Estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni: il giudice della nomofilachia traccia il sentiero ma il passo dell'interprete rimane incerto

18 Novembre 2020

Se i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione siano differenziabili sotto il profilo dell'elemento materiale ovvero dell'elemento...
Massima

Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo.

Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all'elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie.

Il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui il terzo si limiti ad offrire un contributo alla pretesa di chi abusa delle proprie ragioni senza perseguire alcuna diversa e ulteriore finalità.

Il caso

La pronuncia in commento origina dalla condanna pronunciata nei confronti degli imputati per il reato di tentata estorsione aggravata dall'uso del metodo mafioso, in relazione al fatto che dopo essersi presentati come calabresi di Rosarno, avevano poi minacciato le persone offese al fine di ottenere l'immediato adempimento di una obbligazione, senza attendere l'esito della causa civile pendente (con la minaccia che ove non avessero ottemperato qualcuno si sarebbe fatto male).

Avverso la decisione hanno proposto ricorso gli imputati sia in ordine alla identificazione dell'apporto concorsuale fornito da uno dei soggetti che si sarebbe limitato a rimanere silente, sia relativamente alla qualificazione giuridica del fatto, che si voleva fosse inquadrato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

La Corte di Cassazione – sul rilievo della rilevanza della questione relativa all'inquadramento della condotta contestata nella fattispecie prevista dall'art. 629 c.p. piuttosto che in quella prevista dall'art. 393 c.p. – hanno rimesso alla valutazione delle Sezioni Unite le questioni: se i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione siano differenziabili sotto il profilo dell'elemento materiale ovvero dell'elemento psicologico; ed in tal caso se sia sufficiente accertare, ai fini della sussumibilità nell'uno o nell'altro reato, che la condotta sia caratterizzata da una particolare violenza o minaccia, ovvero se occorra accertare quale sia lo scopo perseguito dall'agente”; “se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, debba essere qualificato come reato comune o di "mano propria" e, quindi, se e in che termini sia ammissibile il concorso del terzo non titolare delta pretesa giuridicamente tutelabile (Cass., 16 dicembre 2019, n. 50696 v. Esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione: alla ricerca degli elementi differenziali).

La questione

Le questioni in esame sono le seguenti: se i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione siano differenziabili sotto il profilo dell'elemento materiale ovvero dell'elemento psicologico; e in tal caso se sia sufficiente accertare, ai fini della sussumibilità nell'uno o nell'altro reato, che la condotta sia caratterizzata da una particolare violenza o minaccia, ovvero se occorra accertare quale sia lo scopo perseguito dall'agente; se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, debba essere qualificato come reato comune o di "mano propria" e, quindi, se e in che termini sia ammissibile il concorso del terzo non titolare delta pretesa giuridicamente tutelabile.

Le soluzioni giuridiche

Con la pronuncia in commento, il giudice della nomofilachia ha cercato di risolvere le incertezze e oscillazioni della giurisprudenza, da anni affannata nella individuazione di una netta e precisa linea di demarcazione tra il reato di cui all'art. 393 e quello di cui all'art. 628 c.p.

Si tratta di un confine scivoloso legato all'accertamento di merito del fatto contestato e dei rapporti tra le parti, nozione sfuggente alla pretesa dell'interprete di irreggimentare in una definizione concettuale e astratta la realtà fenomenica di un fatto umano.

Il confronto strutturale tra le fattispecie criminose, invero, consente di evidenziare che, nonostante l'identità sotto il profilo della condotta violenta o minacciosa, sul piano dell'elemento materiale i due reati sono chiaramente distinti tra loro, senza lasciare adito a sovrapposizioni: in un caso, infatti, la violenza o la minaccia sono i mezzi mediante i quali l'agente – il quale agisce “al fine di esercitare un preteso diritto” e “potendo ricorrere al giudice” – si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, nell'altro esse sono usate per costringere la persona offesa a fare o a omettere qualche cosa, da cui derivano un ingiusto profitto (per l'agente o altri) con altrui danno.

