SPECIALE: Il sistema sanzionatorio della illegittimità del licenziamento - Parte Prima: La tutela reintegratoria

Adriana Doronzo
08 Marzo 2021

Questo contributo si propone di offrire un quadro ricognitivo delle sanzioni previste nell'attuale ordinamento in caso di licenziamento individuale illegittimo per difetto di giusta causa o di giustificato motivo...
Premessa

Vedi, A. Doronzo, Il sistema sanzionatorio della illegittimità del licenziamento - Parte II: La tutela indennitaria

Questo contributo si propone di offrire un quadro ricognitivo delle sanzioni previste nell'attuale ordinamento in caso di licenziamento individuale illegittimo per difetto di giusta causa o di giustificato motivo.

È un'operazione che, in linea teorica e seguendo un criterio meramente cronologico, dovrebbe essere abbastanza agevole, una volta fissato l'arco temporale in cui si colloca il licenziamento e individuata la normativa applicabile; nella pratica, invece, l'operazione si rivela tutt'altro che semplice, a causa degli interventi normativi che si sono succeduti nel volgere di pochissimi anni, dell'obiettiva controvertibilità di molte questioni, dei ripetuti interventi della Corte costituzionale.

L'attuale disciplina, che mantiene al suo interno un sistema duale di regola e sanzione, prevede infatti diverse tipologie di rimedi che non sono solo legati all'elemento temporale, ma reagiscono al tipo di vizio che inficia il recesso, nonché a dati soggettivi, anche diversi da quello tradizionale del requisito dimensionale.

Le tutele si presentano, così, frammentate e creano un obiettivo stato di incertezza che non può non riflettersi negativamente sul contenzioso di lavoro, determinando orientamenti non sempre univoci sia sotto il profilo della identificazione della fattispecie regolatrice del caso concreto, sia sotto quello sanzionatorio. E ciò, all'evidenza, frustra l'obiettivo del legislatore delle riforme, che era invece quello di intervenire sul tessuto normativo con regole certe e incontrovertibili sì da porre un argine all'imprevedibilità delle sentenze e, soprattutto, ai tempi ancor più imprevedibili del processo, allo scopo finale di rendere calcolabili i costi del licenziamento e rimuovere i tanto paventati ostacoli agli investimenti delle imprese.

Ragioni di opportunità espositiva, oltre che di attualità dell'interesse, inducono a limitare la presente trattazione ai licenziamenti intimati dopo l'entrata in vigore della legge 28 giugno 2012, n. 92 (così detta legge «Fornero») e a quelli ricadenti nella disciplina del Jobs act. Non va però dimenticato il punto dal quale si è partiti.

Dalla legge n. 604/1966 all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori

a) All'indomani della sua entrata in vigore, la legge 15 luglio 1966, n. 604 fu accolta dalla più attenta dottrina giuslavoristica con giudizi assai contrastanti.

A quanti la salutarono come una legge di «portata rivoluzionaria» (1), si opposero altri che la ritennero deludente, dal momento che configurava il licenziamento privo di giusta causa (art. 2119 cod. civ.) o di giustificato motivo (art. 3 l. n. 604/1966) come atto illecito ma nello stesso tempo efficace (art. 8 l. n. 604/1966): a fronte della insussistenza dei presupposti di legittimità del licenziamento, conseguiva il solo obbligo del datore di lavoro (con esclusione, in linea generale, e salvo ulteriori specifiche esclusioni, dei datori di lavoro che occupassero sino a trentacinque dipendenti: art. 11) di riassumere il dipendente o, alternativamente, di versagli una indennità risarcitoria, secondo quanto stabilito dall'art. 8 della stessa legge n. 604.

Si osservò che il giustificato motivo, così come la giusta causa, non introduceva un limite al potere di licenziare dell'imprenditore, ma si poneva come una “mera condizione di esercizio del recesso ad nutum”, e che un legislatore che attribuisce ad un negozio giuridico, pure quando è contra ius, gli effetti voluti dal suo autore è espressione di «un ordinamento in cui l'interesse all'estinzione viene riconosciuto e protetto con larghezza» (2).

Tuttavia, nonostante la severità di questi giudizi, è innegabile che la legge ebbe il merito di compiere un passo in avanti sulla strada di una maggiore protezione dei diritti del lavoratore.

L'art. 1 segna, infatti, il passaggio del licenziamento dal campo degli atti “liberi” a quello degli atti “discrezionali”; dal punto di vista della teoria del negozio giuridico, il recesso transita dai negozi astratti (in cui pacificamente deve inquadrarsi il recesso “ad nutum”) ai negozi causali. Diventa necessario un motivo tipizzato dalla legge per giustificare il licenziamento, affinché la tutela degli interessi del recedente sia bilanciata, nell'ambito di un complessivo giudizio valoriale, dall'interesse alla conservazione del rapporto della parte soggetta al recesso.

Rispetto al codice del 1942, la legge n. 604/1966 abbandona la formula della “par condicio” delle due parti, ciascuna titolare (in astratto) di una medesima capacità di recesso, e si avvia verso un sistema di stabilità «che è proporzionale alla maggiore difficoltà per l'imprenditore di esercitare il suo originario potere di recesso» (3).

In questo bilanciamento di cointeressenze, si prescinde dal carattere blando delle sanzioni derivanti dal licenziamento sine causa, espressione di un sistema che ancora vede il rapporto di lavoro fortemente connotato dal potere di supremazia del datore di lavoro. L'innovazione della legge n. 604/1966 sta essenzialmente nel fatto che con essa si creano i presupposti per la sindacabilità del recesso.

La legge rimane comunque coerente con i principi costituzionali (oggi sanciti anche a livello eurounitario dall'art. 30 della Cartadei diritti fondamentali dell'Unione Europea, secondo cui «ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali»), per i quali la garanzia del lavoratore resta assicurata dalla necessità che sussista un motivo giustificato per il licenziamento, mentre è rimessa alla discrezionalità del legislatore la scelta dei rimedi applicabili nel caso di sua illegittimità (4).

Può infatti considerarsi acquisito il principio secondo cui il legislatore può intervenire sul sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo senza violare la costituzione materiale, con l'unico limite del divieto di ripristinare la libertà di licenziamento, prevista dall'art. 2118 c.c. fino alla l. 15 luglio 1966, n.604 (5).

b) Lo Statuto dei lavoratori del 1970 si pone in linea di continuità con la legge n. 604/1966, non la sostituisce integralmente ma ne mantiene l'impianto sostanziale, tenendo fermi i concetti di giusta causa e giustificato motivo, soggettivo e oggettivo come recepito dall'art. 3, nonché l'incidenza dei vizi procedurali sulla efficacia del licenziamento.

L'elemento di novità, questo sì di portata rivoluzionaria, riguarda l'apparato rimediale: in presenza di determinati requisiti (primo fra tutti quello dimensionale), la stabilità cosiddetta obbligatoria – e variamente definita dalla dottrina più sensibile agli interessi dei lavoratori come «surrogato obbligatorio della stabilità», o come semplice «ipotesi, un modo d'essere della libera recedibilità», limitata in modo solo indiretto attraverso l'imposizione di un «balzello per il suo abuso» (6) - cede il passo alla «stabilità reale», con la previsione della reintegrazione nel posto di lavoro.

Sicché, mentre la tutela obbligatoria rimane confinata ai dipendenti di imprese fino a quindici dipendenti, (ovvero fino a cinque per gli imprenditori agricoli) per i quali, in caso di licenziamento illegittimo, c'è l'obbligo del datore di lavoro di riassumere il lavoratore licenziato entro tre giorni, «o in mancanza, risarcire il danno versandogli un'indennità» (7), l'art. 18 diventa il centro di un nuovo sistema.

La reintegrazione diventa l'unica sanzione e produce, come segnalato da autorevole dottrina, un immediato effetto di semplificazione, confinando nel mero dogmatismo concettuale l'operazione di qualificazione del recesso in termini di nullità, invalidità o annullabilità (8): la rimozione con effetti ex tunc del licenziamento e la sopravvivenza del rapporto quali conseguenze dirette della reintegrazione incidono inevitabilmente anche sulla natura del vizio, rendendo il licenziamento invalido e/o annullabile, laddove per l'art. 8 della legge n. 604/1966 il licenziamento ingiustificato, per essendo illecito, rimane ciò nonostante valido.

La sanzione è chiaramente descritta nella parte finale del primo comma e nel secondo comma e può essere così scandita: a) a fronte di un licenziamento nullo, annullabile, inefficace o illegittimo il giudice ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto da cui fu estromesso; b) il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito per effetto del licenziamento illegittimo; c) in ogni caso, la misura di tale risarcimento non può essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione determinata secondo i criteri di cui all'art. 2121del codice civile; d) il datore che non ottemperi all'ordine del giudice deve, dalla data della sentenza, retribuire il lavoratore fin quando dura il rapporto; e) nell'ottemperanza del datore di lavoro, il rapporto si risolve se il lavoratore non riprende servizio entro trenta giorni (9).

c) Con la legge 11 maggio 1990, n. 108 (10), il legislatore interviene sull'art. 18, sostituendo i primi due commi con una nuova formulazione e arricchendolo di ulteriori commi con i quali si disciplina con maggiore chiarezza l'ambito soggettivo di applicazione dell'art. 18, sia sotto il profilo strettamente dimensionale sia con riguardo alla qualità del datore di lavoro, che può essere anche non imprenditore (commi 1, 2 e 3); si introduce inoltre la indennità sostitutiva della reintegrazione (comma 5).

Dal punto di vista dei rimedi, la novella riscrive la parte della norma relativa alla tutela patrimoniale e, senza una palese ragione - tanto da dar vita, come è stato scritto, ad «un mezzo enigma» - elimina la distinzione, contenuta invece nel vecchio testo, tra il «prima» della sentenza, sottoposto al regime del risarcimento del danno, e il «dopo» la sentenza, sottoposto al regime dell'adempimento dell'obbligo retributivo, rafforzato dalla funzione anche comminatoria della retribuzione. Il sistema diventa unitariamente risarcitorio, coprendo l'area dei danni sia relativi al passato, che va dal licenziamento al momento della sentenza, sia successivi e meramente eventuali, ossia collegati all'inottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di reintegrazione.

