Corte di giustizia UE: licenziamento collettivo e applicazione di un regime meno vantaggioso per i lavoratori assunti con il Jobs Act

Elena Boghetich
19 Aprile 2021

La clausola 4 dell'Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato...
Massima

La clausola 4 dell'Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa (7 marzo 2015), è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data; né la materia dei criteri di scelta e della eventuale sanzione, nell'ambito di un licenziamento collettivo, tocca la direttiva 98/59, per cui non può essere esaminata alla luce dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta di Nizza.

Il caso

La lavoratrice KO di cui al procedimento pendente avanti al Tribunale di Milano è stata assunta, con contratto di lavoro a tempo determinato, dalla Consulmarketing a partire dal 14 gennaio 2013; il 31 marzo 2015 tale contratto a tempo determinato è stato trasformato in contratto a tempo indeterminato. Il 19 gennaio 2017 la Consulmarketing ha avviato una procedura di licenziamento collettivo che ha interessato 350 lavoratori, tra cui KO, e all'esito della quale tutti i lavoratori sono stati licenziati.

Il Tribunale, investito dell'impugnazione del licenziamento collettivo, ritenutolo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro per tutti i lavoratori, ad esclusione della KO, alla quale ha applicato il mero regime indennitario in quanto destinataria delle modifiche legislative concernenti il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo (artt. 1, 3 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015).

In sede di opposizione (nell'ambito del quale, da un lato, la società è stata dichiarata fallita e, dall'altro, la Filcams CGIL e la CGIL sono intervenute volontariamente a sostegno della lavoratrice), il giudice ha ritenuto di sollevare questione pregiudiziale: invero, la conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, ai fini della fissazione del regime di tutela in caso di licenziamento collettivo illegittimo, sarebbe assimilata a una nuova assunzione e, in quest'ottica, la lavoratrice non potrebbe rivendicare, in forza della sopraggiunta normativa nazionale, la reintegrazione nel posto di lavoro né il risarcimento dei danni (come i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015), ma solo un'indennità.

Il giudice del rinvio si è chiesto se tale situazione sia compatibile con la direttiva 98/59 e con la clausola 4 dell'accordo quadro, letti alla luce degli articoli 20 e 30 della Carta dei diritti fondamentali: A) l'indennità non costituisce una compensazione adeguata per un licenziamento collettivo illegittimo (ai sensi dell'articolo 30 della Carta, interpretata alla luce dell'articolo 24 della Carta sociale europea, a sua volta interpretata dal Comitato europeo dei diritti sociali nel senso che una sanzione derivante da un licenziamento collettivo illegittimo è considerata adeguata quando prevede, 1°: il rimborso delle perdite economiche subite dal lavoratore interessato tra il giorno del suo licenziamento e la decisione che condanna il datore di lavoro a detto rimborso, 2°: una possibilità di reintegrare tale lavoratore nell'impresa nonché, 3°: un'indennità di importo sufficientemente elevato da dissuadere il datore di lavoro e compensare il danno subito da detto lavoratore); B) sussiste una diversità di trattamento tra lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 e dopo tale data.

Il giudice ha, pertanto, sottoposto alla CGUE le seguente questioni pregiudiziali:

«1) Se i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella clausola 4 dell'[accordo quadro] sulle condizioni di impiego ostino alle previsioni normative dell'articolo 1, secondo comma e dell'articolo 10 del decreto legislativo n. 23/2015 che, con riferimento ai licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, contengono un duplice regime differenziato di tutela in forza del quale viene assicurata nella medesima procedura una tutela adeguata, effettiva e dissuasiva ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti in data antecedente al 7 marzo 2015, per i quali sono previsti i rimedi della reintegrazione ed il pagamento dei contributi a carico del datore di lavoro e introduce, viceversa, una tutela meramente indennitaria nell'ambito di un limite minimo ed un limite massimo di minore effettività ed inferiore capacità dissuasiva per i rapporti di lavoro a tempo determinato aventi una pari anzianità lavorativa, in quanto costituiti precedentemente a tale data, ma convertiti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015.

2) Se le previsioni contenute negli articoli 20 e 30 della [Carta] e nella direttiva [98/59] ostino ad una disposizione normativa come quella di cui all'articolo 10 del decreto legislativo n. 23/15 che introduce per i soli lavoratori assunti (ovvero con rapporto a termine trasformato) a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, una disposizione secondo cui, in caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, diversamente dagli altri analoghi rapporti di lavoro costituiti in precedenza e coinvolti nella medesima procedura, non è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro e che introduce, viceversa, un concorrente sistema di tutela meramente indennitario, inadeguato a ristorare le conseguenze economiche derivanti dalla perdita del posto di lavoro e deteriore rispetto all'altro modello coesistente, applicato ad altri lavoratori i cui rapporti hanno le medesime caratteristiche con la sola eccezione della data di conversione o costituzione».

La questione

La questione in esame è la seguente: la previsione di un regime sanzionatorio diverso (reintegra o indennità economica), a fronte di un licenziamento collettivo illegittimo, tra lavoratori assunti prima e dopo una determinata data (7 marzo 2015, entrata in vigore del jobs act) contrasta con la normativa UE?