Le maggiori difficoltà ermeneutiche sembrano connesse all'uso nel delitto di cui all'art. 393 c.p. dell'espressione “farsi giustizia da sé medesimo”, che appare in grado di ricomprendere tanto i casi in cui la violenza o minaccia contro la persona siano utilizzate per consentire all'agente di conseguire autonomamente lo scopo prefissato, quanto i casi in cui tali mezzi siano utilizzati per ottenere la cooperazione del soggetto passivo, ossia per costringerlo a porre in essere un atto di disposizione patrimoniale.

In ogni caso, il reato è integrato dalla soddisfazione coattiva di un proprio preteso diritto che sia potenzialmente tutelabile in via giudiziaria: situazione che appare radicalmente incompatibile con quella contemplata dal delitto di estorsione, che, al contrario, richiede che l'agente consegua un profitto ingiusto, ossia indebito perché fondato su una pretesa non riconosciuta dal diritto.

Piuttosto che di concorso apparente di norme, allora, ci sembra opportuno parlare di due fattispecie di reato strutturalmente autonome l'una dall'altra e tra di loro incompatibili.

Un primo versante di legittimità individua la differenza tra le due fattispecie nell'elemento oggettivo del reato, avuto riguardo al livello di gravità della violenza o della minaccia esercitate: in presenza di una gravità particolarmente elevata, infatti, la condotta violenta o minacciosa – anche se diretta a far valere una pretesa giuridicamente tutelata – dovrebbe univocamente essere inquadrata nel delitto di estorsione.

Più precisamente, secondo tale filone interpretativo nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta violenta o minacciosa deve essere strettamente connessa alla finalità dell'agente di far valere il proprio preteso diritto, sicché ogni manifestazione intimidatoria sproporzionata o gratuita che appaia eccedere tale intento si tradurrebbe automaticamente in una coartazione dell'altrui volontà finalizzata a conseguire un profitto ingiusto, rilevante ex art. 629 c.p.

La pretesa, cioè, qualora fatta valere mediante violenza o minaccia di ingiustificata gravità, si tramuterebbe necessariamente in “ingiusta”, anche laddove correlata a un diritto tutelabile in via giudiziaria (Cass. pen., 25 marzo 2020, n. 10647; Cass.pen., 2 agosto 2019, n. 35563; Cass.pen., 14 dicembre 2018, n. 56400; Cass. pen., 4 marzo 2004, n. 10336).

In seno a tale orientamento, si segnalano quelle pronunce che valorizzano quale discrimen tra le fattispecie in questione non tanto l'intensità della violenza o della minaccia utilizzate, quanto piuttosto l'efficacia costrittiva della condotta (Cass. pen., 10 dicembre 2018, n. 55137; Cass. pen., 31 luglio 2018, n. 36928).

Al riguardo si evidenzia che sotto il profilo della condotta gli artt. 393 e 629 c.p. non presentano differenze e che, anzi, lo stesso delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sembrerebbe ammettere che l'intimidazione possa raggiungere anche livelli elevati di gravità, prevedendo una specifica fattispecie aggravante (ex art. 393 comma 3 c.p.) per il caso in cui la condotta sia posta in essere mediante armi.

L'elemento differenziale risiederebbe, allora, nell'evento del reato, che nel caso del delitto di esercizio arbitrario consiste nella soddisfazione di una pretesa legittima (il “farsi ragione da sé”), mentre nel delitto di estorsione è integrato dalla costrizione della vittima a fare od omettere qualcosa da cui l'agente ricava un ingiusto profitto con altrui danno; a tale distinzione corrisponde, tra l'altro, una diversa identificazione del bene giuridico protetto dalle norme incriminatrici in questione: mentre il delitto di cui all'art. 393 c.p. – incluso nel capo del Titolo XIII dedicato ai delitti contro l'amministrazione della giustizia – tutela il monopolio statale nella risoluzione delle controversie, il delitto di estorsione tutela direttamente l'individuo, in relazione alla libertà di disporre del proprio patrimonio in assenza di coartazione altrui.