In ogni caso, la tutela indennitaria viene a snodarsi in modo non dissimile dalla versione originaria nei seguenti punti: a) liquidazione definitiva dei danni prodottisi dal licenziamento fino al momento dell'emanazione della sentenza; b) liquidazione preventiva di un danno eventuale (più che futuro) per il caso di inosservanza dell'ordine di reintegrazione. Quanto alla unità di misura di questa indennità, il legislatore ne specifica il parametro collegandolo alla «retribuzione globale di fatto» (11).

L'apparato delle tutele lato sensu indennitarie si completa con la previsione della condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione (comma 4), e ciò a conferma della continuità de iure del rapporto di lavoro.

Rimane comunque fermo «il principio cardine» della tutela reale: il licenziamento invalido non interrompe il rapporto de iure, ma ne impedisce la funzionalità de facto (12): ciò che muta «è la tecnica di tutela alla quale è affidato il riequilibrio patrimoniale del lavoratore (non più risarcitoria prima e retributiva dopo, ma unitariamente risarcitoria, sia pure con deviazioni rispetto al diritto comune)» (13).

Il legislatore ribadisce che l'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro resta il contenuto primario della sentenza che accerta l'invalidità del licenziamento (art. 18, comma 1).

La legge 28 giugno 2012, n. 92 (cosiddetta legge «Fornero») e il catalogo delle sanzioni

Questo assetto normativo è rimasto invariato fino alla legge 28 giugno 2012, n. 92, entrata in vigore il 18 luglio 2012.

Nel dichiarato intento di realizzare un mercato del lavoro «inclusivo e dinamico», in grado di contribuire alla creazione dell'occupazione nonché alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione, il legislatore è intervenuto sulla disciplina del licenziamento per adeguarla «contestualmente alle esigenze del mutato contesto di riferimento» (art. 1, comma 1, lett. c).

Il comma 42 dell'art. 1 della legge n.92/2012 riscrive l'art.18 a partire dalla assai significativa sostituzione della rubrica, che da «Reintegrazione nel posto di lavoro» si trasforma nella formula più generica e onnicomprensiva di «Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo».

L'intero impianto normativo ne risulta modificato, non solo sotto il profilo delle tutele bensì anche sotto quello delle regole: giacché, se formalmente non si interviene sulla classica tripartizione (la «trilogia») dell' art. 18 già contenuta nella legge n. 604/1966 (licenziamento discriminatorio, licenziamento inefficace per ragioni formali e procedimentali, licenziamento ingiustificato) (14), è altrettanto vero che il tipo di vizio e la sua gravità danno luogo ad ipotesi sostanziali diversificate, cui sono correlate sanzioni variamente graduate (15).

La reintegrazione, da sanzione tipica con funzione anche comminatoria e dissuasiva nei confronti del datore di lavoro, volta a garantire la continuità del rapporto in caso di licenziamento nullo, inefficace o illegittimo, o intimato in violazione delle regole procedurali, degrada a rimedio per le sole ipotesi più gravi di invalidità.

Almeno ad una prima lettura, la norma capovolge quel rapporto di regola-eccezione tra tutela reale e tutela obbligatoria che caratterizzava il testo originario dell'articolo 18 (16) e riduce drasticamente l'area coperta dalla tutela reale, in una vera e propria “torsione” del diritto del lavoro in senso prevalentemente economico: l'obiettivo dichiarato, come enunciato nel comma 1 dell'art. 1, è aumentare l'occupazione, garantire alle imprese maggiore flessibilità «in uscita», consentire l'esatta definizione del firing cost (17).

Il sistema delle sanzioni previsto dall'art. 18, nel nuovo testo, può così riassumersi:

1) la tutela reale «classica», o «reintegrazione ad effetti risarcitori pieni» (18) (art. 18, commi 1, 2 e 3), che prevede, oltre alla reintegra, il risarcimento integrale dei pregiudizi previdenziali e dei danni patrimoniali subiti nel cosiddetto «periodo intermedio», che intercorre dal licenziamento sino alla effettiva reintegra (e, comunque, non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, con variazioni circa l'indennità sostitutiva della reintegrazione e la detraibilità dall'indennità risarcitoria dell'aliunde perceptum) ed è applicabile: a) ai licenziamenti discriminatori, b) ai licenziamenti intimati in violazione delle norme a tutela del matrimonio delle lavoratrici, della maternità e paternità, c) ai licenziamenti per «motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile» (19), d) ai licenziamenti nulli per altre ragioni di contrarietà alla legge e, infine, e) ai licenziamenti privi di forma scritta (comma 1). Per espressa previsione normativa, tale disposizione si applica anche ai dirigenti; sotto l'aspetto previdenziale, il datore di lavoro è condannato al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo compreso tra il giorno del licenziamento e quello dell'effettiva reintegrazione;

2) una tutela reale ridotta o «reintegrazione ad effetti risarcitori limitati», che prevede, oltre alla reintegra, il pagamento di un'indennità risarcitoria non superiore a dodici mensilità per il «periodo intermedio» (art. 18, comma 4) (20) (con una diversa rilevanza delle detrazioni, estese anche all'aliunde percipiendum) ed è applicabile: a) ai licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo (cioè disciplinari) se il «fatto contestato» e posto a loro fondamento sia risultato insussistente, ovvero b) ai licenziamenti intimati per infrazioni punite dalla contrattazione collettiva o dai codici disciplinari con sanzioni solo conservative; c) ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore; d) ai licenziamenti intimati in violazione dell'art. 2110c.c. in tema di malattia e infortunio; e) ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo legato a scelte dell'impresa se il giudice accerti la «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» (comma 7).

Sotto l'aspetto previdenziale e assistenziale, il lavoratore mantiene il diritto alla contribuzione, ma subisce una decurtazione pari al differenziale esistente tra la contribuzione che sarebbe maturata nel rapporto di lavoro colpito dall'illegittimo il licenziamento e quella accreditata dopo licenziamento, nel caso in cui egli abbia svolto altra attività lavorativa nel periodo intermedio, ossia prima della reintegrazione. Un'ulteriore differenza rispetto alla tutela reintegratoria cosiddetta classica o forte consiste nelle decurtazioni che subisce l'indennità, dovendosi dalla stessa detrarre non solo quanto il lavoratore abbia di fatto percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative nel periodo di estromissione bensì anche quello che avrebbe potuto percepire ove si fosse dedicato, con diligenza, alla ricerca di una nuova occupazione. All'aliunde perceptum già previsto per il caso di tutela reintegratoria piena si affianca, dunque, l'aliunde percipiendum (art. 1227, comma 2, cod. civ.) (21);

3)una tutela solo indennitaria (stante la risoluzione giudiziale del rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento) cosiddetta «forte» (in ragione dell'entità dell'indennità) compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità di retribuzione nelle «altre ipotesi», diverse da quelle suindicate, di licenziamento disciplinare e di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (comma 5 e 7);

4) una tutela solo indennitaria (stante la risoluzione del rapporto) cosiddetta «debole» (sempre in ragione dell'entità della indennità) costituita da una somma compresa fra le sei e le dodici mensilità a) per i licenziamenti inefficaci per mancanza di motivazione ai sensi dell'articolo 2 della legge n. 604/1966, b) per violazione della procedura disciplinare ovvero 3) della procedura di conciliazione preventiva nel caso di giustificato motivo oggettivo (comma 6).

Si tratta di un catalogo assai composito, in cui compaiono, oltre ai tradizionali vizi della nullità, annullabilità e inefficacia del licenziamento, fattispecie prima non espressamente contemplate nella legge del 1966 e nello stesso Statuto dei lavoratori, come ad esempio il licenziamento della lavoratrice madre e la nullità derivante da illiceità del motivo determinante: l'obiettivo evidente del legislatore è quello di ricondurre ad unità, sotto un'unica norma cardine, le varie ipotesi di nullità-illegittimità-inefficacia dei licenziamenti. Obiettivo, tuttavia, non perfettamente riuscito in considerazione della pluralità di sanzioni e, soprattutto, della frammentazione delle ipotesi sostanziali alle quali tali sanzioni debbono trovare applicazione.

L'art. 18 ha abbandonato il ruolo centrale che indubbiamente svolgeva quale modello unitario di tutela reintegratoria e risarcitoria per tutti i possibili vizi inficianti il licenziamento ed è diventato un modello a geometrie variabili, costruito secondo criteri di gradualità, in relazione, anzitutto, alle diverse, possibili ragioni, o «causali» del licenziamento illegittimo: è una gradualità non solo meramente quantitativa bensì anche qualitativa, commisurata non solo alla colpa del lavoratore ma anche alla maggiore o minore «scusabilità dell'errore» del datore (22): con la conseguenza che in caso di errore inescusabile, come nel caso del licenziamento discriminatorio o del licenziamento nullo, la sanzione sarà massima, ossia la reintegrazione; in caso di scusabilità media, come per il licenziamento disciplinare, quando il fatto contestato sia insussistente o riconducibile ad una sanzione conservativa secondo le previsioni del contratto collettivo, la sanzione sarà media, ossia la reintegrazione attenuata o depotenziata; in caso di scusabilità massima, per la difficoltà di individuare il complesso fattuale idoneo a sorreggere il licenziamento per ragioni economiche, la tutela sarà meramente economica (23).

Occorre ora analizzare partitamente le ipotesi previste dal legislatore.

