Il regime di rilevabilità dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale: riflessioni e criticità alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite

09 Novembre 2020

Le Sezioni Unite hanno pronunciato il seguente principio di diritto: l'inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell'art. 2725, comma 1, c.c., attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell'ammissione del mezzo istruttorio
Il quadro normativo

Nel nostro ordinamento la testimonianza, al pari della confessione e del giuramento, riceve una disciplina disorganica, dislocata nel codice civile, quanto ai limiti sostanziali (artt. 2721 – 2726 c.c., cui devono aggiungersi gli artt. 239 e 214 c.c. in tema di filiazione legittima, 1417 c.c. in tema di simulazione, 2735 comma 2 c.c. in tema di confessione stragiudiziale, nonché l'art. 621 c.p.c. in tema di opposizione di terzo all'esecuzione), e nel codice di rito, quanto ai limiti soggettivi di ammissibilità (artt. 246-248 c.p.c.) e alle modalità di deduzione e di assunzione (artt. 244 e 230 c.p.c.).

Ora, sotto il profilo dei limiti sostanziali, la mera lettura delle norme del codice civile rende manifesta la minore affidabilità riconosciuta dal legislatore alla prova testimoniale rispetto alla prova documentale: e ciò in ragione, da un lato, dell'ontologica inaffidabilità del mezzo istruttorio in discorso ascrivibile ai limiti umani di percezione e memoria, e, dall'altro, con specifico riguardo alla materia contrattuale, della comprensibile difficoltà ad accettare che il testimone sia chiamato a riferire al giudice non semplicemente la venuta ad esistenza di fatti storici, bensì l'incontro delle volontà dei contraenti ed il contenuto delle singole clausole negoziali.

Pertanto, pur avendo il nostro ordinamento optato per il principio della libertà della forma (cfr. art. 1325, n.4, c.c.), il legislatore ha espresso il proprio favore per la redazione di un documento contrattuale, anche laddove non sia richiesta la forma scritta ad substantiam vel ad probationem, imponendo una serie di limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale dei contratti.

Quanto, poi, ai limiti soggettivi di ammissibilità, preme osservare come la nozione di testimonianza fatta propria dal legislatore si basi indefettibilmente sulla terzietà ed estraneità del testimone rispetto agli interessi in gioco secondo il noto principio del nemo testis in causa propria, tendente a garantire l'obiettività e l'attendibilità delle dichiarazioni rese: ne consegue l'incompatibilità del ruolo di testimone con quello di parte in causa, vuoi in senso effettivo, vuoi in senso potenziale (art. 246 c.p.c.).

Si tratta dell'unico limite soggettivo attualmente vigente, posto che con riguardo alla testimonianza di coniuge, parenti e affini e all'audizione del minore infraquattordicenne l'eliminazione per effetto delle celeberrime pronunce della Consulta n. 248/1974 e n. 139/1975 dei divieti, ab origine previsti rispettivamente dagli artt. 247 e 248 c.p.c, ha indotto la giurisprudenza ad abbandonare il concetto di aprioristica incapacità a testimoniare in favore del criterio dell'attendibilità.

La ratio sottesa ai limiti di ammissibilità della prova per testi

Nonostante la malcelata diffidenza nei confronti della prova testimoniale rispetto alla prova documentale, il legislatore ha mancato di definire con chiarezza quale fosse la ratio sottesa ai limiti di ammissibilità, ossia se si debba rinvenire il loro fondamento in un principio d'ordine pubblico o in un principio posto nell'interesse delle parti.

Trattasi, a ben vedere, di una questione di grande rilevanza, specie sotto il profilo pratico, posto che l'assunzione della prova testimoniale in violazione dei predetti limiti nel primo caso integra una forma di nullità assoluta, come tale, rilevabile anche d'ufficio e nel secondo caso, all'opposto, una nullità relativa, rilevabile solo su istanza di parte.