Al contrario, altra giurisprudenza di legittimità esalta – sotto il profilo differenziale - l'elemento soggettivo.

A prescindere dalla gravità della violenza o della minaccia esercitate, cioè, l'elemento differenziale tra i delitti di cui agli artt. 393 e 629 c.p. risiederebbe nell'atteggiamento psicologico dell'agente, potendo sussistere il delitto di estorsione esclusivamente laddove questi abbia di mira l'attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all'autorità giudiziaria (Cass. pen., 13 febbraio 2018, n. 69689; Cass. pen., 19 dicembre 2013, n. 51433).

In questo senso, l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni sarebbe caratterizzato non dalla volontà di realizzare un profitto ingiusto, bensì dal fine di esercitare un (…) preteso diritto nella ragionevole opinione, anche errata, della sua sussistenza, pur se contestata o contestabile (Cass.pen. 19 dicembre 2013, n. 51433).

Pertanto, secondo tale filone interpretativo a fronte dunque della volontà di realizzare, pur con mezzi illegittimi, una pretesa legittima il delitto di estorsione non sarebbe mai configurabile, potendosi al più rintracciare – laddove la violenza o la minaccia siano particolarmente gravi – il concorso tra il delitto di cui all'art. 393 c.p. e altri reati contro la persona (lesioni, omicidio, sequestro di persona).

Questo il complesso quadro giurisprudenziale nel quale si inserisce la questione della necessità di individuare gli elementi differenziali tra il delitto di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Altra questione demandata alle sezioni unite è quella relativa alla configurabilità del concorso dell'extraneus nel delitto di cui all'art. 393 c.p.

La prevalente giurisprudenza di legittimità include il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni tra i cc.dd. reati propri esclusivi o di mano propria, che si caratterizzano per il fatto che la condotta tipica debba essere compiuta necessariamente dal soggetto qualificato, in questo caso dal titolare della pretesa giudizialmente tutelabile (Cass.pen., 31 luglio 2018, n. 36928; Cass.pen., 10 dicembre 2018, n. 55137; Cass. pen., 2 febbraio 2018, n. 5090; Cass.pen., 3 novembre 2016, n. 46288).

Di conseguenza, ogniqualvolta la condotta di violenza o minaccia sia attuata da un soggetto terzo, benché su mandato del titolare del diritto, dovrebbe trovare applicazione il delitto di estorsione: autore del fatto tipico di cui all'art. 393 c.p., infatti, potrebbe essere solo il soggetto qualificato, mentre il terzo potrebbe concorrere unicamente mediante condotte atipiche ex art. 110 c.p.

Questa posizione è ritenuta coerente con l'indirizzo che attribuisce rilevanza dirimente all'oggetto materiale del reato, in quanto si è affermato che quando il mandato alla riscossione del credito sia conferito a terzi estranei dotati di una più spiccata capacità di intimidazione (specialmente se appartenenti a organismi criminali) l'azione violenta appare di per sé idonea a produrre l'effetto costrittivo tipico dell'estorsione.

Parte della giurisprudenza, aderendo al contrario indirizzo che fa leva sulla differente caratterizzazione dell'elemento soggettivo, ritiene invece che nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo estraneo al diritto giudizialmente tutelabile vada accertato se costui sia o meno portatore di un interesse proprio autonomo rispetto all'interesse del mandante: qualora ciò avvenga, infatti, il fatto sarebbe sicuramente qualificabile in termini di estorsione, non potendo sussistere dubbi in ordine all'esistenza in capo all'autore del reato della volontà di realizzare un ingiusto profitto.

Solo laddove il terzo agisca nell'interesse esclusivo del mandante, allora, potrebbe riscontrarsi il delitto di cui all'art. 393 c.p. (Cass.pen., 4 ottobre 2016, n. 41433; Cass.pen., 18 marzo 2016, n. 11453; Cass.pen., 16 maggio 1997, n. 4681).