La reintegrazione «piena»

La reintegrazione nel posto di lavoro, secondo lo schema già delineato dal testo originario dell'art. 18, accompagnata dall'integrale risarcimento del danno subito dal lavoratore, è mantenuta per le patologie di recesso più gravi, riconducibili alla categoria della nullità, come appunto il licenziamento discriminatorio (art. 3 della legge n. 108/1990), il licenziamento concomitante con il matrimonio (art. 35, d.lgs. n. 108/1996), il licenziamento intimato in violazione dei divieti posti dalla normativa su maternità e paternità (art. 54, commi 1,6,7 e 9, d.lgs. n. 151/2001), il licenziamento determinato da un motivo illecito «ai sensi dell'art. 1345 c.c.» e il licenziamento altrimenti nullo per previsione di legge. In tutti questi casi la tutela è piena, qualunque sia il numero dei dipendenti occupati del datore di lavoro e si applica anche ai dirigenti.

Nell'ambito della tutela reintegratoria «piena», applicabile a prescindere dal requisito dimensionale, deve essere inserito anche il licenziamento intimato in mancanza di forma scritta, che il legislatore continua a qualificare come inefficace («Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale»: comma 1, ultima parte): benché il riferimento al (la irrilevanza del) numero dei dipendenti sia testualmente ricollegato dal legislatore alle ipotesi di nullità, l'inclusione del licenziamento orale nel primo comma e la sua espressa sottoposizione al «regime» appena enunciato della reintegrazione (24), nonché la contemporanea previsione di una tutela diversa (quella indennitaria «debole»), prevista nel sesto comma per le (altre) ipotesi di inefficacia, inducono a ritenere applicabile la reintegrazione nelle forme dell'art. 18, sì da eliminare ogni differenza con la precedente disciplina prevista dalla legge n. 604/1966 e la conseguente inapplicabilità delle regole di diritto comune (25). Le ragioni di tale scelta vanno individuate nell'estremo sfavore con cui il legislatore guarda al recesso orale, alla stregua di un atto inesistente, lì dove invece sono in gioco vicende e diritti di particolare rilevanza per i quali è necessario un requisito sacramentale che dia certezza e pienezza di significato all'atto compiuto (26).

In complesso la tutela reintegratoria piena mira a garantire al massimo grado la posizione del lavoratore nel caso di licenziamento che abbia inciso, pregiudicandoli, sui diritti fondamentali del lavoratore (27).

L'accertamento (rectius la dichiarazione) giudiziale della nullità produce l'effetto di impedire l'estinzione del rapporto, e ciò anche ai fini previdenziali e assistenziali, che non subiscono decurtazione di sorta.

La reintegrazione «attenuata»: a) le ipotesi di nullità riconducibili alle condizioni psicofisiche del lavoratore; b) il licenziamento disciplinare; b1) la «insussistenza» o «manifesta insussistenza» del fatto contestato; b2) il fatto rientrante tra le condotte punibili con sanzione conservative dai contratti collettivi o dai codici disciplinari; b3) la posizione della giurisprudenza di legittimità; c) il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

a) La tutela reintegratoria viene assicurata anche nell'altra ipotesi, riconducibile secondo gran parte della dottrina alla categoria delle nullità (28), del licenziamento intimato in violazione delle norme sulla tutela del lavoratore disabile per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero in violazione dell'art. 2110 c.c. (comma 7, che rinvia al comma 4): in tal caso il risarcimento del danno, come si è detto, è limitato a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto (reintegrazione «attenuata»). Per il vero, il legislatore assimila queste ipotesi alla mancanza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa prevista nel comma 4 dello stesso art. 18, sicchè, stando al tenore letterale di quest'ultima disposizione, dovrebbe piuttosto parlarsi di cause di annullamento del recesso. La discussione è perlopiù accademica, dovendosi peraltro rilevare che l'opzione del legislatore per la illegittimità-annullamento non sembra incoerente con i principi generali, ben potendo l'ordinamento riservare al negozio in violazione di norme imperative una sanzione diversa dalla nullità (art. 1418, comma 1, cod.civ.) (29).

b) La tutela reintegratoria «attenuata» è prevista anche nel caso di licenziamento intimato in mancanza di giustificato motivo soggettivo o di giusta causa, ossia di illegittimità del licenziamento cosiddetto disciplinare (30). Qui, la disciplina contenuta nel comma 4 si fa più articolata perché prevede una diversa graduazione delle sanzioni in funzione della maggiore o minore divergenza del recesso dalla fattispecie legale tipica prevista dal legislatore.

I casi previsti sono due e sono tra essi alternativi, come induce a ritenere l'uso della disgiuntiva «ovvero» (31): a) l'insussistenza del fatto contestato; b) la sussumibilità del fatto contestato fra le condotte suscettibili di sanzioni solo conservative in base alle previsioni del contratto collettivo o del codice disciplinare. Fuori da questi casi, il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo (soggettivo e oggettivo: v. comma 7), pur discostandosi dal modello normativo, dà luogo solo alla tutela indennitaria «forte», con l'effetto di escludere la pronuncia di nullità o l'annullamento del recesso, che pertanto rimane efficace e idoneo a risolvere il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento.

Da subito la norma ha mostrato la sua ambiguità ove si ponga mente alla vaghezza dei concetti di «insussistenza del fatto contestato», che riecheggia categorie penalistiche, per quanto riguarda la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo, e di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» per il giustificato motivo oggettivo.

Le posizioni della dottrina oscillano tra quanti reputano che il concetto di «insussistenza del fatto contestato» ricomprenda le sole ipotesi in cui il datore di lavoro ha «torto marcio» (32), ossia di licenziamenti «fondati sul nulla», e quanti, invece, optano per una visione più ampia del «fatto contestato», includendovi l'imputabilità, il nesso di causalità, la rilevanza e gravità sotto il profilo dell'adempimento degli obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, fino a ricomprendere l'intero contesto «multifattoriale» che il giudice esamina al fine di valutare la legittimità o non del licenziamento.

Una tesi intermedia, che sembra trovare il favore della giurisprudenza di legittimità, è invece quella che, valorizzando l'espressione “fatto contestato” e leggendo la disposizione nella sua interezza, anche con riferimento all'ipotesi successiva, connessa alle previsioni della contrattazione collettiva, lo riconduce all'inadempimento, perché solo un inadempimento può essere sanzionato con un rimedio conservativo, previsto dal codice disciplinare, collettivo o datoriale (33) .

Ma le ambiguità di fondo non sono solo legate al concetto di insussistenza del fatto, riguardando anche l'esegesi della seconda parte del comma 4, nonché l'inestricabile rapporto tra accertamento del fatto e giudizio di proporzionalità, secondo quanto dispone l'art. 2106 cod. civ.

I limiti del presente contributo non consentono una disamina specifica di queste problematiche, delle quali ci si limiterà ad illustrare solo i più recenti approdi.

b1) La «insussistenza» del fatto contestato.

Come è stato osservato, il comma 4 dell'art. 18, cui fa da pendant per quanto riguarda il giustificato motivo oggettivo il comma 7, non incide direttamente sulla nozione di giusta causa o giustificato motivo, ma attraverso il riferimento alla insussistenza del fatto, manifesta nel caso di carenza di ragioni oggettive, ne dà una connotazione particolare, tanto da giustificare l'espressione «ingiustificatezza qualificata» (34), l'accertamento della quale implica valutazioni largamente discrezionali del giudice.

Sulla insussistenza del fatto contestato, la tesi del «fatto materiale», pure sostenuta nell'immediatezza dell'entrata in vigore della legge da autorevole dottrina ed enunciata, sia pure a livello di obiter dictum dalla Corte di cassazione (35), ha da subito offerto il fianco a critiche serrate, fondate essenzialmente sugli effetti paradossali a cui una siffatta tesi condurrebbe: limitare la tutela reintegratoria al solo caso, peraltro difficilmente riscontrabile nella realtà fenomenica, della totale assenza del fatto «materiale» porterebbe ad escludere la tutela reale per il lavoratore anche a fronte di licenziamenti meramente pretestuosi o «imbastiti sul nulla, o su grossi equivoci più o meno imputabili al datore di lavoro» (36), come il ritardo di pochi minuti, o il mancato saluto al superiore o il danneggiamento incolpevole o addirittura il fatto esistente nella sua materialità ma non commesso dal lavoratore licenziato.

Il «fatto» deve dunque intendersi come «fatto giuridico in senso proprio», comprensivo anche del momento valutativo, coincidente con l'inadempimento (37).

In questi termini si è espressa la giurisprudenza più recente secondo cui l'insussistenza del fatto, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare (38). In tal caso, la tutela da applicare è quella dettata dal comma 4 dell'art. 18 (39).

La chiarezza dell'enunciato non vale, tuttavia, ad annullare le difficoltà insite nell'in sé dell'accertamento sulla sussistenza-insussistenza del fatto, sia perché il fatto difficilmente è isolabile dal momento valutativo (si pensi al licenziamento intimato per assenza del lavoratore, assenza di per sé anodina se non si rapporta alla mancanza di giustificazioni, o al licenziamento intimato per lo svolgimento di attività extra lavorativa in costanza di malattia, che implica una serie di valutazioni circa l'incidenza dell'attività extra sulle possibilità e sui tempi di guarigione), sia perché è possibile che il fatto contestato sia scomponibile in più segmenti fattuali o siano plurimi i fatti contestati, ciascuno dei quali - segmento e fatto - richiederà un giudizio in termini di essenzialità rispetto alla costruzione della fattispecie (40).

Non di rado, inoltre, è lo stesso addebito disciplinare a richiedere un elemento valutativo quale componente essenziale dell'infrazione. Al riguardo merita di essere segnalata la sentenza della Corte di cassazione 13 ottobre 2015, n. 20545, in cui, a fronte della previsione del contratto collettivo, che comminava il licenziamento senza preavviso per il lavoratore che avesse provocato all'impresa grave nocumento morale o materiale, si è affermato che tale «nocumento grave» è parte integrante della fattispecie di illecito disciplinare sicché l'accertamento della sua mancanza determina la insussistenza del fatto addebitato al lavoratore, prevista dall'art.18 1. n. 300 del 1970, modif. dall'art.1, comma 42, 1. 28 giugno 2012 n.92, quale elemento costitutivo del diritto al ripristino del rapporto di lavoro (41) .

