Licenziamento per giusta causa e protezione della salute del lavoratore ai tempi della pandemia: autotutela e stato di necessità

08 Aprile 2021

Il Tribunale di Arezzo in composizione monocratica – all'esito della trattazione scritta del giudizio ai sensi dell'art. 83 comma 7 lett. h) d.l. n. 18/20 conv. l. n. 27/20 – respingeva l'opposizione del datore di lavoro e confermava l'ordinanza conclusiva della fase sommaria, con la quale il lavoratore era stato reintegrato nel posto di lavoro, avendo il giudice ritenuto l'insussistenza della giusta causa del licenziamento...
Abstract

Il Tribunale di Arezzo in composizione monocratica – all'esito della trattazione scritta del giudizio ai sensi dell'art. 83 comma 7 lett. h) d.l. n. 18/20 conv. l. n. 27/20 – respingeva l'opposizione del datore di lavoro e confermava l'ordinanza conclusiva della fase sommaria, con la quale il lavoratore era stato reintegrato nel posto di lavoro, avendo il giudice ritenuto l'insussistenza della giusta causa del licenziamento.

Il presente contributo propone una sintetica ricostruzione del licenziamento per giusta causa, con particolare riferimento al rapporto tra nozione legale e tipizzazione convenzionale.

Dopo aver chiarito la normativa d'urgenza per contrastare la diffusione del virus Covid -19 negli ambienti di lavoro, costituita dai d.P.C.M. e dai Protocolli anti-contagio, sono, altresì, illustrate alcune brevi riflessioni sull'autotutela del lavoratore, con specifico richiamo all'esimente dello stato di necessità.

Il caso

Il datore di lavoro, proponendo opposizione all'ordinanza conclusiva della prima fase del giudizio, sosteneva che il dipendente, durante il turno notturno di servizio, aveva invitato un cliente del punto vendita ad indossare la mascherina di protezione, altrimenti non gli avrebbe fatto la transazione in cassa per l'acquisto di due prodotti del market (due pacchetti di sigarette).

L'opponente riteneva che il lavoratore risultava inadempiente nei confronti dei suoi obblighi contrattuali per aver disatteso le indicazioni aziendali previste in questo periodo di emergenza sanitaria e aver danneggiato gravemente l'immagine aziendale.

Pertanto, il recesso – comunicato il 10 aprile 2020 – sarebbe assistito da giusta causa.

Nelle more del giudizio, con il dilagare della pandemia Covid-19 e sulla scorta della normativa emergenziale emanata per lo svolgimento dell'attività giudiziaria durante l'emergenza sanitaria, il Giudice disponeva trattarsi l'udienza di discussione con le modalità di cui all'art. 83 comma 7 lett. h) d.l. n. 18/20 conv. l. n. 27/20.

Il Tribunale statuiva l'infondatezza dell'opposizione, ritenendo provato nella specie che:

- il lavoratore, con normale interlocuzione, disse al cliente, avvicinatosi senza mascherina o presidio alternativo, che si poteva coprire con il collo della felpa;

- il cliente rispose che le mascherine le portano i malati e che la società e i dipendenti sono dei ladri che gli prosciugano lo stipendio e che mentre prima lo facevano a viso scoperto ora lo fanno con le maschere; infine, intimando di chiamare la polizia, si allontanò.

Il Giudice monocratico precisava che quanto accaduto non integrava la fattispecie di cui all'art. 213 comma 5 lett. f) CCNL di settore, ossia “gravi offese alla dignità” né “gravi fatti di pregiudizio agli interessi del proprietario […] della clientela”.

In primo luogo, le frasi descritte non erano né ingiuriose né offensive, al più costituivano una reazione verbale giustificata dall'esasperazione per una condotta altrui omissiva, denotante ignorante sottovalutazione del fenomeno pandemico, accompagnata da frasi villane e sprezzanti della salute propria e degli altri clienti, oltreché del cassiere.

In secondo luogo, il rifiuto del servizio non costituiva grave fatto perché non recava pregiudizio il mancato acquisto di un pacchetto di sigarette.

Inoltre, mancava qualsiasi elemento di gravità per quanto accaduto.

La gravità morale ed economica – quale parte integrante della fattispecie di illecito disciplinare – non era stata né dedotta né provata.

Dunque, la condotta censurata da parte datoriale non era idonea a ledere la fiducia alla base del rapporto di lavoro. Precisamente, tale condotta non integrava la violazione del dovere di fedeltà posto dall'art. 2105 c.c. né, tantomeno, la giusta causa del licenziamento.