Più precisamente, rinvenirne il fondamento in un principio posto nell'interesse delle parti vuol dire ricondurre nell'alveo della nullità relativa la violazione dei suddetti limiti, sicché la parte interessata sarà onerata non solo di eccepirne l'inammissibilità prima della sua assunzione ma anche, ove questa sia egualmente avvenuta, di eccepirne la nullità, ai sensi dell'art. 157 comma 2 c.p.c., nella prima istanza o difesa successiva all'atto, verificandosene, in difetto, la sanatoria (per tutte, Cass. civ.,sez. VI - 3, 15 febbraio 2018, n. 3763).

In altre parole, la violazione dei limiti di ammissibilità della prova per testi, ove integrante una nullità relativa, è soggetta a sanatoria qualora alla preventiva eccezione di inammissibilità non faccia seguito la successiva eccezione di nullità della deposizione (e la sua reiterazione in sede di precisazione delle conclusioni), non essendo la prima eccezione comprensiva della seconda, posto che l'eccezione di inammissibilità è volta ad impedire il compimento dell'atto processuale (assunzione della prova), mentre «la eccezione in senso stretto del vizio di nullità dell'atto processuale compiuto è diretta ad espungere dal materiale istruttorio, altrimenti valutabile dal Giudice, quella che - dopo la verifica istruttoria - si qualifica, a tutti gli effetti, come prova orale in senso tecnico ossia come mezzo di rappresentazione di fatti (…). La introduzione nella realtà processuale di un fatto prima indimostrato, comporta pertanto la necessità della tempestiva formulazione di una nuova specifica eccezione di nullità ove si intenda eliminare la prova ed il fatto da essa dimostrato, in difetto dovendo ritenersi comunque sanato ex art. 157 comma 2 c.p.c. l'eventuale vizio di nullità» (in termini, Cass. civ.,sez. VI 3,ord., 12 marzo 2019, n. 7095).

Nonostante l'evidenziata problematicità teorico-dogmatica e pratica sottesa all'individuazione della ratio dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale, il legislatore non vi ha fatto minimamente accenno.

Nella Relazione illustrativa del Ministro Guardasigilli al Codice Civile del 4 aprile 1942 al capo n. 1114 viene posto l'accento unicamente sulle notevoli difficoltà incontrate nel dettare un regime unico dei limiti di ammissibilità della prova per testi, a cospetto della diversità della pregressa disciplina contemplata per la materia civile nel codice civile del 1865 e per la materia commerciale nel codice di commercio del 1882, non mancando di evidenziarsi quanto sia «delicato il problema di contemperare in un regime generale quelle legittime diffidenze che ha sempre suscitato e suscita in materia contrattuale questo mezzo di prova con la necessità di non offendere d'altro canto le esigenze della buona fede, in quei casi in cui, anche fuori delle ipotesi dell'art. 2724 del c.c., usi, necessità tecniche, condizioni di ambiente, relazioni personali tra contraenti od altre circostanze anche meramente contingenti possano spiegare o giustificare perché le parti non abbiano provveduto a procurarsi un documento scritto».

Parimenti nella Relazione illustrativa del Ministro Guardasigilli al Codice di Procedura Civile del 28 ottobre 1940, una volta sottolineate le numerose semplificazioni introdotte nei singoli procedimenti probatori, prima tra tutte, quella relativa a termini e decadenze nel procedimento di assunzione della prova testimoniale, nulla si rinviene sul regime di rilevabilità, d'ufficio o ad istanza di parte, dei limiti sostanziali e soggettivi di ammissibilità della prova testimoniale succitati (capo 29).

Il tradizionale orientamento giurisprudenziale sul regime di rilevabilità dei predetti limiti e la recente evoluzione

È toccato alla giurisprudenza colmare il silenzio legislativo sul punto, precisando che in linea generale la ratio dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale, oggettivi e soggettivi, deve rinvenirsi non già in un principio d'ordine pubblico, bensì posto nell'interesse delle parti, con l'inevitabile corollario che l'inammissibilità della prova testimoniale non può essere rilevata d'ufficio, ma è eccepibile esclusivamente dalle parti (che non vi abbiano concorso o rinunziato) in sede di ammissione della prova, ovvero nella prima istanza o difesa successiva o, quanto meno, in sede di espletamento della stessa.