Nella «insussistenza del fatto contestato» di cui all'art. 18, comma 4, st.lav. novellato deve altresì includersi l'ipotesi della mancanza di prova della commissione del fatto controverso da parte del lavoratore, prova che grava sul datore di lavoro ex art. 5 della l. n. 604 del 1966 (42).

Può comunque darsi per acquisita, in linea di principio, l'equivalenza tra l'irrilevanza disciplinare del fatto e l'insussistenza del fatto, ai fini della reintegrazione ai sensi del comma 4 dell'art. 18, come riformulato dalla legge Fornero.

b2) Il fatto rientrante tra le condotte punibili con sanzione conservative dai contratti collettivi o dai codici disciplinari.

La reintegrazione cosiddetta «attenuata» è prevista anche per il caso in cui il fatto contestato è contemplato nei contratti collettivi ovvero nei codici disciplinari ed è sanzionato con una misura conservativa.

La disposizione trova il suo immediato antecedente nell'art. 30, comma 3, della legge n. 183/2010, cosiddetto «collegato lavoro», il quale prevede che, nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice deve tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, nonché nei contratti individuali certificati.

La norma, la cui ambiguità non può essere sottaciuta, è stata generalmente interpretata nel senso che essa non interferisce con i concetti di giusta causa e giustificato motivo come delineati dal legislatore, rispetto ai quali sarebbe inammissibile una deroga in peius da parte dei contratti collettivi, né annulla la discrezionalità del giudice nell'accertamento della sussistenza dei presupposti del licenziamento: essa, piuttosto, attribuisce ai contratti collettivi la funzione di orientare il giudice nel fissare i contenuti delle nozioni di giusta causa e di giustificato motivo, fungendo da parametro per la individuazione degli standard sociali di riferimento (43) e imponendo al giudice solo l'obbligo di motivare il suo discostamento rispetto alla previsione negoziale.

Questa interpretazione è senz'altro rispondente alla giurisprudenza di legittimità formatasi anche prima del collegato lavoro, secondo cui la valenza meramente esemplificativa delle previsioni dei contratti collettivi trova come unico limite il caso in cui esse prevedano per una determinata condotta una sanzione meno grave rispetto al licenziamento, dovendosi in tal caso escludere che il datore di lavoro possa irrogare un licenziamento per giusta causa secondo la nozione di cui all'art. 2119 cod. civ. (44).

Fuori da questo caso, quindi, la tipizzazione negoziale non è vincolante per il giudice ma vale ad esprimere la scala assiologia voluta dalle parti sociali (45).

Il comma 4 dell'art. 18, nella parte in commento, dà veste normativa a questi approdi giurisprudenziali e, attraverso l'uso di una formula più selettiva rispetto al comma 3 dell'art. 30 legge n. 183/2010, vincola il giudice alla previsione della contrattazione collettiva nel caso in cui essa, per quel determinato fatto addebitato al lavoratore e sanzionato con il licenziamento, preveda una sanzione conservativa.

Teoricamente, ma in un'ottica tanto riduttiva quanto poco probabile, l'operazione demandata al giudice sarebbe quella, né più né meno, di sussumere il fatto contestato al lavoratore nella previsione astratta della contrattazione collettiva e di riconoscere la reintegrazione solo nel caso in cui, per quel fatto così come specificamente contestato, le parti sociali abbiano previsto una misura conservativa.

Nella prassi, invece, proprio quest'operazione mostra in tutta la sua problematicità l'inestricabile nesso che intercorre tra l'accertamento del fatto «nudo e crudo» e il suo momento valutativo in termini di gravità della condotta e di proporzionalità della sanzione, al fine del corretto inquadramento nelle previsioni negoziali.

Non è raro, invero, che le disposizioni in questione facciano riferimento a concetti astratti, come «grave nocumento morale e materiale», «grave insubordinazione», «pregiudizio alla incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti», o espressioni ancor più late riferibili a condotte che «non siano così gravi da rendere applicabili» sanzioni più incisive, sicché ancor più ineludibile è il coinvolgimento di giudizi valoriali (46).

Ma la formula «perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa» mostra tutta la sua genericità, ove si ponga mente non solo alle tecniche di redazione dei codici disciplinari ma anche (e, si direbbe, soprattutto) alla elementare considerazione che nella realtà fenomenica difficilmente un accadimento si presenta perfettamente sovrapponibile ad un altro.

E allora, se non vi è dubbio che il giudice debba escludere la legittimità del licenziamento e ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nel caso di «integrale coincidenza tra la fattispecie astratta prevista dal contratto collettivo o dal codice disciplinare applicabile e la fattispecie concreta costituita dal “fatto contestato”, - il tutto nel quadro di un procedimento logico di sussunzione per identità e non per approssimazione» (47) -, dubbi sorgono nel caso in cui il fatto abbia un tasso di specificità suo proprio, nel senso che non può dirsi identico a quello descritto nel contratto collettivo o nel codice disciplinare, ma a questo assomigli fortemente.

Secondo una parte autorevole della dottrina, la formula del comma 4 dell'art. 18, per la sua chiarezza, si riferisce alle sole ipotesi in cui vi sia totale sovrapponibilità tra il fatto contestato e quello per il quale il contratto collettivo o il codice disciplinare prevede la sanzione conservativa, senza alcun margine per interpretazioni estensive o analogiche (48). Diversamente, il giudice potrà dichiarare illegittimo il licenziamento ma non potrà disporre la reintegra, dovendosi ritenere che il giudizio di proporzionalità in concreto sia fuori dal perimetro della «sussistenza del fatto». In definitiva, la norma in oggetto riserverebbe la tutela reintegratoria alle sole ipotesi nelle quali il datore di lavoro abbia disposto il licenziamento, per una determinata infrazione, là dove invece valutazioni assolutamente affidabili dell'autonomia collettiva avrebbero condotto, per la medesima infrazione, all' applicazione di una sanzione solo conservativa.

Altra parte della dottrina ritiene, invece, ammissibile l'interpretazione estensiva richiamando i criteri di ermeneutica contrattuale previsti dagli artt. 1362-1371 c.c., ed in particolare il canone di cui all'art. 1365 c.c., secondo cui «quando in un contratto si è espresso un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi, ai quali, secondo ragione, può estendersi lo stesso patto» (49).

A giustificazione dell'interpretazione estensiva o analogica si è anche richiamato il giudizio di proporzionalità di cui all'art. 2106 c.c., quale potere intrinseco del giudice che non può essere pretermesso a fronte di previsioni della contrattazione collettiva non esaustive o formulate con clausole generiche (50).

Il risultato cui si perviene è che le misure conservative previste dalle norme collettive troveranno applicazione anche a fattispecie concrete non immediatamente prese in considerazione dalla declaratoria contrattuale, con conseguente illegittimità del licenziamento e applicazione della tutela reintegratoria cosiddetta attenuata (51).

Del resto, si è osservato nella giurisprudenza di merito (52), l'uso del sostantivo «previsioni» in luogo di «tipizzazioni» dei contratti collettivi è indicativo della volontà del legislatore di attribuire alle parti sociali la facoltà di scegliere, nella redazione dei codici disciplinari, formule più o meno elastiche, e anche clausole generali, a fronte delle quali la riconduzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta non può che essere compiuta dal giudice nella sua normale e ordinaria attività di sussunzione, connotata da una discrezionalità più o meno ampia, inevitabile se non a costo di rinnegare la funzione tipica del giudice (53).

Una soluzione che sembra intermedia è quella che invece ritiene operante anche in tal caso un doppio regime, incentrato sul principio di proporzionalità, e che vuole assoggettare alla tutela reintegratoria soltanto i licenziamenti palesemente sproporzionati (quelli facilmente conoscibili ex ante come tali, ivi inclusi quelli abnormi), ed escludere i licenziamenti nel caso di sproporzione valutabile soltanto ex post, dovuta cioè all'accertamento postumo di una minore intensità dell'elemento soggettivo o alla valutazione di ulteriori elementi (54).

b3) La posizione della giurisprudenza di legittimità.

La giurisprudenza della Corte di cassazione che fin qui si è espressa sembra sposare la tesi più rigorosa.

È stato infatti affermato che, in tema di licenziamento disciplinare, ove la condotta addebitata al lavoratore abbia un pari disvalore disciplinare rispetto a quelle punite dal contratto collettivo con sanzione conservativa ma non rientri tra queste ultime, al giudice è precluso applicare la tutela reintegratoria, giacché, nel regime introdotto dalla legge n. 92/2012, tale tutela costituisce l'eccezione alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria e l'art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970 suppone l'abuso consapevole del potere disciplinare. Ma questo abuso, perché sia configurabile, implica a monte una conoscenza chiara e preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo, derivante o dalla insussistenza del fatto contestato o dalla chiara riconducibilità della condotta tra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore. Tuttavia, se il giudice ritiene che tale condotta non costituisca comunque giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, utilizzando la graduazione delle infrazioni disciplinari articolate dalle parti collettive come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale, ai sensi dell'art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 183 del 2010, potrà dichiarare illegittimo il recesso e, risolto il rapporto di lavoro, applicare la sola tutela indennitaria prevista dall'art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970 (55).

Si tratta di un approdo cui si è attenuta, sia pur con sfumature diverse, la giurisprudenza successiva.

Sempre in tema di licenziamenti disciplinari si è anche affermato che, nell'ipotesi in cui un comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato dal contratto collettivo come infrazione disciplinare cui consegua una sanzione conservativa, il giudice non può discostarsi da tale previsione (trattandosi di condizione di maggior favore fatta espressamente salva dall'art. 12 della l. n. 604 del 1966), a meno che non si accerti che le parti stesse «non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva» (56).