Infine, il Tribunale sottolineava che il lavoratore si era limitato ad esercitare il proprio diritto, costituzionalmente garantito, a svolgere la propria prestazione in condizione di sicurezza.

Del resto, l'esimente dello stato di necessità consentiva al dipendente, pur in assenza di una specifica disposizione di legge, anche di astenersi dal lavoro, poiché lo svolgimento della prestazione lo esponeva ad un rischio di danno alla persona.

Le questioni

La sentenza che si annota risulta rilevante ed apprezzabile sotto diversi profili, poiché offre taluni spunti per illustrare, senza pretese di esaustività, alcune osservazioni sul licenziamento per giusta causa, con particolare riferimento al rapporto tra nozione legale e tipizzazione convenzionale. Inoltre, saranno analizzati, in breve, il quadro normativo posto a presidio della salute dei lavoratori ai tempi della pandemia e l'autotutela del lavoratore, con specifico richiamo all'esimente dello stato di necessità.

Licenziamento per giusta causa: rapporto tra la clausola generale di cui all'art. 2119 c.c. e la tipizzazione delle fattispecie dei contratti collettivi

Il giudice monocratico, con la sentenza in esame, nell'accertare la proporzionalità tra illecito disciplinare e sanzione applicata, attenendosi agli insegnamenti della Suprema Corte, non ha arrestato la propria indagine al rilievo del difetto degli elementi costitutivi della fattispecie contrattuale, ma, ha, altresì, valutato la condotta del prestatore di lavoro alla luce dei doveri di fedeltà e diligenza. Sulla base di tale valutazione, ha statuito che il comportamento del lavoratore fosse inidoneo a ledere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro e, quindi, ad integrare la giusta causa del licenziamento.

A tal proposito, giova richiamare i recenti arresti della Corte di Cassazione in materia di licenziamento per giusta causa, descritto dalla clausola generale di cui all'art. 2119 c.c., e di rapporto con il codice disciplinare dettato dai contratti collettivi.

La giusta causa di licenziamento costituisce una nozione che la legge configura con disposizioni di limitato contenuto, al fine di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo.

Tali disposizioni delineano, quindi, un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa.

Già da tempo, dottrina e giurisprudenza appaiono assolutamente concordi nel ritenere che la giusta causa sia ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, che non sono norme, ma sono espressioni, sintagmi, frammenti in grado di caratterizzare le norme che le contengono e quindi di denotarne in modo particolare la struttura, così da renderle vere e proprie “valvole di apertura del sistema” verso la realtà sociale.

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali.

In tal senso, è determinante la potenziale influenza del comportamento del lavoratore suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.

La valutazione della congruità della sanzione espulsiva spetta al giudice di merito.

Il particolare, il giudice del lavoro non deve procedere ad un'indagine astratta dell'addebito, ma deve tener conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro.

A tal proposito, deve assegnarsi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo.

La giusta causa, quindi, non può prescindere da un giudizio contestualizzato e relativo che tenga conto di numerose variabili legate alla vicenda fattuale, ma anche a fattori esterni alla fattispecie concreta.

Occorre qui ribadire che il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo - alle quali deve essere attribuita valenza meramente esemplificativa - onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento, secondo un apprezzamento di fatto congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.

In altri termini, secondo il granitico ragionamento della Suprema Corte, il giudice può escludere che il comportamento del lavoratore integri gli estremi della giusta causa di recesso, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato e in base alla valutazione di compatibilità con l'inderogabile principio di proporzionalità sancito dall'art. 2106 c.c. e con il modello legale che conforma tali cause di risoluzione del rapporto.

Pertanto, la scala valoriale espressa dal contratto collettivo – contenente le valutazioni delle parti sociali in ordine alla gravità di determinati comportamenti – costituisce solo uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c., considerato altresì che la l. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, ha previsto che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro”.

In sostanza, ferma la rilevanza della pattuizione collettiva al fine dell'individuazione della sanzione applicabile, il legislatore non ha inteso sostituire il modello di integrazione della clausola elastica affidata alla valutazione giudiziale con quello che vede protagoniste esclusive le parti sociali.

Per completezza, occorre chiarire che il principio generale, appena descritto, subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa. In tal caso, il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (l. n. 604 del 1966, art. 12).