Ora, deve osservarsi che con riguardo ai limiti soggettivi di ammissibilità della prova testimoniale si è formato un orientamento giurisprudenziale granitico, secondo cui «la nullità di una testimonianza resa da persona incapace ai sensi dell'art. 246 c.p.c., essendo posta a tutela dell'interesse delle parti, è configurabile come una nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l'espletamento della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157 comma 2 c.p.c.; qualora detta eccezione venga respinta, la parte interessata ha l'onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi la medesima, in caso contrario, ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità stessa per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo» (per tutte, Cass. civ., Sez. Un., 23 settembre 2013 n. 21670).

Parimenti è principio costantemente affermato che gli artt. 2721, 2722, 2723, 2726 e 1417 c.c. siano disposizioni poste nell'interesse delle parti, sicché anche per i limiti oggettivi di ammissibilità relativi al valore del contratto, ai patti aggiunti, al pagamento ed alla remissione ed alla simulazione, l'opzione ermeneutica unanimemente condivisa nega la rilevabilità d'ufficio della violazione del divieto in favore della derogabilità ad opera delle parti (Cass. civ.,sez. II, sent., 19 settembre 2013, n. 21443, Cass. civ.,sez. II, 28 aprile 2006, n. 9925, Cass. civ.,sez. III, 17 ottobre 2003, n. 15554, e Cass. civ., Sez. Un., 13 gennaio 1997, n. 264).

Il riferito orientamento della giurisprudenza conosce tradizionalmente un'unica deroga con riguardo alla violazione del divieto di prova testimoniale per i contratti aventi forma scritta ex art. 2725 c.c.

La disposizione da ultimo richiamata, come noto, vieta il ricorso alla prova per testi per i contratti per cui sia richiesta la forma scritta ad substantiam e ad probationem, con l'eccezione della perdita incolpevole del documento ex art. 2724 n. 3 c.c.

Ebbene, la giurisprudenza maggioritaria, pur affermando che ambedue le ipotesi contrattuali a forma vincolata soggiacciono al suddetto divieto, opera un distinguo circa il regime di rilevabilità della violazione dei limiti di ammissibilità, a seconda che si tratti di provare un contratto per il quale la forma scritta è richiesta ad substantiam o ad probationem.

Si afferma, infatti, che mentre in materia di atti e contratti per i quali la forma scritta sia richiesta a pena di nullità, il divieto di provare per testi l'esistenza del negozio è stabilito a tutela dell'ordine pubblico, con conseguente rilevabilità anche d'ufficio della sua inammissibilità, per quanto concerne, all'opposto, gli atti e i contratti per i quali la forma scritta sia richiesta quale prova del negozio, l'inammissibilità della prova testimoniale, in quanto attinente alla tutela di interessi privati, è eccepibile soltanto dalla parte interessata (cfr., Cass. civ.,sez. I sent., 25 giugno 2014, n. 14470; Cass. civ.,sez. III,sent., 21 marzo 2013, n. 7122; Cass. civ., sez. III, 30 marzo 2010, n. 7765; Cass. civ., sez. I, 20 febbraio 2004, n. 3392; Cass. civ.,sez. III, 17 ottobre 2003, n. 15554; Cass. civ.,sez. II, 8 gennaio 2002, n. 144; Cass. civ.,sez. I, 19 gennaio 2000, n. 551; Cass. civ.,sez. III, 12 maggio 1999, n. 4690; Cass. civ.,sez. III, 29 aprile 1999, n. 4334; Cass. civ., Sez. lavoro, 1ottobre 1991, n. 10206; Cass. civ., sez. III, 17 novembre 1982, n. 6172).