Il giudice, per considerare sussistente una simile evenienza, è tenuto ad interpretare il contratto collettivo tenendo presenti le conseguenze volute dalle parti con l'elencazione esemplificativa dei casi menzionati e quindi a verificare se sia possibile ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell'esemplificazione attenendosi, nel compimento di tale operazione ermeneutica, al generale criterio di ragionevolezza nonché al criterio di stretta interpretazione che governa il rapporto regola-eccezione. Se, a compimento di tale operazione ermeneutica, il giudice perviene alla conclusione che la previsione di fonte negoziale non può considerarsi, in concreto, vincolante per il datore di lavoro, perché non tipizza in modo specifico la condotta del lavoratore ritenuta punibile con sanzione conservativa, allora l'irrogazione del licenziamento può considerarsi legittima (57).

I dubbi interpretativi sussistono anche con riguardo all'ipotesi in cui si accerti che il fatto non è contemplato dai codici disciplinari o dalla contrattazione collettiva o che, perfino, manchi un contratto collettivo o un codice disciplinare o essi non siano applicabili.

Le soluzioni riflettono i diversi approcci teorici su delineati.

Nel primo caso, se manca la espressa previsione, e non vi siano margini per (o si ritenga in linea di principio di non poter accedere a) un'interpretazione estensiva delle disposizioni esistenti, non vi sarà spazio per la reintegrazione attenuata del comma 4, ma solo per la tutela indennitaria forte (non potendosi attribuire al giudice il potere di comminare la sanzione conservativa per il principio di cui all'art. 7, comma 1, St. lav.) (58); non dissimile è la soluzione nel secondo caso, salva la possibilità di applicare il principio di cui all'art. 2106 cod. civ., eventualmente ricercando in contratti di settore analoghi un parametro di riferimento, alla stregua di quanto avviene per la giusta retribuzione ex art. 36 Cost. (59).

Il dibattito è destinato a spegnersi, perché il decreto legislativo n. 23 del 2015 ha eliminato ogni riferimento alla contrattazione collettiva ai fini dell'applicazione della tutela reintegratoria per i lavoratori assunti successivamente alla sua entrata in vigore.

Al contrario di quanto vale per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, alla sola condizione che tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.

c) Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La tutela reintegratoria attenuata trova applicazione anche nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nella cui sfera rientrano sia situazioni soggettive del lavoratore (v. supra) - come l'inidoneità fisica o psichica o il superamento del periodo di comporto cui deve equipararsi la malattia (60), o altre situazioni soggettive come la carcerazione preventiva o l'inidoneità professionale, che possono incidere sul « regolare funzionamento » dell' organizzazione del lavoro (61) -, sia quelle, classiche, determinate da scelte economiche e organizzative dell'impresa.

La tutela reintegratoria di cui al comma 4 è assicurata tout court alle prime, ed il regime più favorevole si piega perché «si tratta di situazioni di particolare debolezza del lavoratore» (62); alle seconde (e sulle quali ci si soffermerà per la loro maggiore problematicità), invece, questa tutela è assicurata solo nel caso «in cui si accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento»; diversamente, ove il licenziamento sia stato intimato in assenza degli estremi del motivo oggettivo (63) (assenza, sì, con ma «non manifesta»), il lavoratore riceverà tutela solo nelle forme indennitarie previste dal comma 5 dello stesso art. 18.

La linea di demarcazione tra la tutela reintegratoria attenuata e la tutela indennitaria c.d. «forte» è tracciata, anche stavolta, sulla base di un criterio non obiettivamente percepibile e oggettivo ma rimesso alla valutazione del giudice e deve anche rivestire i caratteri della palese evidenza, con ampi margini di opinabilità e incertezza. Opinabilità e incertezza che sono accentuate dall'uso del verbo «potere» con riferimento all'applicazione, da parte del giudice, della tutela reintegratoria, quasi che il legislatore abbia voluto rimettere la scelta della sanzione alla sua discrezionalità.

Come per il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, la norma non interviene sui presupposti sostanziali del licenziamento in esame, delineati dall' art. 3 della legge n. 604 del 1966, ed elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza nell'arco di un sessantennio, ma detta regole diverse per quanto riguarda le conseguenze del recesso esercitato in assenza di quei presupposti, reintroducendo quel sistema «binario» (64) già adottato per il licenziamento disciplinare.

Come era prevedibile, il dibattito si è incentrato essenzialmente sull'espressione «manifesta insussistenza» (65) e sull'ambito dell'indagine giudiziale da compiersi, se cioè essa debba riguardare solo le ragioni inerenti l'organizzazione o il funzionamento dell'azienda o anche l'obbligo di repêchage che il datore di lavoro deve assolvere.

La giurisprudenza ha da subito optato per questa seconda soluzione, affermando che la verifica del requisito della sussistenza del fatto posto a base del licenziamento deve riguardare entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (66).

Quanto alle prime, l'ipotesi più semplice è quella del licenziamento intimato per soppressione del posto di lavoro e si accerti in giudizio che soppressione non vi è stata, perché l'imprenditore ha proceduto ad assumere un nuovo dipendente, o quando si accerti la mancanza di un nesso causale tra il motivo addotto a fondamento del recesso e il licenziamento del singolo dipendente (67): si tratta di casi facilmente sussumibili nell'alveo di quella «particolare evidenza» richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto che giustifica la tutela reintegratoria attenuata.

Più problematici sono, invece, i casi in cui le ragioni inerenti all'attività produttiva o all'organizzazione del lavoro o al suo regolare funzionamento siano più complesse e i fatti siano strettamente connessi a valutazioni e scelte non ancora attuali o comunque destinate a produrre i loro effetti nel futuro. Anche in tal caso occorrerà un giudizio di sussistenza-insussistenza manifesta del fatto posto a fondamento del licenziamento, ossia delle circostanze concrete prese in considerazione dal datore di lavoro ai fini dell'adozione del diverso modulo organizzativo (si pensi ad un calo del fatturato, alla cessazione di un rapporto di fornitura, ad un progetto di automazione).

La valutazione della sussistenza-insussistenza del fatto dovrebbe estendersi non solo al collegamento causale tra il fatto organizzativo e la scelta di quel determinato lavoratore, ma anche al rispetto di criteri di scelta, in mancanza del quale - ed in analogia a quanto disposto per i licenziamenti collettivi (68) - l'illegittimità del licenziamento deve ritenersi sanzionabile con la reintegrazione.

L'indagine del giudice deve essere compiuta anche sull'adempimento dell'obbligo di repêchage, quale elemento costitutivo della fattispecie del licenziamento per motivi economici, con la conseguenza che, in caso di accertata sua manifesta insussistenza, la tutela sarà quella reintegratoria di cui al comma 4 dell'art. 18 novellato (69).

Il riferimento al piano probatorio cui allude la norma induce a ritenere che la manifesta insussistenza ricorra nel caso in cui il datore di lavoro non abbia assolto affatto l'onere, su di lui imposto ai sensi dell'art. 5 della legge n. 604/1966, di provare i presupposti del licenziamento in esame, e ciò indipendentemente e a prescindere dall'assolvimento, da parte del lavoratore, degli oneri di allegazione circa le possibilità di un suo effettivo ricollocamento nell'azienda; per contro una «insufficienza probatoria» esclude che possa ricorrere il requisito della «manifesta insussistenza».

In tal senso si è espressa la Corte di cassazione secondo cui «l'insufficienza probatoria in ordine all'adempimento dell'obbligo di repêchage non è sussumibile nell'alveo della manifesta insussistenza del fatto, contemplata dall'articolo 18, comma 7, St.lav., che va riferita solo ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei presupposti di legittimità del recesso» (70).

Un cenno merita pure la questione relativa alla obbligatorietà o meno dell'ordine di reintegra. La formula della norma, nella parte in cui dispone che il giudice «può altresì applicare la predetta disciplina» - ossia quella prevista dal comma 4 dell'art. 18 - nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si è rivelata da subito ambigua e ha diviso gli interpreti tra quanti ritengono che il verbo «può» deve essere inteso come un «deve» (71) e quanti invece optano per un potere discrezionale del giudice, segnato dal limite dell'eccessiva onerosità.

Si è infatti affermato che, nel caso in cui si accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, il giudice «può scegliere di applicare la tutela reintegratoria di cui al comma 4 del medesimo art. 18, salvo che, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, tale regime sanzionatorio non risulti incompatibile con la struttura organizzativa dell'impresa e dunque eccessivamente oneroso per il datore di lavoro; in tal caso, nonostante l'accertata manifesta insussistenza di uno dei requisiti costitutivi del licenziamento, potrà optare per l'applicabilità della tutela indennitaria di cui al comma 5» (72).

In realtà, come è stato osservato, il contrasto è più apparente che reale dovendosi ritenere che «pacifico che l'impossibilità di eseguire l'ordine giudiziale libera il debitore e che l'attuale nozione, relativa e non assoluta, di impossibilità della prestazione ne sfuma il confine con l'eccessiva onerosità, resta il dovere del giudice di ordinare la reintegra, salvo che essa si riveli impossibile o eccessivamente onerosa» (73).

Conclusivamente, la tutela reintegratoria attenuata costituisce la sanzione tipica per i casi in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per insussistenza del fatto contestato, ovvero perché il fatto rientra tra condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dai codici disciplinari, in caso di difetto di giustificazione del licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica del lavoratore, nonché in violazione dell'art. 2110, secondo comma, codice civile, e, infine, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per la manifesta insussistenza del fatto posto a base.

In ogni altro caso in cui si accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa o del giustificato motivo oggettivo, la tutela sarà solo quella indennitaria «forte», con esclusione della reintegrazione ed il rapporto di lavoro deve ritenersi in ogni caso risolto con effetti dalla data del licenziamento (74).

Note

(1) Così Pera, Prime riflessioni sulla nuova disciplina del licenziamento individuale, in Quaderni di scienze sociali, 1966, n. 166 e 168.

(2) V. Mancini, in Gezzi, Mancini, Montuschi e Romagnoli, in Statuto dei diritti dei lavoratori, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Libro quinto, Bologna-Roma, 1972, p. 251.

(3) Così Zangari, voce Licenziamento, in Enc. Dir., XXIV, Milano, 1974, p. 654.