In definitiva, la sentenza in esame risulta ascrivibile al filone delle pronunce confermative del principio secondo cui la tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso non ha carattere obbligatorio per il giudice di merito.

La scala valoriale recepita nei contratti collettivi può costituire, infatti, uno dei parametri, ma non l'unico e non in maniera vincolante, cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c., potendo e dovendo il giudice apprezzare altri aspetti soggettivi ed oggettivi della condotta posta in essere dal lavoratore, che connotano la gravità del comportamento e la inaffidabilità del lavoratore, anche al di là della fattispecie contrattuale prevista.

Il quadro normativo ed applicativo generale posto a presidio della salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro ai tempi della pandemia

La crisi epidemiologica da Covid-19 ha inciso profondamente sul contratto di lavoro, con particolare riferimento – ai fini che qui rilevano - al tema della salute e della sicurezza dei lavoratori.

Mai come in questo periodo può dirsi che la salute è un diritto fondamentale dell'individuo ed un interesse della collettività.

Esso si pone in un rapporto di circolarità con la sicurezza sul lavoro: se questa rappresenta un tassello della salute collettiva, quest'ultima costituisce la base necessaria della prima.

In definitiva, è fondamentale che il datore di lavoro assicuri la piena tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, come previsto dall'art. 2087 c.c. e dal d.lgs. n. 81/2008.

In questo contesto di generale emergenza si può distinguere tra i lavoratori impossibilitati a svolgere la propria attività, i lavoratori abilitati a prestare a distanza le proprie mansioni, i lavoratori dei settori ritenuti indispensabili le cui prestazioni non sono suscettibili di esecuzione a distanza ed, infine, i soggetti definiti “last mile jobs” ossia i fornitori di servizi di vario genere.

È in relazione a queste ultime categorie di lavoratori che si pone la questione della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, con l'introduzione di regole speciali funzionali alla prosecuzione delle attività non sospese.

In particolare, le attività produttive per le quali non sussiste un obbligo di sospensione possono proseguire, ma solo nel rispetto delle misure precauzionali individuate nella normativa d'urgenza, costituita dai d.P.C.M. - emanati da marzo 2020 – e dai Protocolli condivisi di regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, siglati tra il Governo e le parti sociali, che prevedono l'obbligo di adottare e rispettare specifici protocolli di sicurezza anti-contagio.

Inoltre, l'art. 29-bis d.l. n. 23/2020, introdotto in sede di conversione dalla l. n. 40 del 5 giugno 2020, ha precisato che i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nei protocolli condivisi come sopra richiamati.

I protocolli d'intesa sono dei veri e propri accordi interconfederali, in quanto tali dotati di efficacia obbligatoria di diritto comune.

Il recepimento sostanziale dei protocolli, pubblicati, in allegato ai citati d.P.C.M., in gazzetta ufficiale, ha introdotto un obbligo legale erga omnes di rispettarli.

Pertanto, è chiaro l'obiettivo del governo di adottare - in relazione all'individuazione delle misure di sicurezza più adeguate al fine di contrastare la diffusione del contagio negli ambienti di lavoro - un criterio di regolazione che valorizzi il dialogo sociale ed il criterio di prossimità.

I protocolli anti-contagio devono contenere tutte le misure da adottare per limitare e prevenire al massimo il rischio di contagio e per consentire una prosecuzione dell'attività in condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione.

Il mancato raggiungimento di un idoneo e appropriato grado di tutela può determinare la sospensione dell'attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.

Sul piano generale, i protocolli devono rivolgersi sia ai dipendenti e collaboratori dell'impresa sia ai terzi che a vario titolo intendano effettuare l'accesso nei luoghi di lavoro.

Sul piano specifico, i protocolli devono adeguarsi alla realtà aziendale, disciplinando l'uso delle postazioni individuali, degli spazi e degli strumenti comuni, prevedendo, ove necessario, l'uso di specifici dispositivi di protezione individuale (DPI), quali guanti e mascherine.

Le mascherine – da utilizzare in conformità a quanto previsto dalle indicazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità – rappresentano i DPI di maggiore utilizzo per la necessità di contrastare la diffusione del Coronavirus.

Sul punto deve rilevarsi che l'art. 16, d.l. n. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. Decreto Cura Italia) convertito in l. 24 aprile 2020, n. 27, prevede che, fino al termine dello stato di emergenza, per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio sono da considerarsi dispositivi di protezione individuale di cui all'art. 74, comma 1, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.