Osservazioni

Le Sezioni Unite valorizzano l'elemento soggettivo quale fondamentale elemento di distinzione tra le fattispecie previste rispettivamente dall'art. 629 e 392 c.p.

A sostegno di quest'interpretazione è richiamato l'art. 393, comma 3, c.p., che ammette la configurabilità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni anche nel caso in cui la violenza o la minaccia siano poste in essere con armi, comminando in tal caso un aumento di pena.

Appare evidente che attribuire rilevanza alla gravità della violenza o della minaccia in sede di ricostruzione delle fattispecie in questione si porrebbe inevitabilmente in contrasto con il principio di legalità di cui all'art. 25 comma 2 Cost., poiché affiderebbe al giudice il compito di individuare la soglia di gravità oltre alla quale la condotta volta a realizzare una pretesa legittima andrebbe comunque qualificata come estorsiva, in assenza di criteri legali certi per compiere una simile operazione.

Tuttavia, ciò che è respinto – ovvero attribuire rilevanza differenziale all'elemento materiale, ossia alla condotta di violenza o minaccia, rintracciando il fatto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni nella necessità che la pretesa coercitivamente attuata dall'agente corrisponda perfettamente all'oggetto della tutela apprestata dall'ordinamento giuridico ai suoi legittimi interessi e non sia eccedente rispetto a questa, è fatto rientrare attraverso l'accertamento probatorio: una particolare gravità della condotta violenta o minacciosa, pertanto, apparirebbe sintomatica della volontà di eccedere la legittima pretesa e di realizzare, con ciò, un ingiusto profitto.

Una simile condotta, quindi, sarebbe di per sé indicativa del dolo di estorsione: essa, infatti, permetterebbe di evincere l'esistenza in capo all'agente di una volontà costrittiva, di sopraffazione, piuttosto che della mera volontà di soddisfare la propria pretesa legittima.

Seguendo tale orizzonte interpretativo, quindi, laddove si sia in presenza di manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza deve automaticamente ritenersi che la coartazione dell'altrui volontà sia finalizzata a conseguire un profitto in sé ingiusto, così configurandosi il più grave delitto di estorsione in luogo di quello di cui all'art. 393 c.p.

L'individuazione del discrimen nell'atteggiamento psicologico dell'agente non sembra pienamente soddisfacente.

Infatti, tale soluzione che individua il criterio distintivo tra le fattispecie incriminatrici de quibus nell'elemento soggettivo comporta la problematica delle modalità di accertamento e prova dell'intenzione dell'autore del reato, e cioè delle ragioni poste alla base della decisione nel foro interno del reo.

L'intenzione dell'autore della condotta (quella di esercitare un suo preteso diritto, che potrà essere anche infondato nel merito, ma che deve essere esistente in base ad una sua ragionevole e fondata convinzione, anche se errata, oppure quella di agire per conseguire un profitto ingiusto nella consapevolezza che quanto richiesto non è dovuto) viene, allora, fatta derivare – ancora una volta – dalla gravità della violenza o della minaccia esercitata, come indicatore del dolo.

Ancorare l'elemento differenziale tra le due fattispecie al solo elemento soggettivo, tuttavia, rende il confine tra i reati in questione ancora più sottile di quanto sia in realtà, rischiando peraltro di ingenerare ulteriori equivoci: attribuire rilevanza alla gravità della violenza o della minaccia usate dall'agente in punto di prova del dolo di estorsione, finisce per ancorare – contra legem – l'ingiustizia del profitto alla sola particolare gravità della condotta.

Del resto, la stesse sezioni unite prestano il fianco a tale obiezione nel passaggio motivazionale in cui specificano che le forme esteriori della condotta, e quindi la gravità della violenza e l'intensità veicolata con la minaccia, non sono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ai sensi dell'art. 393 c.p.

Da quanto precede quindi – al di là della affermazione di principio della individuazione dell'elemento differenziale nei profili psicologici del fatto tipico – la distinzione è ancorata alla maggiore o minore incisività della forza intimidatoria esercitata, significativa nel primo caso della volontà di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante dalla tutela dell'asserito diritto vantato dall'agente.

