Il caso. Orbene, nel caso di specie l'aspetto centrale e forse anche decisivo della controversia era senz'altro rappresentato dalla ricostruzione dei limiti della facoltà dell'avvocato di astenersi dal rendere testimonianza in un processo civile in cui sia stato chiamato in qualità di testimone.
Ed infatti, era accaduto che nel processo di primo grado la parte, poi risultata soccombente per mancato assolvimento dell'onere della prova, avesse indicato come testimoni due avvocati che, chiamati, avevano esercitato la facoltà di astensione che il Tribunale (e la Corte di Appello poi) aveva ritenuto di accogliere.
Astensione. Il quadro normativo che regola l'astensione dell'avvocato nel processo civile (che è ipotesi diversa dall'incompatibilità laddove egli sia l'avvocato costituito nel giudizio) è dato dal combinato disposto degli articoli 240 c.p.c. e dell'art. 200 c.p.p.
Quanto al primo, il codice di rito civile prevede che «si applicano all'audizione dei testimoni le disposizioni degli articoli 200, 201 e 202 del codice di procedura penale relative alla facoltà di astensione dei testimoni».
Quanto al secondo (che, quindi, completa il primo) il codice di procedura penale prevede il segreto professionale riconoscendo, inter alia, agli avvocati che «non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria».
Secondo la Corte costituzionale si tratta di una disciplina che «risponde all'esigenza di assicurare una difesa tecnica, basata sulla conoscenza di fatti e situazioni, non condizionata dalla obbligatoria trasferibilità di tale conoscenza nel giudizio, attraverso la testimonianza di chi professionalmente svolge una tipica attività difensiva» e che scatta in presenza di due requisiti: uno soggettivo e l'altro oggettivo (Corte cost. n. 87/1997).
È rilevante, quindi, soltanto l'interesse al segreto e non già l'interesse della parte che intende chiamare l'avvocato come testimone.
Ne deriva che, laddove l'avvocato sia stato chiamato a testimoniare su circostanze apprese in ragione del suo mandato professionale, opera la norma che gli riconosce la facoltà di astenersi dal rendere la testimonianza.
Giudiziale o stragiudiziale. Peraltro, è del tutto indifferente che l'attività professionale svolta dall'avvocato (e in ragione della quale egli ha appreso i fatti rispetto ai quali viene poi chiamato a rendere testimonianza) sia stata un'attività giudiziaria oppure stragiudiziale: in entrambi i casi ciò che rileva è che le circostanze sono state conosciute in ragione del proprio mandato difensivo.
Facoltà e non divieto. L'art. 242 c.p.c. quindi riconosce una facoltà senza che ciò – scrive la Cassazione – dia luogo ad un divieto legale a rendere la testimonianza.
E ciò fermo restando che le norme del codice deontologico forense ribadiscono (forse, anzi, rafforzano direi io) la previsione della facoltà di astensione.
Ed infatti, da un lato, l'art. 28 prevede che «è dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale dell'avvocato mantenere il segreto e il massimo riserbo sull'attività prestata e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato».
Dall'altro lato, l'art. 51 (che sanziona con la censura l'eventuale condotta difforme) prevede che «l'avvocato deve astenersi, salvo casi eccezionali, dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell'esercizio della propria attività».
Sembra, quindi, in conclusione che – salve le verifiche dei singoli casi (ed infatti, è indubitabile che c'è uno spazio per valutazioni legate alle singole evenienze) la facoltà di astensione dell'avvocato prevista dal codice di rito si trasformi (absit iniuria verbis) in obbligo secondo il codice deontologico (senza, però, che quest'obbligo possa avere effetti sul processo, ad esempio, per sostenere un divieto legale di rendere la testimonianza oppure come inutilizzabilità della dichiarazione).
*Fonte: www.dirittoegiustizia.it