Contratto con effetti protettivi verso terzi in ambito sanitario ed effetti del decreto di archiviazione penale sulla prescrizione
26 Novembre 2020
Massima
Se riguardo ad un fatto illecito astrattamente configurabile come reato sia pronunciato decreto di archiviazione, il giudice civile non può sovrapporre alla veste formale di tale provvedimento una valutazione sostanziale ed equipararlo alla sentenza di proscioglimento, così da escludere l'applicazione del più lungo periodo di prescrizione eventualmente previsto, poiché l'art. 2947, comma 3, parte seconda, c.c. non prevede l'archiviazione tra i presupposti che giustificano il regime ivi applicato.
Il caso
Nel caso di specie, una donna veniva ricoverata presso una struttura ospedaliera a causa di alcuni sintomi legati all'uso di lassativi prescritti dal suo medico curante. Dall'esame ecografico effettuato presso la predetta struttura, emergeva una massa di circa sette centimetri che faceva sospettare una neoplasia (aspetto a pseudo rene), inducendo i sanitari dell'ospedale a programmare per il giorno successivo un esame endoscopico, ossia una gastro-duodeno endoscopia. Della necessità di questo esame veniva avvisata la paziente interessata e le due figlie, che l'avevano accompagnata. Nel corso della gastroscopia, il medico operante, notando una perforazione delle pareti esofagee, interrompeva immediatamente l'esame, ma in quello stesso istante la donna andava in arresto cardiaco e, nonostante i tentativi di rianimarla, decedeva dopo circa un'ora e mezza. Le due figlie depositavano denuncia-querela e si avviava un'indagine per omicidio colposo nel corso della quale il P.M. incaricava inizialmente un perito che, ritenendo di dover fare a meno dell'autopsia, concludeva con una valutazione di incertezza circa le cause del decesso. Queste conclusioni inducevano la Procura ad una prima richiesta di archiviazione. Le ricorrenti, figlie della deceduta, proponevano opposizione e il GIP, accogliendo le loro istanze, richiedeva al P.M. un supplemento di consulenza tecnica che si concludeva, anch'esso, con l'impossibilità di affermare in modo certo le cause della morte a causa della mancata esecuzione dell'autopsia. Veniva, pertanto, richiesta nuovamente l'archiviazione. Seguiva un'ulteriore opposizione da parte delle figlie della donna, ed un ulteriore ampliamento di indagini disposte dal GIP, ed, infine, stanti i medesimi risultati delle indagini, la terza richiesta di archiviazione veniva accolta con provvedimento del 12 luglio 2011. Le ricorrenti, allora, con citazione del 19 aprile 2014, iniziavano una causa civile avanti al Tribunale contro la ASL ed i medici della struttura ospedaliera, addebitando loro diversi profili di responsabilità tra i quali l'avere procurato una perforazione gastrica alla paziente nell'esecuzione della endoscopia, il non avere prestato i soccorsi e l'assistenza necessari in seguito all'arresto cardiaco occorso alla paziente a causa della perforazione ed il non avere richiesto ed ottenuto il necessario consenso informato. Il Tribunale rimetteva in decisione la questione preliminare di merito attinente alla prescrizione della domanda e alla mancata prova del nesso di causalità, dunque, senza svolgere alcuna attività istruttoria; così il giudice di prime cure statuì che, da un lato, la mancata effettuazione della autopsia rendeva non assolto l'onere della prova quanto al nesso di causalità e che, per altro verso, la domanda di risarcimento iure proprio delle due ricorrenti era da ritenersi prescritta, in quanto avente titolo in una responsabilità extracontrattuale, e non già contrattuale, soggetta, conseguentemente, al termine di prescrizione quinquennale e non a quello più lungo da reato, per via del mancato accertamento di quest'ultimo. La Corte d'Appello adita dalle ricorrenti rigettava l'impugnazione, giudicando inammissibile l'appello ex art. 348-ter c.p.c. La causa giungeva, infine, alla Suprema Corte di cassazione, ove il ricorso ha conseguentemente avuto ad oggetto la decisione di primo grado. La questione