Può rinvenirsi la violazione della direttiva 98/59 in tema di licenziamento collettivo e del principio di non discriminazione tra lavoratori a termine e a tempo indeterminato di cui all'Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE?

La soluzione giuridica

La CGUE fa una premessa metodologica, rilevando che le questioni pregiudiziali vanno riformulate come intese all'interpretazione, da un lato, della clausola 4 dell'accordo quadro e, dall'altro, della direttiva 98/59, letta alla luce degli articoli 20 e 30 della Carta. Invero, si puntualizza, la CGUE svolge una interpretazione del diritto dell'Unione, non invadendo il campo dei giudici del rinvio (ai quali soli è demandato il compito di interpretare il diritto interno).

In ordine all'applicazione concorrente, nell'ambito di una stessa e unica procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo (in quanto effettuato in violazione dei criteri di scelta), la CGUE precisa che:

- con riguardo al secondo quesito (artt. 20 e 30 della Carta e direttiva 98/59):

1) la direttiva 98/59 mira solamente ad un'armonizzazione parziale delle procedure da seguire nel caso di licenziamento collettivo (l'obiettivo principale della direttiva consiste nel far precedere i licenziamenti collettivi da una consultazione dei rappresentanti dei lavoratori e dall'informazione dell'autorità pubblica competente, al fine di evitare o ridurre i licenziamenti nonché di attenuarne le conseguenze ricorrendo a misure sociali di accompagnamento intese in particolare a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati);

2) le modalità della tutela che deve essere accordata a un lavoratore che è stato oggetto di un licenziamento collettivo illegittimo (a seguito di una violazione dei criteri su cui il datore di lavoro deve basarsi per determinare i lavoratori da licenziare) sono manifestamente prive di collegamento con gli obblighi di notifica e di consultazione risultanti dalla direttiva 98/59, e sono dunque di competenza esclusiva degli Stati membri (insomma, trattandosi di normativa nazionale che non è attuativa del diritto dell'Unione, non può essere esaminata alla luce delle garanzie della Carta e, in particolare, dei suoi articoli 20 e 30);

- con riguardo alla clausola 4 dell'Accordo Quadro:

1) la tutela accordata a un lavoratore in caso di licenziamento illegittimo rientra nella nozione di «condizioni di impiego» ai sensi della clausola 4, punto 1, dell'Accordo quadro (CGUE 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, p. 28-30) e, ai fini della comparabilità tra lavoratori a tempo determinato e a tempo indeterminato, vanno considerati diversi fattori, come la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego;

2) spetta al giudice del rinvio, che è il solo competente a valutare i fatti, determinare se la lavoratrice si trovasse in una situazione comparabile a quella dei lavoratori assunti a tempo indeterminato nel corso del medesimo periodo dallo stesso datore di lavoro;

3) posto che la differenza del regime sanzionatorio tra la lavoratrice e gli altri dipendenti non dipende da un diverso (e discriminatorio) computo dell'anzianità di servizio (punto 4 della clausola

4) bensì da una specifica previsione transitoria del d.lgs. n. 23 del 2015, la differenza di trattamento può essere giustificata se ricorrono “ragioni oggettive” di cui al punto 1 della clausola 4, ossia elementi precisi e concreti che contraddistinguano la condizione di impiego a tempo determinato, nel particolare contesto in cui s'inscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, in quanto rispondente ad una reale necessità, e sia idonea a conseguire l'obiettivo perseguito e risulti necessaria a tal fine; detti elementi possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle mansioni per l'espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro;

5) il trattamento meno favorevole della lavoratrice è giustificato dall'obiettivo di politica sociale perseguito dal decreto legislativo n. 23 del 2015 consistente nell'incentivare i datori di lavoro ad assumere lavoratori a tempo indeterminato; rafforzare la stabilità dell'occupazione favorendo la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato costituisce un obiettivo legittimo del diritto sociale e, peraltro, un obiettivo perseguito dall'Accordo Quadro (che ritiene il rapporto di lavoro a tempo indeterminato la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori) e gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire un determinato scopo fra gli altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo

6) il d.lgs. n. 23 del 2015 ha perseguito una riforma del diritto sociale italiano volta a promuovere la creazione, attraverso l'assunzione o la conversione di un contratto a tempo determinato, di rapporti di lavoro a tempo indeterminato: se il nuovo regime di tutela non si applicasse ai contratti (a tempo determinato) che sono stati convertiti, sarebbe escluso sin dall'inizio qualsiasi effetto di incentivo alla conversione dei contratti a tempo determinato in vigore al 7 marzo 2015 in contratti a tempo indeterminato;

7) di conseguenza, l'assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato rientra in una più ampia riforma del diritto sociale italiano il cui obiettivo è quello di promuovere le assunzioni a tempo indeterminato; in tali circostanze, una siffatta misura di assimilazione si inserisce in un contesto particolare, dal punto di vista sia fattuale che giuridico, che giustifica in via eccezionale la differenza di trattamento;

8) ininfluente la constatazione che il d.lgs. n. 23 del 2015 operi una regressione del livello di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato perché il principio di non discriminazione è stato attuato e concretizzato dall'Accordo Quadro soltanto riguardo alle differenze di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato che si trovano in situazioni comparabili (e dunque le eventuali differenze di trattamento tra determinate categorie di personale a tempo indeterminato non rientrano nell'ambito del principio di non discriminazione sancito da tale Accordo).