(4) Corte Cost. 7 febbraio 2000, n. 46, in Foro it., 2000, I, p. 699, pronunciandosi sull'ammissibilità del referendum abrogativo dell'art. 18 st. lav., ha affermato che « l'eventuale abrogazione della c.d. tutela reale avrebbe il solo effetto di espungere uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro, che risulta ricondotta, nelle discipline che attualmente vigono sia per la tutela reale che per quella obbligatoria, al criterio di fondo della necessaria giustificazione del licenziamento. Né, una volta rimosso l'art. 18 della legge n. 300 del 1970, verrebbe meno ogni tutela in materia di licenziamenti illegittimi, in quanto resterebbe, comunque, operante nell'ordinamento, anche alla luce dei principi desumibili dalla Carta sociale europea, ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30, la tutela obbligatoria prevista dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificata dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, la cui tendenziale generalità deve essere qui sottolineata».

(5) Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all'art. 18 Statuto dei Lavoratori, in Riv.it. dir.lav., 2012, p. 415.

(6) Mancini, op. cit., p.249.

(7) Da un minimo di cinque ad un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione, avuto riguardo alla dimensione dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro e al comportamento delle parti.

(8) Pera, Le controversie in tema di sanzioni disciplinari, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1971, p. 1286 e ss.

(9) Mancini, op. cit., p. 264.

(10) V. in dottrina, i contributi pubblicati in Foro it., 1990, V, p. 338 ss. In particolare De Luca, Campo di applicazione delle «tutele» e giustificazione dei licenziamenti in La nuova disciplina dei licenziamenti individuali (legge 11 maggio 1990 n. 108), in Foro it., 1990, V, p. 338; d'antona, La reintegrazione e il risarcimento del danno, Id., p. 356 e ss.

(11) Sulla diversa natura e funzione dei due tipi di indennità, ante e post sentenza, e sulla diversa incidenza dell'aliunde perceptum o percipiendum, cfr. d'antona, op.ult.cit., p. 360 e ss.

(12) Cass., sez. un., 15 marzo 1982, n. 1669, in Foro it., 1982, I, 985, e Cass. 29 aprile 1985, n. 2762, in Foro it., 1985, I, 1290.

(13) D'Antona, op. ult. cit., p. 359.

(14) Cester, Il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo, in Giur. it., 2014, p. 195.

(15) Del Punta, I problemi del nuovo art. 18, 2013, p. 5, si domanda, seppur retoricamente, se non sia razionale misurare la congruità delle conseguenze sanzionatorie in base al grado di scostamento, da parte del datore di lavoro, dal modello legal-tipico al quale è condizionato il suo potere di recesso. Critico è invece F. Carinci, La rapida "agonia" dell'art. 18 St.: la variante di cui all'art. 1, co. 42 della c.d. Legge Fornero, in Il tramonto dello Statuto dei lavoratori (dalla L. n. 300/1970 al Jobs Act ), in Adapt, 2015, p. 5 e ss.; ID., Il nodo gordiano del licenziamento disciplinare, in ADL, 2012, p. 1103 e ss.

(16) A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all'art. 18 Statuto dei Lavoratori, in Riv.it. dir.lav., 2012, 415 ss. Cester, L'estinzione del rapporto di lavoro subordinato, in Trattato di diritto del lavoro, a cura di Persiani e Carinci, vol. V, a cura di Gragnoli, Cedam, 2017, p. 948; Tullini, La riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello giudiziale di controllo, in Riv.it. dir.lav., 2013,I, p. 154.

(17) Speziale,Il “diritto dei valori”, la tirannia dei valori economici e il lavoro nella Costituzione e nelle fonti europee, in Costituzionalismo.it, 2019, 3, p. 109 ss., spec. 113 s.; Zoli, Il puzzle dei licenziamenti ed il bilanciamento dei valori tra tecniche di controllo e strumenti di tutela, in WP CSDLE "Massimo d'Antona". It, 428/2020, 6.

(18) Marazza, L'art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, in ADL, 2012,n. 3, p. 613

(19) Il primo comma del nuovo art. 18 richiede che il motivo sia «determinante», laddove la disposizione codicistica richiamata (art. 1345 cod.civ.) prescrive che il motivo, per determinare la nullità del contratto, deve essere esclusivo e comune alle parti. Esclusa la comunanza del motivo alle parti, attesa la natura di atto unilaterale del recesso, la qualificazione di «determinante» del motivo illecito richiede la prova che il licenziamento non sarebbe stato intimato se non ci fosse stato quel motivo, che dunque si pone quale vera causa unica del licenziamento che può essere dedotta dal lavoratore come vizio di nullità del recesso «indipendentemente dal motivo formalmente addotto» dal datore di lavoro: così Amoroso, Le tutele sostanziali e processuali del novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori tra giurisprudenza di legittimità e jobs act, in Riv.it.dir.lav., 2015, 327 e ss. V. pure Carbone, Il licenziamento discriminatorio, nullo e orale nel contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in Foro it., 2015,V, p. 240, la quale precisa che la nullità deve essere esclusa quando con il motivo illecito concorra, nella determinazione del licenziamento, una giusta causa ex art. 2119 cod. civ. Per Cass. 4 aprile 2019, n. 9468, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. (nella specie, ritorsivo) deve essere determinante, cioè costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente indicato deve risultare insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all'applicazione della tutela prevista dall'art. 18, comma 1, st. lav. novellato, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, invece di vagliare in via preliminare il giustificato motivo oggettivo addotto, aveva operato un indebito giudizio di comparazione tra i motivi ritorsivi indicati dal lavoratore e le ragioni datoriali). Cass. 23 novembre 2018, n. 30429, ritiene invece che il motivo illecito determinante può anche non essere necessariamente unico, dovendo l'indagine del giudice soffermarsi sul suo carattere determinante, il quale può restare escluso dall'esistenza di un giustificato motivo oggettivo solo ove quest'ultimo risulti non solo allegato dal datore di lavoro, ma anche comprovato e, quindi, tale da poter da solo sorreggere il licenziamento, malgrado il concorrente motivo illecito. Sul licenziamento discriminatorio, Cass. 5 aprile 2016, n. 6575, in Foro it., 2016, I, p. 1687, con nota di Perrino, secondo cui la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l'art. 4 della l. n. 604 del 1966, l'art. 15 st. lav. e l'art. 3 della l. n. 108 del 1990, e del diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall'ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito sulla natura discriminatoria di un licenziamento che conseguiva alla comunicazione della dipendente di volersi assentare per sottoporsi ad un trattamento di fecondazione assistita). In dottrina, v. Cester, op.ult.cit., p. 938: per l'Autore, l'accertamento del motivo illecito non può prescindere dalla verifica della sua esclusività e unicità. V. pure Marazza, L'art. 18, nuovo testo, cit., p. 615 e s.

(20) Corte Cost. 23 aprile 2018, n. 86, in Foro it., 2018, I, 1842, e in ADL, 2018, n. 1095, con nota di Pasqualetto, La scommessa (legittima) del datore di lavoro che non ottemperi all'ordine di reintegrazione ex art. 18 l. n. 300 del 1970, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18, comma 4, L. 20 maggio 1970 n. 300, come sostituito dall'art. 1, comma 42, lett. b) l. n. 92/2012, nella parte in cui prevede che il datore di lavoro, in caso di inottemperanza all'ordine immediatamente esecutivo di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, sia tenuto a corrispondergli, in via sostitutiva una «indennità risarcitoria» in riferimento all'art. 3 Cost. La Corte ha ritenuto che, - posto che l'ordine di reintegrazione ripristina la lex contractus solo sul piano giuridico, mentre sul piano fattuale è necessaria la collaborazione del datore di lavoro, avendo ad oggetto un facere infungibile -, l'indennità in questione, commisurata all'ultima retribuzione percepita dal lavoratore, è coerente alla qualificazione risarcitoria della fattispecie, essendo commisurata al «lucro cessante», ossia al mancato guadagno subito dal lavoratore per effetto, prima, del licenziamento intimato illegittimamente e, poi, della mancata riassunzione ed è altresì coerentemente commisurata a quanto il dipendente avrebbe percepito se, senza il licenziamento, avesse continuato a lavorare e se, dopo l'annullamento di questo, fosse stato riassunto in esecuzione dell'ordine di reintegrazione. In questa logica si giustifica anche l'applicazione del principio della compensatio lucri cum damno. Tali principi erano stati già affermati dalla Corte di cassazione sotto il regime previgente: Cass. 20 marzo 2018, n. 6895.

(21) Cass. 5 luglio 2018, n. 17683; Cass. 19 marzo 2019, n. 7647. Di Paola, La disciplina sanzionatoria correlata al licenziamento individuale illegittimo, in Il licenziamento, op. cit., p. 429 e ss. Si veda, per i nuovi assunti, l'art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, secondo cui dall'indennità risarcitoria è dedotto quanto il lavoratore «avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo quattro, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181», ove per congrua si intende un'offerta di lavoro a tempo pieno e indeterminato o determinato o di lavoro temporaneo ai sensi della legge 24 giugno 1997, n. 196, nell'ambito dei bacini, distanza dal domicilio e tempi di trasporto con mezzi pubblici, stabiliti dalle regioni.

(22) Il concetto è espresso da F. Carinci, Il nodo Gordiano, op.cit., p. 1107.

(23) Ricorre al concetto di scusabilità dell'errore, F. CARINCI, La rapida agonia dell'art. 18 St., op.cit., p. 7.

(24) Per il vero, il legislatore usa l'espressione vaga «regime di cui al presente articolo» il quale, come si è su visto, e come meglio si dirà in seguito, prevede una pluralità di tutele. Tuttavia non sembra dubbio che il riferimento sia espressamente alla tutela prevista nel primo comma: in tal senso cester, L'estinzione del rapporto di lavoro subordinato, op.cit., p. 759.

(25) Cester, op.loc. ult.cit., nonché p. 907; tullini, La riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello giudiziale di controllo, in Riv.it. dir.lav., 2013,I, p. 157.