Nell'ordinanza qui riportata, la Terza sezione civile della Corte di cassazione si sofferma sulla problematica afferente alla prescrizione del diritto al risarcimento iure proprio delle figlie eredi di una paziente deceduta a causa di malpractice medico-sanitaria. La questione viene esaminata sotto una duplice prospettiva: primariamente, viene in considerazione l'ambito di applicazione del c.d. contratto con effetti protettivi verso terzi e, conseguentemente, la natura della responsabilità della struttura sanitaria nei confronti delle eredi; successivamente, la Suprema Corte si sofferma sull'applicabilità al caso di specie del più lungo del termine prescrizionale previsto dall'art. 2947, comma 3, c.c. Le soluzioni giuridiche
Il primo motivo di ricorso esaminato dalla Corte attiene alla prescrizione del diritto al risarcimento iure proprio delle figlie della paziente deceduta. Il Tribunale di primo grado aveva ritenuto prescritto il diritto delle attrici atteso che il diritto al risarcimento del danno lamentato dalle figlie della paziente deceduta era stato fatto valere a titolo di responsabilità “contrattuale” e non già “extra-contrattuale”; le figlie, infatti – aveva sostenuto il Tribunale - non possono invocare a loro favore gli effetti protettivi nei confronti di terzi del contratto stipulato dalla madre con l'ospedale, in quanto detti effetti si producono solo a vantaggio del nascituro e del di lui padre mentre ogni altro parente, compresi i figli, non possono beneficiarne. Ne consegue che il termine di prescrizione è da considerarsi quinquennale e non può applicarsi il prolungamento previsto dall'art. 2947 c.c., in quanto il reato di omicidio colposo è stato escluso dal provvedimento di archiviazione. Le ricorrenti, contestando le predette motivazioni, avevano opposto che il “contratto di spedalità” ha effetti protettivi verso tutti i parenti e che la prescrizione opera solo in caso di accertata insussistenza del reato, e non già in caso di archiviazione. Ebbene, la Corte di cassazione, confermando le affermazioni del Tribunale di primo grado, ribadisce che la figura del contratto con effetti protettivi verso i terzi è ammissibile solo con riguardo al contratto della gestante con l'ospedale; e, dunque, solo al fine di riconoscere al padre del nascituro ed a quest'ultimo l'azione ex contractu in caso di inadempimento, andando, invece, escluso che l'istituto possa trovare applicazione in fattispecie diverse da questa, come del resto risulta da precedenti costanti in materia (Cass. civ., 11 maggio 2009, n. 10741; Cass. civ., 18 aprile 2019, n. 10812; Cass. civ., 20 marzo 2015, n. 5590; Cass. civ., 8 luglio 2020, n. 14258). La figura del contratto con effetti protettivi verso i terzi, spiega la Corte, è giustificata dal solo fatto che il terzo abbia un interesse identico a quello dello stipulante, in quanto viene coinvolto dall'esecuzione del contratto nello stesso modo in cui è coinvolto l'interesse della parte contrattuale creditrice della prestazione. Ebbene, nel contratto tra la struttura sanitaria e la gestante, l'interesse di quest'ultima è la nascita del figlio: la donna si affida alla struttura sanitaria (o al medico) allo scopo di avere assistenza al parto. L'esecuzione del contratto, quindi, soddisfa (o lede, in caso di inadempimento) l'interesse dell'altro genitore esattamente come soddisfa (o lede) l'interesse della gestante contraente. Non vi è, dunque, motivo di riconoscere azione da contratto all'una, ed azione aquiliana all'altro. Queste osservazioni sono sufficiente ad escludere che la figura possa essere utilizzata nella fattispecie in esame: nel caso di specie, infatti, l'interesse delle figlie non è il medesimo di quello dedotto in contratto dalla paziente. Quest'ultima si era, infatti, affidata alla struttura ospedaliera per la cura della salute e l'inadempimento dell'obbligazione assunta dalla struttura ha leso due beni diversi: la salute (e successivamente il bene vita), quanto alla donna ed il rapporto parentale, quanto alle figlie. Manca, quindi, la ragione giuridica che giustifichi l'applicazione degli effetti protettivi verso i terzi, ossia l'identità dell'interesse coinvolto