Va, ad ogni modo, rilevato come recentemente si sia affermato un indirizzo contrapposto (si allude a Cass. civ.,sez. III, 14 agosto 2014, n. 17986; Cass. civ., Sez. Lav., 28 gennaio 2013, n. 1824), che, muovendo dall'unitarietà della disciplina risultante dagli artt. 2725 e 2729 c.c., esclude l'esistenza di un diverso regime processuale in ordine al rilievo dell'inammissibilità della prova testimoniale con riferimento ai contratti per i quali la forma scritta sia richiesta ad substantiam vel ad probationem.

Questa seconda ricostruzione ermeneutica, rispolverando una posizione giurisprudenziale isolata (vd., Cass. civ., Sez. Lav., 6 maggio 1996 n. 4167; Cass. civ., Sez. Lav., 9 ottobre 1996, n. 8838), postula che, quando per legge o per volontà delle parti, sia prevista per un certo contratto la forma scritta ad probationem, la prova testimoniale che abbia ad oggetto, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza del contratto è inammissibile, salvo che non sia volta a dimostrare la perdita incolpevole del documento, così come è inammissibile la connessa prova per presunzioni, con l'ulteriore e decisivo corollario che l'inammissibilità della prova testimoniale per contrasto con le norme che la vietano (artt. 2722 e 2725 c.c.) non è sanata dalla mancata tempestiva opposizione della parte interessata perché la sanatoria per acquiescenza riguarda soltanto le decadenze e le nullità previste per la prova testimoniale dall'art. 244 c.p.c. (modalità di deduzione e assunzione della prova, indicazione dei testimoni e loro capacità a testimoniare), non anche la prova testimoniale erroneamente ammessa, di talché la relativa eccezione può essere utilmente formulata anche dopo l'espletamento della prova vietata.

A sostegno della unitarietà del regime di rilevabilità dell'inosservanza dei limiti posti alla prova testimoniale dei contratti per cui è richiesta la forma scritta, sia a pena di nullità sia ai fini della prova, si valorizza il tenore letterale della disposizione di cui all'art. 2725 c.c., sconfessando il tradizionale ricorso a considerazioni metagiuridiche relative alla natura degli interessi coinvolti.

È in questo contesto che si pone l'ordinanza n. 30244 del 20 novembre 2019 (ud. 06 maggio 2019), con cui la Seconda sezione della Cassazione, dovendo decidere se la Corte d'appello di Lecce - sezione distaccata di Taranto - avesse correttamente o meno dichiarato, ritenendola questione rilevabile d'ufficio, l'inammissibilità della prova testimoniale assunta in primo grado con riguardo all'esistenza di una transazione (annoverabile tra gli atti e i contratti per i quali la forma scritta sia richiesta soltanto ad probationem), ha ravvisato «un vero e proprio contrasto di giurisprudenza, che pone problemi di non poco conto che si intrecciano con i diversi argomenti posti a fondamento della soluzione negativa all'ammissibilità della prova per testi ed al regime di efficacia probatoria ad essa collegato, soprattutto quanto alla esistenza o meno di un diverso regime da ricondurre alla previsione legislativa di una forma scritta "ad substantiam" rispetto a quella "ad probationem"» e, perciò, disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

La soluzione delle Sezioni Unite

Le Sezioni unite, con la sentenza n. 16723 del 5 agosto 2020, hanno risolto il prospettato contrasto, aderendo alla posizione maggioritaria.

Dopo aver premesso che gli opposti orientamenti giurisprudenziali formatisi in seno alla sezioni semplici non divergono in merito alla sanzione comminata per la violazione del divieto di provare per testi un contratto per cui sia richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem (sul punto l'interpretazione dell'art. 2725 c.c. è pacifica nel senso dell'inammissibilità), bensì al regime di rilevabilità dell'inosservanza di tale limite, il Plenum ha pronunciato il seguente principio di diritto: «l'inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell'art. 2725, comma 1, c.c., attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell'ammissione del mezzo istruttorio; qualora, nonostante l'eccezione d'inammissibilità, la prova sia stata egualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall'art. 157, comma 2, c.p.c., rimanendo altrimenti la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione».

