Amministratore unico di società: legittimo presumere il diritto al compenso

La Redazione
29 Gennaio 2021

Riprende vigore la richiesta avanzata da un lavoratore per ottenere l'ammissione al passivo nei confronti del fallimento per il credito da lui vantato come retribuzione non corrispostagli per l'incarico di amministratore unico.

Riprende vigore la richiesta avanzata da un lavoratore per ottenere l'ammissione al passivo nei confronti del fallimento per il credito da lui vantato come retribuzione non corrispostagli per l'incarico di amministratore unico.

Logico presumere il compenso dell'amministratore unico della società. A maggior ragione quando non vi sono riferimenti statutari alla gratuità della prestazione. Di conseguenza, è legittima la pretesa avanzata verso il fallimento della società e mirata ad ottenere all'ammissione al passivo per il credito vantato a titolo di retribuzione non corrisposta (Cassazione, ordinanza n. 1673/21, depositata il 26 gennaio).

In Tribunale viene «rigettata l'opposizione proposta» dal lavoratore «avverso lo stato passivo della s.r.l.» da cui «era stato escluso il credito di oltre 65mila euro» da lui vantato «a titolo di retribuzione non corrisposta per quasi due anni quale compenso di amministratore unico».
Per i Giudici di merito è evidente il difetto di prova, poiché «né dalla visura camerale da cui risultava la nomina ad amministratore, né dall'elaborazione delle “buste paga” siccome provenienti dal creditore quale legale rappresentante della società (pure in difetto di prova sulla specifica attività svolta), era stata offerta adeguata dimostrazione della determinazione del compenso e pertanto della sua spettanza» in favore del lavoratore. E «nemmeno ciò si poteva ricavare, secondo il Tribunale, dal subentro alla precedente amministratrice».

Col ricorso in Cassazione il legale del lavoratore contesta «l'esclusione dell'onerosità» dell'incarico di amministratore unico della società, e ribatte, invece, che «l'onerosità dell'attività è presunta, salvo espressa rinuncia». Inoltre, egli pone in evidenza «il valore probatorio delle “buste paga” (non predisposte un anno per l'interruzione del rapporto del consulente del lavoro, in quanto non più remunerato per l'attività) nel loro valore ricognitivo in ordine alla spettanza degli emolumenti in esse indicati, mai oggetto di contestazione», e in questa ottica vengono aggiunti anche «la dichiarazione, ammissiva della corresponsione di un compenso in favore del lavoratore, del presidente del collegio dei sindaci della socia controllante» e «l'incarico al lavoratore, quale amministratore unico, di presentazione dell'istanza di fallimento in proprio della società nell'assemblea sociale».
I Giudici della Cassazione ritengono fondate le obiezioni proposte dal legale del lavoratore, soprattutto perché «l'incarico di amministratore di una società ha natura presuntivamente onerosa, sicché egli, con l'accettazione della carica, acquisisce il diritto di essere compensato per l'attività svolta in esecuzione dell'incarico affidatogli», diritto, questo, che è però «disponibile e pertanto derogabile da una clausola dello statuto della società, che condizioni lo stesso al conseguimento di utili, ovvero sancisca la gratuità dell'incarico».
Fondamentale, quindi, è valutare «la natura onerosa, piuttosto che gratuita, dell'attività di amministratore di società». E in questa vicenda «non vi è stata allegazione alcuna di una previsione statutaria di gratuità dell'incarico amministrativo», e ciò significa che in un nuovo processo in Tribunale bisognerà provvedere alla «determinazione del compenso spettante all'amministratore» – catalogabile come credito verso la società fallita –, proprio alla luce del principio giuridico di «onerosità dell'attività prestata», concludono dalla Cassazione.

(Fonte: Diritto e Giustizia)

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