Non sempre il termine di impugnazione decorre dalla ricezione dell’atto datoriale

Mario Scofferi
21 Dicembre 2020

Nell'ipotesi di una pluralità di atti formalmente leciti ma, complessivamente considerati, tesi a perseguire un unico risultato in frode alla legge, considerato lo stretto legame logico-giuridico tra i vari provvedimenti e la funzione strumentale...

Nell'ipotesi di una pluralità di atti formalmente leciti ma, complessivamente considerati, tesi a perseguire un unico risultato in frode alla legge, considerato lo stretto legame logico-giuridico tra i vari provvedimenti e la funzione strumentale che ognuno di essi assume nella dinamica contrattuale, la tempestiva impugnazione dell'atto finale della condotta illecita posta in essere dal datore di lavoro esonera il datore di lavoro dalla necessità di contestare la legittimità degli atti ad esso prodromici.

Ad affermarlo è la Corte di cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 29007/20, depositata il 17 dicembre.

La Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la nullità di un licenziamento comunicato ad un lavoratore ritenendolo in frode alla legge, condannando quindi il datore di lavoro alle conseguenze di cui all'art. 18, comma 1, Stat. lav..
Nella vicenda sottoposta all'esame della Corte, a seguito di una precedente pronuncia del Tribunale di Roma il ricorrente era stato reintegrato in un'unità produttiva diversa da quella di originaria appartenenza. Cinque giorni dopo tale trasferimento, tuttavia, la società avviava in tale nuova unità produttiva una procedura di riduzione del personale relativa a 9 dipendenti, tra cui il lavoratore in discorso, sulla base di un affermato esubero strutturale di personale.
Su questi presupposti, nell'avviso della Corte, il licenziamento comunicato al ricorrente «era da inquadrarsi negli atti in frode alla legge, per essere l'operazione complessivamente realizzata, unitamente al trasferimento presso il punto vendita di Trieste, un mezzo per eludere l'applicazione delle disposizioni imperative in materia di limitazione alla facoltà datoriale di recesso e per sottrar(si) all'ordine di reintegrazione disposto dal Tribunale».
In questo contesto, risultava del tutto irrilevante il fatto che il lavoratore non avesse impugnato l'atto di trasferimento presso la nuova unità produttiva poiché, «una volta impugnato in via principale il licenziamento e dedotta la frode alla legge per il collegamento con un preesistente trasferimento», l'impugnazione del recesso aveva per oggetto entrambi i negozi. Contro tale pronuncia la società ricorreva alla Corte di Cassazione, articolando vari motivi.

La differenza tra frode alla legge e violazione di norma imperativa. Con un primo motivo, la ricorrente censurava la sentenza impugnata per avere ritenuto applicabile l'istituto della frode alla legge anche agli atti unilaterali, quando l'art. 1344 c.c. è del tutto chiaro nel limitare il proprio ambito di applicazione ai soli contratti.
Motivo che tuttavia non viene condiviso dalla Cassazione la quale, preliminarmente, rileva come «la peculiarità del contratto in frode alla legge […] consiste nel fatto che gli stipulanti raggiungono, attraverso gli accordi contrattuali, il medesimo risultato vietato dalla legge, di guisa che, nonostante il mezzo impiegato sia lecito, è illecito il risultato che attraverso l'abuso del mezzo, la predisposizione di uno schema fraudolento e la distorsione della sua funzione ordinaria si vuole in concreto realizzare», mentre si verifica una «violazione di disposizioni imperative (art. 1343 c.c.) qualora le parti perseguano il risultato vietato dall'ordinamento, non già attraverso la combinazione di atti di per sé leciti, ma mediante la stipulazione di un contratto la cui causa concreta si ponga direttamente in contrasto con disposizioni di tale natura».
Su tale presupposti, la medesima Corte rileva come la sentenza di merito avesse compiutamente esaminato in chiave unitaria le condotte poste in essere dalla società, valorizzando il collegamento negoziale tra il trasferimento (in un'unità produttiva con personale notoriamente in esubero, ndr) ed il successivo licenziamento collettivo. In questo contesto, era del tutto irrilevante la natura unilaterale degli atti funzionali a realizzare la frode alla legge, in quanto «presupposto indefettibile (e sufficiente, ndr) affinché si possa parlare di contratto in frode alla legge è che il negozio posto in essere non realizzi quella che è una causa tipica […] bensì una causa illecita in quanto finalizzata alla violazione della legge».

L'impugnazione dell'ultimo atto del «disegno» in frode alla legge impedisce il verificarsi di decadenze rispetto agli atti prodromici. Con un ulteriore motivo, la società si doleva dell'intervenuta decadenza da parte del lavoratore circa l'impugnazione del trasferimento presso l'unità produttiva di Trieste, con conseguente sottrazione alla valutazione del Giudice della legittimità di tale provvedimento.
Motivo che parimenti non viene condiviso dalla Cassazione la quale, affermando il principio esposto in massima, rigetta il ricorso. Ed infatti, nell'avviso della Corte, il trasferimento presso il punto vendita di Trieste costituiva «ineludibile passaggio giuridico per addivenire alla declaratoria di illegittimità del licenziamento collettivo e strumentale all'accoglimento del petitum mediato» ed integrava quindi «un elemento della complessa fattispecie che definiva la prospettata frode alla legge […] e strumento ineludibile per pervenire ad una pronunzia sul licenziamento».
In ragione di ciò, conclude la Corte, «l'avere tempestivamente impugnato l'atto finale della condotta illecita assunta dalla parte datoriale, esonerava il lavoratore dalla necessità di contestare la legittimità del provvedimento emanato dalla società nell'esercizio dello jus variandi».

(Fonte:Diritto e Giustizia)

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