dall'esecuzione del contratto. Piuttosto, ad avviso della Corte, è da accogliersi l'altro motivo in esame, ossia il vincolo che, per la prescrizione, derivi dall'archiviazione del procedimento penale. Qualora per un atto illecito astrattamente configurabile come reato sia intervenuto in sede penale decreto di archiviazione, il giudice civile non può sovrapporre alla veste formale di tale provvedimento una valutazione sostanziale ed equipararlo alla sentenza di proscioglimento con conseguente applicazione dell'art. 2947, comma 3, seconda parte c.c. (secondo il quale, «se il fatto è considerato dalla legge come reato, e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all'azione civile. Tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile»); ciò perchè la predetta disposizione non contempla l'archiviazione tra i presupposti che giustificano il regime ivi disciplinato (così, anche Cass. civ., 20 marzo 2018, n. 6858, la quale chiarisce la portata del comma 3 dell'art. 2947 c.c.). Ebbene, solamente la sentenza penale irrevocabile impedisce l'applicazione alla domanda civile del più lungo termine di prescrizione (quello previsto per il reato ipotizzato); ciò in quanto la sentenza contiene un accertamento negativo del reato che produce riflessi sull'azione civile, escludendo che essa possa, per l'appunto, beneficiare del termine proprio di un reato accertato come insussistente. All'opposto, il solo decreto di archiviazione non impedisce al giudice civile di compiere una propria valutazione circa la sussistenza o meno del fatto di reato al fine di individuare il termine di prescrizione applicabile, che potrà essere quello quinquennale di cui dell'art. 2947 c.c., comma 1, oppure quello maggiore eventualmente ricollegabile al reato, ai sensi della prima parte del comma 3, con decorrenza, in ogni caso, dalla data dell'illecito. Quanto al terzo motivo di ricorso, le ricorrenti denunciavano la violazione degli artt. 1218 c.c., 2727 c.c. e 2697 c.c., in relazione alla decisione del Tribunale di ritenere non provato il nesso eziologico e, dunque, non assolto l'onere della prova. Il Tribunale, in particolare, aveva ritenuto che - come risultante dal decreto di archiviazione in sede penale - l'omessa esecuzione dell'autopsia avesse impedito di accertare le cause della morte, ossia avesse impedito di accertare se essa fosse effettivamente riconducibile alla perforazione occorsa durante l'esame endoscopico, con conseguente mancata prova del nesso di causalità. Questa affermazione era stata contestata dalle ricorrenti con l'argomento che, in realtà, prima dell'intervento, non sussistesse alcuna perforazione; non c'era alcun elemento patognomonico suggestivo per diagnosi di carcinoma gastrico che potesse incidere sulla permeabilità dei tessuti e detti tessuti risultavano, dato altrettanto pacifico, ispessiti e non già indeboliti. Le ricorrenti avevano, altresì, affermato, in ogni caso, che la prova della mancata imputabilità della causa lesiva non fosse a loro carico. La questione viene giudicata dalla Corte fondata, in particolare per quanto attiene la denuncia di violazione dell'art. 2727 c.c.: in ambito civile la prova considerata sufficiente al fine della dimostrazione del nesso causale – spiega la Corte - è quella del “più probabile che non”, in base alla quale si considera raggiunto l'accertamento del nesso causale a condizione che emerga che è più probabile che il fatto indicato come antecedente abbia causato l'evento. Ebbene, questo accertamento può essere raggiunto anche mediante presunzioni e non solo, necessariamente, mediante prova diretta. Lo stesso Tribunale aveva fatto uso di presunzioni per ritenere non raggiunta la prova del nesso causale, ricorrendo alle valutazioni contenute nel decreto di archiviazione; tuttavia, nell'uso di queste presunzioni, spiega la Corte, il Tribunale era incorso in una violazione delle norme che presiedono al giudizio induttivo poiché era pervenuto alla conclusione che non vi fosse prova del nesso di causa tra la morte e la condotta dei sanitari sulla sola base del fatto che, non essendo stata effettuata autopsia, non