L'autotutela del lavoratore e l'esimente dello stato di necessità

Così delineato il sistema di attuazione della tutela della salute dei lavoratori nei luoghi in cui si svolgono ed eseguono le prestazioni, occorre adesso analizzare, in breve, un altro istituto che garantisce gli interessi del lavoratore.

Precisamente, la sentenza in commento offre uno spunto per riflettere sull'istituto dell'autotutela.

L'autotutela è un concetto ampio che trova spazio in vari settori dell'esperienza giuridica ed espressione in istituti talora molto diversi tra loro.

In generale, si distingue una definizione “in negativo” della autotutela da una nozione che ne colga “in positivo” l'essenza.

In relazione alla prima, si tratta della possibilità riconosciuta ad un soggetto di “farsi giustizia da sé”, ossia di poter soddisfare le sue ragioni senza fare ricorso alla giurisdizione.

In questa prospettiva, dunque, l'autotutela è tutela non giudiziaria, quale eccezione al principio del monopolio statale della giustizia ex art. 2907 comma 1 c.c. – contenuto anche nella Carta costituzionale agli artt. 101 ss. – secondo il quale alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l'autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d'ufficio.

In relazione all'accezione “in positivo”, in via di prima approssimazione, l'autotutela è comunemente identificata con l'autodifesa di proprie situazioni giuridiche soggettive messe in pericolo o lese dall'altrui comportamento illecito.

Pertanto, da questa definizione emergerebbero come tratti caratterizzanti dell'autotutela privata almeno tre elementi: l'assenza di un intervento giudiziale, l'unilateralità dell'esercizio del potere e la protezione di un interesse meritevole di tutela messo in pericolo o violato da altri.

In sostanza, l'autotutela, nella sua accezione “in positivo”, richiama il grande tema della tutela della libertà e dei diritti.

Nel nostro ordinamento manca una disciplina organica generale dell'istituto in esame.

Piuttosto, l'eterogeneità delle fattispecie tradizionalmente ricondotte al fenomeno dell'autotutela conferma la presenza, nell'esperienza giuridica, di una disciplina settoriale.

Con particolare riferimento al diritto civile, esso mutua dal diritto penale alcuni istituti – quale la legittima difesa e lo stato di necessità – che sono espressione del principio di autotutela e che rendono lecite condotte che altrimenti sarebbero fonte di responsabilità extracontrattuale.

Il principio dell'autotutela viene, altresì, in considerazione nell'ambito dei contratti e delle obbligazioni.

Nel caso di specie, il Tribunale di Arezzo ha statuito, con argomentazioni rilevanti e significative, che il lavoratore – assumendo il comportamento descritto nella prima parte del presente contributo – si era limitato ad esercitare il proprio diritto, costituzionalmente garantito, a svolgere la propria prestazione in condizione di sicurezza.

Del resto, l'esimente dello stato di necessità gli consentiva, pur in assenza di una specifica disposizione di legge, anche di astenersi dal lavoro poiché lo svolgimento della prestazione lo esponeva ad un rischio di danno alla persona.

La tematica è quella relativa alla ricerca di tecniche giuridiche sempre nuove al fine di salvaguardare il lavoratore subordinato dai possibili danni alla propria integrità fisica o morale, in qualche modo originati dal coinvolgimento della persona nell'esecuzione della prestazione lavorativa.

La questione controversa consiste nel verificare se e come il prestatore di lavoro subordinato possa tutelare da sé una propria posizione giuridica soggettiva minacciata o lesa durante lo svolgimento della prestazione, ponendo in essere un comportamento in concreto conforme alla generale regola di buona fede, al fine di ottenere l'esatto adempimento e la salvaguardia del proprio interesse.

È ricorrente l'utilizzo di strumenti di autotutela da parte dei lavoratori in reazione ad una violazione delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Le disposizioni che vengono in rilievo sono, ad esempio, l'art. 1460 c.c. e l'art. 44 del d.lgs. n. 81/2008.

L'orientamento giurisprudenziale prevalente interpreta l'illegittimo esercizio del potere da parte del datore di lavoro quale inadempimento agli obblighi contrattuali sul medesimo gravanti e, pertanto, richiama espressamente l'eccezione di inadempimento e la relativa disciplina di cui all'art. 1460 c.c., per giustificare il rifiuto del lavoratore di obbedire a quanto richiestogli.