(26) Di Paola, Il licenziamento orale, in Il licenziamento, a cura di di paola, Giuffrè, 2019, p. 145, secondo cui nel regime attuale, anche dopo il Jobs, il legislatore ha attribuito al licenziamento orale una tutela reintegratoria piena, applicabile anche ai dirigenti, a prescindere dai limiti dimensionali dell'azienda.

(27) Per Nogler, La nuova disciplina dei licenziamenti ingiustificati, alla prova del diritto comparato, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2012, p. 681, secondo cui « La ratio della tutela dichiarativa risiede, non nella tutela dei diritti fondamentali e tanto meno nella job proprierty, bensì nel rendere effettiva l'esecuzione del regolamento contrattuale », posto che « alla logica della tutela della personalità risponde un' altra forma di tutela », consistente nel diritto alla continuità effettiva dell'occupazione.

(28) Per uno studio sulle ipotesi di nullità del licenziamento, cfr. Basilico, Licenziamento nullo, in Il licenziamento, a cura di Di Paola, Giuffrè, 2019, p. 49 ss., secondo cui il licenziamento illegittimo per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1992, n. 68, altro non è che una forma di licenziamento discriminatorio, come confermerebbe anche il decreto legislativo n. 23/2015(p. 90 e ss.), e pertanto annoverabile tra gli atti nulli piuttosto che annullabili.

(29) Così Cester, L'estinzione del rapporto di lavoro subordinato, op.ult.cit., p. 765.

(30) La dottrina pressoché maggioritaria identifica il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo con il licenziamento «ontologicamente» disciplinare. Un argomento positivo può trarsi dall'ultima parte del comma 7 dell'art. 18, nella parte in cui dispone che «qualora nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo», dovendosi ritenere che con l'aggettivo «disciplinari» il legislatore abbia voluto riassumere tutte le ragioni soggettive indicate nel comma 4. In tal senso SPEZIALE, Giusta causa e giustificato motivo dopo la riforma dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in WP CSDLE Massimo D'Antona IT, 165/2012, p. 32; cfr. anche Cester, L'estinzione, op. cit., p. 952. La nozione unitaria di licenziamento disciplinare, come sintesi del licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, si ritrova per la prima volta in una pronuncia della Corte costituzionale del 30 novembre 1982, n. 204, in Foro it., 1983, n. 854, che ha dichiarato illegittimi per violazione dell'art. 3 Cost. i commi 1, 2 e 3 dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come interpretati dalla giurisprudenza nel senso che essi «siano inapplicabili ai licenziamenti disciplinari»: Fedele, Il licenziamento disciplinare, in Il licenziamento, a cura di di paola, Giuffrè, 2019, p. 158 e ss.

(31) Cester, op.ult.cit., p. 954.

(32) In tal senso Vallebona, La riforma del lavoro,cit., p. 57. V. pure Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell'art. 18 statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2012, pag. 440, secondo cui l'indagine sull'esistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento deve essere condotta senza margini per valutazioni discrezionali, ma in base all'elementare distinzione tra l'essere e il non essere.

(33) F. Carinci, Il licenziamento disciplinare, in Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015 (contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), a cura di F.Carinci e Cester, in Adapt, 2015, p. 80. Non ha invece trovato molti fautori la tesi di chi ha ritenuto di poter qualificare il licenziamento illegittimo come licenziamento nullo per ragioni discriminatorie,con la conseguente applicabilità della tutela reale piena ex art. 18, comma 1: per tutti, M.T. Carinci, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e flexicurity “all'italiana” a confronto, in DLRI, 2012, p. 527; Chieco, Il licenziamento nullo, in Flessibilità e tutele, in Commentario della legge 18 giugno 2012, n. 92, Cacucci, Bari, 2013, p. 287.

(34) L'espressione è di Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli, 2012, p. 56.

(35) Cass. 6 novembre 2014, n. 23669, in Foro it., 2014, I, 3418, con nota di De Luca, Il fatto nella riforma della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi: note minime sulla prima sentenza in materia della Corte di cassazione. In dottrina, optano per tale tesi, Vallebona, L'ingiustificatezza qualificata del licenziamento: fattispecie e oneri probatori, in Riv.rel.indust., 2012, p. 621; De Luca tamajo, Il licenziamento disciplinare nel nuovo art.18, in Riv.it.dir.lav., 2012, p. 1064 e ss.

(36) Così Cester, op. ult. cit., p. 957.

(37) È questa la tesi di Speziale, La riforma del licenziamento individuale, cit. p. 553. Non sono mancate critiche a questa tesi, fondate essenzialmente sull'incertezza dell'ambito valutativo entro cui deve essere contenuto l'accertamento giudiziale al fine di verificare la sussistenza di un inadempimento idoneo a risolvere il rapporto: al riguardo si rinvia a Fedele, Licenziamento disciplinare, op.cit., p. 187 e ss.

(38) Cass.7 febbraio 2019, n.3655, in cui, nella valutazione circa la sussistenza-insussistenza del fatto si sono richiamati i canoni della buona fede o della correttezza nell'esecuzione del rapporto. Sostiene che il fatto oggetto di contestazione debba avere un minimo disvalore disciplinare Mazzotta, Fatti e misfatti nell'interpretazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav. 2016,p. 102.

(39) Cass. 16 maggio 2016, n. 10019; Cass. 26 maggio 2017, n.13383; Cass. 5 dicembre 2017 n. 29062; Cass. 23 novembre 2018, n. 30.430; più di recente, Cass. 8 maggio 2019, n. 12174. Il principio è stato ribadito anche con riferimento ad un licenziamento sottoposto, ratione temporis, alla disciplina al Jobs Act, nonostante la diversa formulazione della norma. Va invero ricordato che l'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nel recepire e cristallizzare l'obiter contenuto nella pronuncia della Corte di cassazione del 2014, n. 23669, ha mantenuto ferma la reintegrazione cosiddetta «attenuata» nei casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa solo ove sia «direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». Si tratta, tuttavia, di una modifica normativa che non ha inciso sugli approdi della dottrina e della giurisprudenza, non potendosi derogare al fondamentale principio di cui all'articolo 2106 del codice civile: in tal senso Miscione, Tutele crescenti: un'ipotesi di rinnovamento del diritto del lavoro, in Dottr. per il lav., 2015, p. 741.

(40) La questione è stata affrontata da Cass. 4 giugno 2018, n. 14192, secondo cui «la "insussistenza del fatto" di cui all'art. 18 st. lav. novellato si configura, ove la contestazione abbia avuto ad oggetto una pluralità di addebiti o un'unica articolata condotta, solo qualora sul piano fattuale possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotta - fra i fatti oggetto di contestazione - di per sé solo astrattamente idoneo a giustificare la sanzione espulsiva».

(41) Si veda anche Cass. 28 settembre 2018, n. 23602.

(42) Così Cass. 15 ottobre 2018,n. 25717.

(43) M.T. Carinci, Clausole generali, certificazionie limiti al sindacato del giudice. A proposito dell'art. 30, l. 183/2010, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D'Antona”.IT, 114/2011, p.

(44) Cass. 16 luglio 2019, n. 19023; Cass. 24 ottobre 2018, n. 27004; Cass. 20 marzo 2008, n. 7600.

(45) Cass. 19 agosto 2020, n. 17321; Cass. 1° luglio 2020, n. 13411; Cass. 14 dicembre 2018, n. 32500.

(46) Su tali problematiche, in dottrina, v. Giubboni e Colavita, La valutazione della proporzionalità nei licenziamenti disciplinari: una rassegna ragionata della giurisprudenza, tra legge Fornero e Jobs Act, in WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT – 334/2017, p. 1 e ss., e spec. p. 7; v. pure Fedele, Licenziamento disciplinare, op.cit., p. 200 e ss.

(47) In tal senso Vallebona, Disciplina dei licenziamenti, op.cit., p. 621 e ss.

(48) Per un completo panorama della dottrina, si rinvia a Fedele, Licenziamento disciplinare, cit., p . 195 e ss. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio, cit., p. 429, sostiene che, con questa norma, il legislatore abbia voluto risolvere a monte il problema del collegamento tra il comportamento del dipendente e la sanzione applicabile, senza che residuino margini significativi d'incertezza, rendendo l'illegittimità del licenziamento «meno scusabile», e, dunque, sanzionabile con la massima delle misure previste, ossia con la reintegrazione. Su posizione analoga si pone Cester, L'estinzione, op.cit., p. 974, secondo cui, con la norma in commento, il legislatore ha voluto garantire la reintegrazione quando, e solo quando, l'infrazione, astrattamente considerata dal contratto collettivo (o espressamente, o mediante specificazione o ragionevole integrazione), non sia mai comunque tale da giustificare un licenziamento. In posizione intermedia, Marazza, Il nuovo art. 18, cit., p. 624 e s., il quale, dopo aver sottolineato la difficoltà di applicazione della norma a causa dell'ampio ricorso, nella redazione dei codici disciplinari, a clausole generali o a criteri di graduazione delle sanzioni, reputa ammissibile un giudizio sulla proporzionalità non solo ove non sia prevista una ripartizione delle infrazioni in base alla loro possibile rilevanza disciplinare ma anche qualora la medesima infrazione sia diversamente sanzionata, ai sensi del codice disciplinare, in ragione della sua minore o maggiore gravità. Si pensi, solo per fare un esempio, all'ipotesi della insubordinazione sanzionabile con il licenziamento se grave e con la sospensione se lieve. Al di fuori di questi casi, se per un tipo di comportamento è prevista solo la sanzione del licenziamento il giudice potrà valutare che nel caso concreto non c'è un notevole inadempimento ma l'effetto di tale accertamento non potrà essere quello della reintegrazione.

(49) Romei, La prima ordinanza sul nuovo art. 18 della legge n.300/1970: tanto rumore per nulla?, in Riv.it.dir.lav. 2012, 1072 ss., fa l'esempio della manifesta ubriachezza sul luogo di lavoro, prevista dal contratto collettivo e punita con la sospensione, e dello stato confusionale per uso di stupefacenti non espressamente prevista.