si potesse stabilire la causa del decesso. Dunque, conclude la Corte, il giudizio probatorio sul nesso causale avrebbe dovuto essere condotto con l'ausilio di presunzioni che tenessero conto di tutti gli elementi indicativi presenti in atti ed utilizzabili per la decisione, anzichè assumere come dirimente un dato indicato nel decreto di archiviazione facendolo assurgere ad esclusiva fonte di conoscenza. Con un ulteriore motivo, si denunciava la violazione dell'art. 112 c.p.c.: secondo le ricorrenti, il Tribunale aveva del tutto omesso di pronunciarsi sulla domanda di risarcimento per violazione del consenso informato. Anche tale motivo è stato giudicato fondato: l'omissione è apparsa evidente alla luce del fatto che il consenso informato è validamente richiesto e prestato quando l'informazione è completa, ossia non è limitata al tipo di intervento da eseguire, ma è estesa anche alle ragioni ed ai rischi della scelta terapeutica; con la conseguenza che la decisione del giudice di merito circa il rispetto del diritto del paziente al consenso informato deve accertare che l'informazione abbia tali requisiti. Con riguardo all'ultimo motivo, infine, le ricorrenti denunciano la violazione dell'art. 2700 c.c. Il Tribunale, attribuendo rilievo al certificato di morte redatto dall'Ufficiale dello stato civile - ove le cause del decesso venivano ricondotte alla neoplasia gastrica - aveva ritenuto che esso fosse assistito da fede privilegiata, e che, dunque, le affermazioni circa la causa del decesso facessero fede, in difetto di querela di falso. Le ricorrenti contestavano quest'affermazione, osservando come non si trattasse di un certificato redatto dal medico, bensì dall'Ufficiale di stato civile. Ebbene, spiega la Suprema Corte che, secondo l'art. 2700 c.c., l'atto pubblico fa fede della provenienza del documento dal Pubblico Ufficiale che lo ha redatto (circostanza, questa, non in contestazione nel caso di specie), e di ciò che è avvenuto alla presenza dello stesso Pubblico Ufficiale, tuttavia, quest'ultimo effetto non può essere attribuito al documento in questione, (come invece ritenuto dal Tribunale), in quanto l'Ufficiale dello stato civile non ha assistito al fatto, nè ha avuto diretta contezza delle cause del decesso, ma si è limitato a recepire le indicazioni provenienti dai medici. Ne consegue che tale certificato, quanto all'indicazione di una determinata causa di morte, non gode di fede privilegiata e può essere smentito con ogni mezzo.
Osservazioni
I punti centrali e giuridicamente più interessanti dell'ordinanza n. 19188/2020 della Terza sezione civile della cassazione sono essenzialmente tre: la natura del diritto degli eredi e l'ambito applicativo del contratto con effetti protettivi verso i terzi; il relativo termine di prescrizione, qualora sia stato avviato un procedimento penale per l'accertamento della condotta dei sanitari conclusosi con l'archiviazione e, infine, gli elementi che il giudice è tenuto a valutare per accertare la sussistenza del nesso di causalità. Quanto alla figura del contratto con effetti protettivi verso i terzi, si tratta, come noto, di una figura che nell'ambito della responsabilità medica va considerata solo in ipotesi specifiche e tassative, che non possono essere ampliate. Per la Corte di legittimità tale istituto va applicato solamente con riferimento al contratto della gestante con l'ospedale, riconoscendo al nascituro e al di lui padre, la possibilità di proporre l'azione da contratto in caso di inadempimento da parte della struttura sanitaria, mentre non può applicarsi in fattispecie diverse. Il contratto con effetti protettivi verso i terzi, infatti, trova la sua ragion d'essere nella circostanza che il terzo e lo stipulante abbiano un medesimo interesse, ossia un interesse coinvolto dall'esecuzione del contratto secondo le medesime modalità: l'interesse della gestante è la nascita del figlio e l'esecuzione del contratto soddisfa o lede l'interesse dell'altro genitore (o del nascituro) allo stesso modo con la conseguenza che non è possibile riconoscere alla madre l'azione da contratto ed al padre