Nell'esaminare gli argomenti invocati dal secondo e minoritario orientamento, i giudici di legittimità hanno escluso che la collocazione in un unico articolo delle norme limitative del ricorso alla testimonianza sia per gli atti per i quali è richiesta la prova per iscritto, sia per quelli per i quali la forma scritta è richiesta a pena di nullità, sia sufficiente a giustificare la riduzione ad unità del regime di rilevabilità dell'eventuale violazione del divieto posto e hanno ritenuto parimenti ininfluente il richiamo alla previsione, per ambedue le fattispecie, di un'unica deroga ex art. 2724 n. 3 c.c., posto che l'ammissibilità del ricorso alla prova testimoniale in caso di smarrimento incolpevole del documento è eccezione generale, prevista dalla citata norma con riferimento a tutti i limiti di ammissibilità della prova testimoniale, sicché ne hanno concluso che la stessa non avvalora né infirma la pretesa soggezione ad un identico regime.

Per contro, la Suprema Corte ha ulteriormente valorizzato le ontologiche differenze che l'elemento formale riveste nell'uno e nell'altro caso, puntualizzando come nei contratti aventi forma scritta ad substantiam l'elemento formale sia richiesto per l'esistenza e la validità dell'atto ed anche per la sua prova, sicché la carenza della scrittura, generando la nullità del negozio, non può non essere rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo.

Diversamente, ove la forma scritta sia richiesta ai soli fini della prova, l'esistenza e la validità dell'atto non sono inficiate dalla mancanza dello scritto, venendo questa in rilievo se e solo se le parti si contrappongono in un giudizio, nel corso del quale nulla vieta che i litiganti ne offrano prova mediante confessione o giuramento.

Così argomentando, il Plenum ha ritenuto che il limite posto dall'art. 2725 comma 1 c.c. con riguardo a atti e contratti a forma scritta ad probationem, non attenendo l'elemento formale agli effetti sostanziali dell'atto, sia dettato nell'interesse esclusivo dei litiganti in maniera del tutto analoga a quanto avviene per i limiti di cui agli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c., facendo discendere dalla natura dispositiva delle norme appena citate la loro derogabilità ad opera delle parti.

Le Sezioni Unite non hanno, poi, mancato di rilevare che, avendo l'onere della forma scritta ad probationem natura disponibile, deve ritenersi operante il principio di non contestazione, indi per cui in presenza di non contestazione della stipula e del contenuto di un contratto scritto ad probationem, la prova scritta, pur non potendo dirsi surrogata, diviene superflua.

La soluzione propugnata viene, inoltre, corroborata dal raffronto con le norme che prevedono preclusioni assertive ed istruttorie nel giudizio di cognizione, volte evidentemente a garantire l'ordine pubblico processuale, indi per cui la loro violazione è rilevabile d'ufficio.

Svolte queste premesse, i giudici di legittimità ne hanno tratto, quale conclusione, la piena condivisibilità della tradizionale impostazione che riconduce la violazione dei limiti di ammissibilità delle prove, siccome posta a tutela di interessi privati, nell'alveo della nullità relativa, di talché l'inammissibilità della prova testimoniale, con la sola eccezione degli atti e contratti a forma scritta ad substantiam, non può essere rilevata d'ufficio, ma è eccepibile esclusivamente dalle parti (che non vi abbiano concorso o rinunziato) in sede di ammissione della prova, ovvero nella prima istanza o difesa successiva e rimane sanata se la parte interessata non eccepisce la nullità della prova comunque assunta e qualora detta eccezione venga respinta, se la parte interessata non la ripropone in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione.

