. Il giudice adito, nella fase sommaria, accoglieva l'impugnazione, accertando la risoluzione del rapporto di lavoro e condannando l'azienda al pagamento dell'indennità risarcitoria pari a dieci mensilità. L'azienda proponeva dapprima opposizione avanti il Tribunale, che la respingeva. Ed in seguito reclamo avanti la Corte d'Appello che parimenti lo respingeva. Avverso tale decisione l'azienda proponeva ricorso per cassazione.
La procedura prevista dall'art. 7 l. n. 604/1966. La l n. 92/2012 ha modificato l'art. 7 l. n. 604/1966, introducendo la procedura conciliativa obbligatoria e prodromica al licenziamento per giustificato motivo oggettivo che le aziende soggette alla disciplina di cui all'art. 18 l n. 300/1970 intendano intimare.
L'interpretazione della norma. Nel motivo di censura proposto, l'azienda sostiene che il verbo “trasmettere” utilizzato dal legislatore debba intendersi come “far pervenire”, con ciò dando una lettura in senso recettizio della lettera della norma. In tal modo si darebbe ragionevolezza alla norma stessa, consentendo al datore di lavoro di avere certezza che nel termine previsto la D.T.L. si sia effettivamente attivata; e, d'altro canto, poter procedere con il licenziamento ove risulti spirato senza esito il termine medesimo, come previsto dal successivo comma 6.
La Corte tuttavia non ritiene fondato il motivo proposto. Prima di tutto afferma che i criteri legislativi di interpretazione delle leggi, di cui all'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, stabiliscono la supremazia dell'interpretazione letterale della norma. E' principio costante della Corte quello secondo cui ove l'interpretazione letterale sia sufficiente ad individuare, in modo chiaro ed univoco, il significato e la portata precettiva di una norma di legge o regolamentare, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario della "mens legis", il quale solo nel caso in cui, nonostante l'impiego del criterio letterale e del criterio teleologico singolarmente considerati, la lettera della norma rimanga ambigua, acquista un ruolo paritetico e comprimario rispetto al criterio letterale, mentre può assumere rilievo prevalente nell'ipotesi, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo, invece, consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica della norma stessa.
(Fonte: Diritto e Giustizia) |