l'azione extracontrattuale. Del resto, un buon uso della logica ci permette di comprendere le ragioni sottese all'orientamento, peraltro sostanzialmente univoco, sostenuto dalla corte di legittimità sul punto in esame. Il contratto con effetti protettivi verso i terzi, di fatto, attribuisce, per estensione analogica, la disciplina contrattuale a soggetti che, altrimenti, ne sarebbero esclusi, giustificando l'estensione con il comune interesse di talune parti. Analizzando il punto, occorre osservare che l'analogia costituisce un criterio ermeneutico importante, in quanto ogni sistema giuridico soffre il limite di non poter normare tutte le possibili combinazioni di rapporti umani aventi rilevanza giuridica e tale limite è insuperabile ed intrinseco del sistema in quanto espressione dell'incapacità del mezzo linguistico di contenere e prevedere interamente la complessità del reale. Il ricorso al ragionamento analogico, quindi, costituisce il metodo per disciplinare giuridicamente fattispecie non direttamente tipizzate dal legislatore e, quindi, introduce un fattore di ordine nell'applicazione delle norme a vantaggio della collettività ed, auspicabilmente, in conformità allo “spirito delle leggi”. Non deve, tuttavia, sfuggire che il procedimento ermeneutico in parola deve trovare la propria giusitificazione, necessariamente, in un argomento esterno da sé, per non incorrere nei vizi della circolarità e dell'autoreferenzialità. La giusitificazione esterna può essere rappresentata dall'individuazione di un profilo, giuridicamente rilevante, che, quanto meno, indentifichi e circoscriva un'area di intersezione tra gli interessi coinvolti, così da poter integrare la la fattispecie concreta in quella normativa astratta, anche qualora la prima non si attagli perfettamente al perimetro della seconda. L'operazione intellettuale, tuttavia, per essere accettabile sul piano stretto della logica deve poggiarsi su un elemento comune, di apprezzabile valore giuridico e di natura tendenzialmente prevalente sugli altri. Nell'estendere il regime della responsabilità contrattuale (applicabile alla gestante) a soggetti esterni al rapporto (id est padre e figlio), la Corte ha rinvenuto, quale fattore giustificativo esterno del processo analogico-estensivo l'interesse comune della madre, del padre e del nascituro alla corretta prestazione dei sanitari, al fine di ottenere la nascita sana del feto. Non può, tuttavia, sfuggire che tale interesse è solo uno dei molti in gioco nel caso della nascita; ma è l'unico comune ai tre soggetti, di apprezzabile valore giuridico e, tendenziamente, prevalente. La madre, infatti, oltre a quello indicato, ha interesse ad essere curata al meglio, al rispetto dei propri diritti di autoderminazione, all'ottenimento di adeguati servizi alberghieri da parte della struttura sanitaria etc, il padre, dal canto suo, è portatore di interessi solamente connessi alla nascita del figlio, ai suoi diritti costituzionali di pianificazione familiare, di tutela della filiazione nella sua sfera dinamico-relazionale - restando esclusa la tutela della propria salute -, mentre il feto, a sua volta, ha l'interesse a nascere senza subire menomazioni alla propria integrità psicofisica a causa di malpratica medica e detto interesse diventerà diritto al momento della nascita con l'acquisizione della capacità giuridica. Ben si comprende, quindi, che il riferimento fugace al solo interesse comune tra i tre soggetti appare riduttivo e non adeguatamente descrittivo della complessa rete di rapporti giuridicamente rilevanti che coesistono in tale fattispecie e del procedimento logico-giuridico sottostante del quale si è cercato, in breve, di dare conto; eppure, nel caso della gestante, del padre e del figlio, pare proprio che possa ritenersi soddisfatta la condizione di giustificazione esterna del procedimento analogico-estensivo che, pertanto, deve ritenersi accettabile. Gli effetti protettivi verso i terzi non sono, invece, giustificati quando non vi sia alcuna identità dell'interesse coinvolto dall'esecuzione del contratto. E dunque, come accade nel caso di specie, se