Al contrario, prima ancora che sul piano dell'elemento soggettivo, la differenza tra i due delitti vada apprezzata sul piano dell'elemento oggettivo, alla luce del ben distinto contenuto della pretesa esercitata dall'agente, che solo nel delitto di estorsione determina l'ottenimento di un ingiusto profitto.

Tratto caratterizzante del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni rispetto al delitto di estorsione, allora, non sarebbe altro che l'utilizzo della violenza o della minaccia quale mezzo di soddisfazione coattiva di una pretesa comunque tutelabile in via giudiziale (pretesa la cui fondatezza non deve essere accertata in sede penale, salvo i casi in cui questa appaia manifestamente infondata o irragionevole); di converso, sussisterà il delitto di cui all'art. 629 c.p. allorché la pretesa attuata coercitivamente sia priva di ogni tutela sul piano del diritto e, pertanto, il profitto che ne derivi all'agente o a terzi debba dirsi ingiusto.

Del resto, il concreto ed effettivo ancoraggio della distinzione tra il delitto di estorsione e quello di esercizio arbitrario della proprie ragioni non già all'elemento soggettivo – per come proclamato – ma alla maggiore o minore vis esercitata nei confronti del soggetto passivo si coglie in quel passaggio motivazionale ove si precisa che l'imputato non avrebbe avuto la possibilità di agire giudizialmente, con ragionevoli probabilità di successo, per ottenere dalle pp.oo. l'adempimento della pattuita controprestazione, per essere lo stesso inadempiente all'obbligo contrattualmente assunto di cedere in permuta un fondo libero da vincoli, sul quale al contrario terzi vantavano diritti reali di varia natura.

Tale conclusione cozza con l'oggettività giuridica del reato di cui all'art. 393 c.p. che tutela le situazioni aventi apparenza di legalità, sicché il delitto si concreta con la realizzazione di una pretesa di diritto mediante la sostituzione della privata violenza alla coazione del provvedimento giudiziale.

Il reato in questione, infatti, si integra con l'indebita attribuzione a sé stesso, da parte del privato, di poteri spettanti all'Autorità Giudiziaria e l'agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli competa effettivamente e giuridicamente, anche se infondata.

Orbene, in precedenza le stesse sezioni unite avevano evidenziato che nel delitto ex art. 393 c.p. l'agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente: pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale.

Per la sussistenza del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni non è, infatti, necessario che il diritto oggetto dell'illegittima tutela privata sia realmente esistente, ma occorre pur sempre che l'autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua (pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale e, nel caso di specie esisteva tra l'imputato e le pp.oo. un contratto di permuta per effetto del quale il primo avrebbe dovuto cedere un suolo edificatorio, ricevendo in cambio alcune villette, di modo che l'eventuale violazione da parte dell'imputato dell'obbligo di alienare il fondo libero da pesi e vincoli, non preclude la possibilità potesse agire per veder tutelata la propria posizione.

È noto che il profitto ha carattere di ingiustizia in primo luogo nel caso in cui non sia contrassegnato dal potere di farlo valere in giudizio; ed in secondo luogo nel caso in cui non sussista alcuna possibilità, giuridicamente tutelata, di opporsi alla pretesa della controparte di trattenere ciò che è stato a lei spontaneamente corrisposto, ingiustizia non ricorribile nel caso di specie, tenuto conto delle inadempienze reciproche.

Si tratta di una interpretazione che, in tutta evidenza, pur facendo finta di ripudiare l'approccio oggettivista per abbracciare il finalismo, si riavvita su se stessa e ritorna al concetto (prima abbandonato e che, come si è visto sopra, non è positivizzato e non potrebbe dunque fungere da idoneo criterio distintivo tra le fattispecie, implicando anche peraltro dei grandi margini di valutazione ed apprezzamento di natura discrezionale) della gravità della violenza o minaccia esercitata, per la evidente necessità di legare l'accertamento dell'elemento soggettivo alle circostanze e modalità oggettive della condotta per ricavarne quelle che processualmente debbono essere, necessariamente, delle certezze.