Osservazioni

Il Tribunale di Milano ha proposto in Europa una questione che, sostanzialmente, era già stata risolta in senso negativo dalla Corte costituzionale italiana (sentenza n. 194/2018). Il giudice delle leggi, dichiarando illegittimo il meccanismo automatico di calcolo dell'indennità risarcitoria basato sull'anzianità (art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015), ha infatti respinto l'ulteriore eccezione che era stata sollevata sotto il profilo della disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti (rispetto alla data del 7.3.2015), osservando che non è precluso al legislatore di dettare discipline ragionevolmente differenziate nel tempo in vista del dichiarato obiettivo governativo di incentivare le assunzioni a tempo indeterminato (ed a prescindere dai suoi esiti in concreto).

In ordine all'interpretazione dell'art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 23 del 2015, va segnalata una pronuncia della Suprema Corte (sentenza 16 gennaio 2020, n. 823) che ha precisato il regime del cd. "contratto a tutele crescenti" si applica ai contratti a tempo determinato stipulati anteriormente al 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del suddetto decreto) nelle ipotesi in cui gli effetti della conversione del rapporto - a seguito di novazione ovvero in ragione del tipo di vizio accertato - si producano con decorrenza successiva alla predetta data, mentre risulta irrilevante l'epoca della pronuncia giudiziale di accertamento della nullità dell'apposizione del termine, posto che quest'ultima, avendo efficacia meramente dichiarativa, opera con effetto "ex tunc" dalla illegittima stipulazione del contratto.

In sintesi, la Corte occupandosi di una ipotesi di “conversione giudiziale” di un contratto a tempo determinato (per ritenuta nullità del termine) intervenuta in data successiva al 7 marzo 2015, ha ritenuto che – pur potendo il Governo adottare, in forza della legge delega, una innovativa disciplina di tutela per i licenziamenti illegittimi esclusivamente "per i nuovi assunti" - tali lavoratori non possono essere assimilati ai “nuovi assunti”. Invero, la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine e ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto, cui è connesso l'obbligo del datore di riammettere in servizio il lavoratore, ha natura dichiarativa e non costitutiva, con conseguente effetto ex tunc della conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato operata a decorrere dalla illegittima stipulazione del contratto a termine (Cass. 26 marzo 2019, n. 8385).

Richiamando i principi della legge delega (legge n. 183 del 2014, art. 1), di parità di trattamento (come declinati dalla Corte Costituzionale, anche con riguardo al “fluire del tempo” quale “valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche”), di non discriminazione tra lavoratori assunti a tempo determinato e a tempo indeterminato, la Corte ha ritenuto attratti nell'alveo della nuova disciplina le seguenti ipotesi:

1) la conversione volontaria (idest: trasformazione) per effetto di una manifestazione di volontà delle parti successiva all'entrata in vigore del decreto, con effetto novativo;

2) le ipotesi di conversione giudiziale di contratti a termine stipulati anteriormente al d.l.gs. n. 23 del 2015, ma che producano i loro effetti di conversione dopo la sua entrata in vigore, perchè successivo è il vizio che li colpisce, quali: a) la continuazione del rapporto di lavoro oltre trenta giorni (in caso di contratto a termine di durata inferiore a 6 mesi) ovvero oltre 50 giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a 6 mesi), ai sensi del d.lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 2 (Cass. 21 gennaio 2016, n. 1058, in riferimento al previgente termine di 20, anzichè di 30 giorni), qualora la scadenza sia successiva al 7 marzo 2015 (da essa considerandosi "il contratto [...] a tempo indeterminato"); b) la riassunzione entro 10 giorni dalla scadenza del primo contratto a termine (qualora di durata inferiore a 6 mesi) ovvero entro 20 giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a 6 mesi), ai sensi del d.lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 3, qualora il secondo contratto (che "si considera a tempo indeterminato") sia stato stipulato dopo il 7 marzo 2015; c) il superamento "per effetto di una successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti" nel "rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore... complessivamente" dei "trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro", sicchè "il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato" (art. 5, comma 4-bis), qualora detto superamento sia successivo al 7 marzo 2015 (Cass. sez. un. 31 maggio 2016, n. 11374, p.ti da 54 a 59 in motivazione, ad illustrazione delle suddette ipotesi ed in particolare di quest'ultima, debitamente differenziata, proprio in merito alla diversa decorrenza rispetto a quella di successione di contratti a termine senza soluzione di continuità, prevista dal d.lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 4, per escluderne il contrasto con la clausola n. 5 dell'Accordo Quadro, recepito nella direttiva n. 1999/70/CE).