a chiedere il risarcimento del danno sono le figlie di una paziente deceduta in conseguenza di malpractice medica, il loro interesse non è il medesimo dedotto in contratto dalla madre: ciò perchè quest'ultima si era affidata alla struttura sanitaria per la cura della salute, e l'inadempimento ha leso, appunto, il suo bene salute; le figlie, invece, hanno visto leso il rapporto parentale. Con ciò, quindi, la Suprema Corte conferma l'orientamento consolidato secondo cui la natura della responsabilità della struttura sanitaria nei confronti dei prossimi congiunti del paziente deceduto è di tipo extracontrattuale, perché l'interesse che si tutela con il contratto tra paziente e ospedale non è coincidente con l'interesse di cui sono titolari i figli, in quanto l'interesse di cui sono portatori i parenti prossimi non coincide con l'interesse tutelato attraverso il contratto stipulato tra paziente e ospedale. Da questa considerazione discende anche un altro importante principio affermato dalla pronuncia in esame, riguardante il computo del termine di prescrizione del diritto iure proprio, nel caso in cui la condotta dei sanitari configuri reato. I diritti risarcitori iure proprio fatti valere dalle figlie della de cuius non si sono prescritti perché la condotta dei sanitari, in astratto, integrava il reato di omicidio colposo e, in tale ipotesi, a prescindere che vi sia stata l'archiviazione del procedimento penale, l'art. 2947 c.c., comma 3, sancisce l'applicazione del termine di prescrizione più lungo, previsto per il reato. L'ordinanza chiarisce – a proposito del caso in cui il procedimento penale sia stato archiviato - che la decisione resa in sede penale che impedisce l'applicazione del più lungo termine di prescrizione - quello proprio del reato ipotizzato - è solo la sentenza irrevocabile, in quanto contiene un accertamento negativo del reato: accertamento che ha riflessi, dunque, sull'azione civile, escludendo che essa possa, per l'appunto, beneficiare del termine proprio di un reato insussistente. All'opposto, il solo decreto di archiviazione non impedisce al giudice civile di compiere una propria valutazione circa la sussistenza o meno del fatto di reato, al fine di individuare il termine di prescrizione applicabile con decorrenza dalla data dell'illecito. L'ordinanza della Suprema Corte chiarisce, infine, che il giudice, nel giudizio probatorio sul nesso di causa, deve servirsi dell'ausilio di presunzioni che tengano conto di tutti gli elementi indicativi esistenti in atti e utilizzabili per la decisione, anziché assumere come dirimente un dato indicato nel decreto di archiviazione, ponendolo come fonte di conoscenza esclusiva. Di fatto, il giudice di primo grado, nel valutare la sussistenza del nesso di causa, si era basato sul solo dato della mancata autopsia e, sulla scorta dell'omesso esame, aveva concluso per l'impossibilità di comprendere se la causa del decesso fosse dovuta al cancro o alla lesione dell'organo da parte dell'operatore nel corso dell'esame diagnostico, così ignorando tutti gli altri elementi sottoposti alla sua attenzione, nonostante essi fossero gravi, precisi e concordanti. Va tra l'altro sottolineato che, nel caso di specie, quando il P.M. ha chiesto ed ottenuto l'archiviazione in quanto la mancata esecuzione dell'autopsia rendeva difficile stabilire le cause del decesso, si trattava non già dell'accertamento dell'insussistenza del reato, bensì di una valutazione probabilistica in ordine alle possibilità di sostenere l'accusa nel dibattimento; una siffatta valutazione, ovviamente, non può impedire al giudice civile di valutare, nel proprio ambito, l'astratta sussistenza del reato ai fini della prescrizione. L'ordinanza ribadisce, infine, che tutti gli elementi raccolti al fine di accertare o escludere la presenza del nesso di causalità devono essere valutati dal giudice alla luce della regola del “più probabile che non” che, com'è noto, trova la propria ragione applicativa nella natura stessa del sistema civilistico, mentre in ambito penale opera l'assai più rigoroso criterio dell' ”oltre ogni ragionevole dubbio”. |