Ulteriore prova del fatto che l'ordinamento giuridico, in un generale bilanciamento di interessi, considera prevalente l'interesse all'incolumità fisica e morale della persona del lavoratore rispetto a quello proprio della produzione economica, è data dall'art. 44 del d.lgs. n. 81/2008.

Tale disposizione legittima espressamente i prestatori di lavoro ad allontanarsi dal posto di lavoro in caso di pericolo grave, immediato e non altrimenti evitabile, senza per questo subire alcun pregiudizio, perciò senza esporsi a profili di responsabilità contrattuale o disciplinare.

È evidente che tale norma abbia un ambito applicativo più ristretto rispetto a quello che consente al lavoratore di avvalersi dell'art. 1460 c.c., dal momento che quest'ultima può invocarsi anche ove il pericolo di danno alla salute o alla sicurezza non presenti le caratteristiche di gravità, inevitabilità e immediatezza, oppure anche nel caso in cui sia un rischio ancora futuro e meramente possibile.

Con una ricostruzione originale e rilevante, nel caso di specie, il Tribunale sembrerebbe giustificare l'autotutela del lavoratore, non in ragione dei suddetti artt. 1460 c.c. e art. 44 del d.lgs. n. 81/2008, ma evocando l'esimente dello stato di necessità: il lavoratore, per autotutelarsi, avrebbe potuto astenersi dal lavoro, anche in assenza di una specifica disposizione di legge, poiché lo svolgimento della prestazione avrebbe esposto il lavoratore ad un rischio di danno alla persona.

Pare, dunque, condivisibile l'assunto secondo cui autotutela privata e giustizia statale non sarebbero reciprocamente incompatibili.

Solo dove sussiste una giustizia statale che funziona, opera un'autotutela privata efficiente, la quale si rileva di ausilio, consentendo il deflazionamento del contenzioso, solo se esercitata con senso di responsabilità.

Minimi riferimenti bibliografici

In giurisprudenza:

Cass. civ. sez. lav. n. 13412 del 1.7.2020;

Cass. civ. sez. lav. n. 14321 del 8.06.2017;

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Cass. civ. sez. lav. n. 28492 del 7.11.2018;

Cass. civ. sez. lav. n. 14062 del 23.05.2019;

Cass. civ. sez. lav. n. 14063 del 23.05.2019;

Cass. civ. sez. lav. n. 13865 del 22.05.2019;

Cass. civ. sez. lav. n. 14053 del 23.05.2019;

Cass. civ., sez. lav. n. 6089 del 9.03.2017.

In dottrina:

- Vallebona, Il licenziamento per giusta causa, in Breviario di diritto del lavoro, X edizione 2015, Giappichelli Editore, 351 ss.;

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- De Luca Tamajo, Licenziamento disciplinare, clausole elastiche, "fatto" contestato, in Argomenti dir. lav., 2015, 2, 269 (commento alla normativa);

- Marazza, L'art. 2087 c.c. nella pandemia Covid-19 (e oltre), in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc.2, 1° giugno 2020, 267;

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- Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, in WP CSDLE “Massimo D'Antona.it”, 413-2020;

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- Zappalà, Licenziamento per giusta causa - Il licenziamento per giusta causa tra nozione legale e tipizzazione convenzionale, in Giur. it., 2020, 12, 2715 (nota a sentenza);

- Unibosi, L'autotutela individuale nel rapporto di lavoro subordinato, in leggiditalia.it;

- Benozzo, Vendite a distanza, produzioni industriali e codici ateco: regole di operatività al tempo del coronavirus e obblighi salute e sicurezza, in Contratto e impr., 2020, 3, 1024 (commento alla normativa);

- Filì, Diritto del lavoro dell'emergenza epidemiologica da Covid-19 e nuova "questione sociale", in Lavoro nella giur., 2020, 4, 332 (commento alla normativa);

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- Perulli, «Diritto riflessivo» e autonomia collettiva al tempo di Covid-19, in Rivista it. dir. lav., fasc.2, 1° giugno 2020, 299;

- Pelusi, Tutela della salute dei lavoratori e Covid-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in Dir. soc. lav., 2-2020;

- Fabris, Il rifiuto di adempiere del lavoratore per omissione di misure di sicurezza, in Lavoro nella giur., 2009, 9, 881 (commento alla normativa);

- Sitzia, Il lavoro e l'emergenza Covid-19, in Nuova giur. civ., 2020, 3 - Supplemento, 147 (commento alla normativa).

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