Riflessioni ed aspetti critici

Il Plenum, a modesto parere dello scrivente, risolve il contrasto in tema di regime di rilevabilità dell'inosservanza dei divieti inerenti all'ammissibilità della prova testimoniale, sposando tralatiziamente l'orientamento tradizionale, che adottato una ricostruzione unitaria del regime di rilevabilità delle inosservanze dei divieti inerenti all'ammissibilità della prova testimoniale, cui si sottrae unicamente l'ipotesi dei contratti per cui è richiesta la forma scritta ad substantiam, riconducendo nel solco di tale impianto unitario finanche la fattispecie delle nullità e delle decadenze attinenti alle modalità di deduzione della prova testimoniale di cui all'art. 244 c.p.c. (cfr., per tutte, Cass. civ.,sez. III, 2 agosto 2000, n. 10114), considerandosi poste a tutela di interessi generali unicamente le norme del processo civile che prevedono preclusioni assertive ed istruttorie, con conseguente rilevabilità d'ufficio della loro violazione, anche in presenza di acquiescenza della parte interessata (da ultimo, Cass. civ.,sez. III,ord., 26 giugno 2018, n. 16800).

Ebbene, la condivisibilità a grandi linee dell'approdo in un sistema interamente improntato al principio dispositivo non fa venir meno alcune riflessioni e criticità.

Le aperture giurisprudenziali che hanno condotto alla libertà di prova testimoniale, attraverso l'affievolimento, in nome della massima valorizzazione del principio di disponibilità delle prove rinveniente il proprio addentellato normativo nell'art. 115 c.p.c., dell'impianto dei limiti oggettivi, finiscono, tuttavia, col frustrare le diffidenze tradizionalmente suscitate, specie in materia contrattuale, dalla prova testimoniale, che nelle succitate limitazioni all'ammissibilità rinvenivano il loro baluardo.

Né può sottacersi, pur nella consapevolezza che adducere inconveniens non est solvere argumentum, che la ricostruzione unitaria, propugnata dal Plenum, conduce in caso di processo contumaciale alla paradossale situazione, per cui il Giudice debba ammettere qualsivoglia prova testimoniale pur dedotta in aperta violazione dei limiti sostanziali e soggettivi previsti dalla legge, con buona pace della postulata neutralità della contumacia.

Ed alla medesima conclusione deve pervenirsi con riguardo al processo con collusione di parti in danno di terzi.

Non sfugge, tuttavia, che, sebbene manchi nella pronuncia delle Sezioni Unite qualsiasi riferimento ad eventuali distorsioni o abusi connessi alla massima valorizzazione del principio dispositivo in tema di violazione dei limiti sostanziali di ammissibilità della prova testimoniale, la Suprema Corte abbia precisato che il delineato quadro non interferisce col potere giudiziale di revoca delle ordinanze istruttorie (art. 177 c.p.c.), né col potere di controllo del collegio sulle ordinanze (art. 178 c.p.c.) e di certo non limita il potere del Giudice di valutare la prova testimoniale raccolta in violazione dei limiti sostanziali di ammissibilità secondo il suo prudente apprezzamento.

Come è evidente, si è in presenza di una soluzione non esente da rilievi critici, anche e soprattutto considerato che non tiene in debita considerazione che in fase di ammissione della prova l'art. 183 comma 7 c.p.c. impone al Giudice di effettuare il giudizio di ammissibilità e rilevanza delle prove, verificando d'ufficio la sussistenza di tutti i parametri normativi, di ordine processuale e sostanziale, senza riferimento alcuno alla eccepibilità solo su istanza di parte dell'inammissibilità del mezzo probatorio richiesto.

Riferimenti
  • AA.VV., Codice di procedura civile commentato (a cura P. Cendon), Milano, 2012;
  • AA.VV., Commentario breve al Codice civile (a cura G. Cian e A. Trabucchi), Padova, 2011;
  • Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010;
  • Taruffo, Prova testimoniale, in Enc. Dir., XXXVII, Milano, 1988.

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