(50) F. Carinci, Il nodo gordiano, op.cit., p. 1118: secondo l'Autore, per quanto preciso e puntuale, il regolamento disciplinare non può mai essere rigidamente vincolante per il giudice, «chiamato pur sempre ad interpretarlo, integrarlo e correggerlo secondo quel criterio di proporzionalità connaturato all'esercizio del potere disciplinare, tanto da poterlo guidare, ma non coartare, anche a prescindere da quell'art. 2106 c.c. che si vorrebbe implicitamente estromesso dal comma 4 dell'art. 18 st. lav. Il giudizio di proporzionalità è valorizzato anche da Persiani, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore licenziato, in Arg. dir. lav., 2013,p. 13 e ss., secondo cui, la costante attuazione del principio di proporzionalità consente, eventualmente, di « ricondurre a razionalità le valutazioni accolte dall' autonomia collettiva ».

(51) Speziale, Il licenziamento disciplinare, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2014, p. 363 ss. secondo cui non si tratta di un'interpretazione analogica della norma collettiva, ma di applicazione di un'identica ratio legis.

(52) App. Roma, 7 maggio 2014, in www.giustiziacivile.it, con nota di Martelloni, La reintegrazione è applicabile anche in caso di norme pattizie “elastiche” sui fatti punibili con sanzione conservativa.

(53) Sostiene l'opposta tesi, Cester, L'estinzione, op.cit., p. 974, secondo cui il legislatore si muove sul piano delle tipizzazioni ossia delle valutazioni astratte, sicché la valutazione della proporzionalità in concreto, cioè il meccanismo applicativo in funzione delle cosiddette ragioni di contesto, va oltre il dato normativo.

(54) Del Punta, I problemi del nuovo articolo 18, p. 27.

(55) Cass. 9 maggio 2019, n. 12365, in Giur.it., 2020, 378; Cass. 28 maggio 2019, n. 14500, in Giur.it., 2019, 2465, con nota di Olivelli, Vincolatività del contratto collettivo, sua interpretazione e discrezionalità del giudice. La sentenza è commentata criticamente da Piccinini, Licenziamenti disciplinari contrattazione collettiva tra realtà e immaginazione, in Quale Giustizia, n. 3/2020;

(56) Cass. 5 dicembre 2019, n. 31839, con ampi richiami; v. pure Cass. 7 maggio 2020, n. 8621; Cass. 10 luglio 2020, n. 14811.

(57) Cass. n. 31839/2019, cit.

(58) F. Carinci, Il nodo gordiano, op.cit., p. 1118; Cester, L'estinzione del rapporto di lavoro subordinato, op.cit.,975.(59) persiani, Il fatto rilevante per la reintegrazione, cit., p. 15; cester, op.loc.ult.cit.

(60) Per Speziale, Giusta causa e giustificato motivo, op.cit., p. 41, la disposizione in esame può essere estesa analogicamente a tutte le ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione dipendenti da vicende che riguardano esclusivamente il lavoratore, per identità di ratio, che è quella di garantire la reintegra a fronte di un licenziamento ingiustificato per situazioni di impedimento personale fisico o psichico del dipendente che incidono sulla stessa possibilità dell'esecuzione del lavoro o lo rendono inesigibile alla luce di altri valori giuridici (come nel caso del diritto alla salute nella malattia che non sia tale da rendere materialmente impossibile la prestazione).

(61) Per un'analisi approfondita di queste ipotesi, si rinvia a Cester, L'estinzione, op. cit., p. 977 e ss.; Bracci, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Il licenziamento, a cura di Di Paola, Giuffré, Milano, 2019, p. 257 e ss.

(62) Marazza, L'art. 18, nuovo testo, cit., p. 630; Speziale, Giusta causa e giustificato motivo, cit., p. 39 e ss.

(63) Sui i presupposti sostanziali del giustificato motivo oggettivo, si rinvia a Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201, in Foro it., 2017, I, p. 134, con nota di Santoro Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo "organizzativo": la fattispecie. La sentenza, nel ricordare la contrapposizione tra l'orientamento giurisprudenziale che, ai fini della legittimità del recesso, ritiene necessario che la modifica organizzativa sia disposta al fine di fronteggiare una situazione di crisi dell'azienda non contingente e l'orientamento che invece ritiene legittimo il recesso anche quando la modifica organizzativa sia attuata dal datore di lavoro allo scopo di ridurre i costi o di incrementare i profitti, e nell'accordare la preferenza a questa seconda tesi, ha comunque ribadito la necessità del controllo giudiziale sull'effettività del ridimensionamento e sul nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato, individuando quale limite al potere datoriale la non pretestuosità della scelta organizzativa. Se quindi si accerta che la ragione addotta a giustificazione del licenziamento «non sussiste, il recesso può essere dichiarato illegittimo dal giudice del merito non per un sindacato su di un presupposto in astratto estraneo alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, bensì per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità o sulla pretestuosità della ragione addotta dall'imprenditore». Parimenti «deve sempre essere verificato il nesso causale tra l'accertata ragione inerente l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro come dichiarata dall'imprenditore e l'intimato licenziamento in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all'operata ristrutturazione. Ove il nesso manchi, anche al fine di individuare il lavoratore colpito dal recesso, si disvela l'uso distorto del potere datoriale, emergendo una dissonanza che smentisce l'effettività della ragione addotta a fondamento del licenziamento». Nello stesso senso, Cass. 15 febbraio 2017, n. 4015; Cass. 3 maggio 2017, n. 10699; Cass. 31 maggio 2017, n. 13808; Cass. 28 marzo 2019, n. 8661.

(64) Speziale, Il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo, op. cit., p. 42.

(65) Parla di una certa «sciatteria semantica», Cester, op.ult.cit., p. 987; per maresca, Il nuovo regime sanzionatorio, cit., p. 436, un fatto o sussiste o non sussiste, tertium non datur. Le critiche vengono anche da SPEZIALE, Giusta causa e giustificato motivo, cit., p. 42 e ss., che parla di «infortunio linguistico».

(66) Cass. 2 maggio 2018, n. 10435, in Il Giuslavorista, con nota di Di Paola, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e violazione dell'obbligo di repêchage: i regimi di tutela applicabili.Nello stesso senso, Cass. 11 novembre 2019 n. 29102.

(67) In tal senso, cfr. Cass. 13 marzo 2019, n.7167.

(68) Ponterio, Il licenziamento per motivi economici,in ADL, 2013, n.1, p. 89

(69) Cass. 11 novembre 2019, n. 29102; Cass. 2 maggio 2018, n. 10435; Cass. 18 novembre 2019, n. 29893. In dottrina, v. Perulli, Fatto e valutazione giuridica del fatto nella nuova disciplina dell'art. 18 st. lav.: ratio ed aporie dei concetti normativi, in ADL, 4/5, 2012, op.cit., p. 800, secondo cui il repêchage, in quanto attinente alla dimensione del “fatto” organizzativo, rimane coessenziale alla valutazione della “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo: se il repêchage è possibile, il fatto posto a base del licenziamento deve essere valutato come manifestamente insussistente.

(70) Cass. 25 giugno 2018, n. 16702; Cass. 8 gennaio 2019, n. 181, in Riv.it.dir.lav., 2019, I, 2, 32, con nota di Luciani, Il giustificato motivo oggettivo (non) "manifestamente insussistente" e il licenziamento economico illegittimo nella somministrazione di manodopera, che ha confermato la sentenza di merito che aveva applicato la tutela risarcitoria avendo accertato una prova insufficiente, offerta dal datore di lavoro circa la impossibilità di reperire un'attività compatibile con la professionalità dei lavoratori licenziati.

(71) In tal senso Cass. 14 luglio 2017, n. 17528, secondo cui la locuzione deve interpretarsi nel senso che, a fronte dell'inesistenza del fatto posto a base del licenziamento, il giudice, tenuto conto degli elementi del caso concreto, applica la reintegra essendo esclusa ogni sua discrezionalità. La pronuncia è seguita da Cass. 13 marzo 2019, n. 7167, in cui, dopo aver ritenuto che la manifesta insussistenza del fatto può riguardare anche il nesso causale tra le ragioni organizzative e la scelta del singolo lavoratore, si precisa che, «ove il fatto sia caratterizzato dalla "manifesta insussistenza", è unica, e soltanto applicabile, la protezione del lavoratore rappresentata dalla disciplina di cui al comma 4.». In dottrina, Pisani, Il regime sanzionatorio del licenziamento alla deriva del diritto liquido, in Riv.it.dir.lav., 2019, p. 353. Contra, Crudeli, Manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento e (non discrezionalità) del giudice circa la tutela applicabile, in Riv.giur.lav., 2019, II, p. 410.

(72) V. Cass. 2 maggio 2018, n. 10435, seguita da Cass. 31 gennaio 2019, n. 2930.

(73) In tal senso, Roselli, Il declino del formalismo giuridico e la giurisprudenza del lavoro, Milano, Giuffrè, 2021, p. 148.

(74) Cester, op.ult.cit., p. 878, reputa più corretto parlare di estinzione, piuttosto che di risoluzione, del rapporto. In realtà, posto che il legislatore ha fissato gli effetti della cessazione del rapporto di lavoro al momento del licenziamento, sembra più appropriato discorrere di recesso, efficace per quanto illegittimo, tale pertanto da determinare un obbligo risarcitorio. Sulla necessità di coordinare la formula adottata nel comma 5 dell'art. 18 con quella prevista dall'art. 1, comma 41 della legge n. 92/2012, che invece collega gli effetti del licenziamento disciplinare o di quello adottato per giustificato motivo oggettivo, rispettivamente, al giorno della comunicazione di avvio del procedimento disciplinare ovvero all'esito del procedimento di cui all'art. 7 della legge n. 604/1966, v. Di Paola, Le varie forme di tutela verso il licenziamento individuale illegittimo, in Il licenziamento, a cura di Di Paola, cit., p. 18, n. 26, nonché Cester, op. ult. cit., p. 880.

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