Sicché alla stregua del percorso motivazionale seguito dalle sezioni unite può concludersi nel senso che la linea di confine tra esercizio arbitrario ed estorsione passa esattamente dal ruolo svolto dalla norma incriminatrice dell'esercizio arbitrario; ed in particolare dal concetto di giusto profitto che ne contrassegna la ragione d'essere.

In altri termini lo schema del ragionamento sembra essere il seguente: se la pretesa mira a realizzare un profitto corrispondente ad una pretesa munita di tutela giudiziaria, ricorre il reato di esercizio arbitrario; se la pretesa concerne un profitto non munito di azione giudiziaria, si sconfina nel campo della estorsione ove il profitto venga conseguito con violenza e minaccia; ricorre ugualmente la estorsione se la pretesa, in sé munita di tutela giudiziaria, venga realizzata per il tramite di comportamenti di minaccia o violenza “sproporzionati” rispetto alla fisionomia ed entità della pretesa.

Da ultimo, le Sezioni Unite hanno chiarito i termini di ammissibilità del concorso del terzo extraneus nel delitto di cui all'art. 393 c.p.

Al riguardo, il giudice nomofilattico ha stabilito che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è un reato proprio escludendo la riconducibilità nella categoria del reato proprio di mano propria: categoria (di origine tedesca) che ricomprenderebbe tutti quei reati che non possono essere commessi “per interposta persona”, ma richiedono, affinché l'offesa al bene giuridico si realizzi, che la condotta tipica sia compiuta dal soggetto qualificato, come ad esempio avviene nei delitti di incesto o falsa testimonianza.

Al riguardo irrilevante la circostanza che nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alla persona, il legislatore utilizza il pronome “chiunque”, infatti dal tenore letterale della norma è desumibile la necessità che autore del reato sia chi abbia la possibilità di ricorrere al giudice per esercitare un preteso diritto, ossia un soggetto qualificato.

In altri termini, la condotta tipica può essere commessa soltanto dal titolare del diritto giuridicamente azionabile e non da un terzo estraneo ad essa.

Tale conclusione fa leva su un duplice argomento, uno di natura letterale secondo cui tale reato è commesso da chi “si fa ragione da se medesimo” (il che farebbe pensare ad un reato legato ad un tipo di autore ed escluderebbe conseguentemente la possibilità della ingerenza di un terzo nell'esercizio di una pretesa giuridicamente azionabile che non gli appartenga), ed un altro di natura sistematica secondo cui l'inserimento del reato di cui all'art. 392 e 393 c.p. nell'ambito dei delitti contro l'amministrazione della giustizia dovrebbe far ritenere che se è in qualche modo tollerabile che il titolare di un preteso diritto lo eserciti con violenza o minaccia in danno dell'obbligato non potrebbe accettarsi che si comporti così un terzo estraneo che verrebbe così ad usurpare il monopolio statale dell'esercizio della giurisdizione.

Da quanto precede, discende che tutte le condotte, violente o minacciose, del terzo che si pongano al di là dei limiti dell'esercizio dell'altrui diritto (in base al mandato ricevuto) oppure che pretendano di trarre da tale condotta illecita anche un arricchimento e accrescimento della propria sfera patrimoniale o personale, non potranno che rientrare nell'ambito del delitto di estorsione, proprio perché strumentali alla realizzazione di un profitto che non potrà che essere ritenuto ingiusto.

Guida all'approfondimento

F. Agnino, Esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione: alla ricerca degli elementi differenziali;

S. Bernardi, Alle Sezioni Unite il compito di chiarire il confine tra i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione, in www.sistemapenale.it;

R. Dainelli, Il discrimen tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione: una applicazione pratica in ambito cautelare tra oggettività della condotta e finalismo, aspettando le SS.UU. Penali, in www.diritto.it;

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