Attività svolta dal lavoratore subordinato durante il periodo di malattia: onere della prova
27 Aprile 2021
Introduzione
Lo svolgimento di un'attività extralavorativa (lavorativa o ludica) da parte del lavoratore assente dall'azienda per malattia ( ma anche per infortunio) è stato sempre un problema molto delicato che ha comportato per il datore di lavoro una attenta analisi dei comportamenti del dipendente al fine di prendere decisioni sanzionatorie proporzionate (art. 2106 c.c.) , se, in altri termini, comminare un provvedimento disciplinare conservativo o espulsivo (licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo). Nel rapporto pubblico contrattualizzato si è anche ravvisato a carico del lavoratore una responsabilità per danno erariale, in quanto secondo la Corte dei conti della Valle d'Aosta, 27 aprile 2009, n. 5., può ritenersi configurabile la responsabilità per danno erariale allorquando il dipendente abbia realizzato il disegno di assentarsi dal servizio, giustificando con la malattia la mancata prestazione del servizio stesso ,conservando in tal modo la relativa retribuzione, determinando di conseguenza il danno erariale, che verrebbe aconsistere “nella retribuzione percepita per il periodo di assenza, in realtà non giustificata dall'effettiva impossibilità, per motivi di salute, di prestare la propria opera.”, danneggiando in tal modo la pubblica amministrazione. Tale comportamento è stato sempre considerato dalla giurisprudenza come una violazione del dovere di correttezza e buona fede (art. 1175 c.c.) che incombeva sul dipendente nei confronti del suo datore di lavoro.
L'inadempimento del lavoratore potrebbe configurarsi: 1) generalmente nella compromissione o ritardo della guarigione e della conseguente ripresa del lavoro da parte del dipendente; 2) più raramente nella fraudolenta simulazione della malattia “che non consiste più soltanto nell'aver svolto un'attività ulteriore in costanza di malattia, ma nel fatto-ben più grave-di aver simulato la malattia sottraendosi all'obbligo di svolgere la prestazione lavorativa, simulazione desumibile dallo svolgimento di un'attività ulteriore in costanza di malattia.”. (Cass. 17625/2014).
Questa seconda ipotesi ci pare molto difficile da provare perché a monte v'è pur sempre una documentazione medica e comunque deve essere contestata esplicitamente. (v. sempre Cass. 17625/2014). Da ultimo la Cassazione (v. Cass. 6047/2018) ha introdotto anche la violazione del c.d. obbligo di cautela che si avrebbe quando il lavoratore con la sua condotta imprudente mette solo in pericolo la ripresa. Obbligo del lavoratore di offrire la propria residua capacità lavorativa al proprio datore di lavoro. Un orientamento giurisprudenziale, risalente agli anni '90, prevedeva che nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede il dipendente in malattia che, seppur inidoneo temporaneamente alle mansioni alle quali è assegnato dal datore dì lavoro, intenda svolgere attività lavorativa presso terzi in costanza di periodo di malattia, per essere non di meno idoneo a mansioni diverse, il cui espletamento non fosse pregiudizievole al fine di un più rapido recupero della piena idoneità fisica, “è tenuto ad offrire tale prestazione parziale al datore di lavoro, il quale - esercitando lo «jus variandi» di cui all'art. 2103 c.c. - avrebbe potuto temporaneamente assegnare il lavoratore proprio a quelle mansioni (equivalenti a quelle originarie) per le quali il lavoratore fosse idoneo” (Cass., sez. lav, 29 luglio 1998, n. 7467). Tale orientamento ci pare abbandonato soprattutto per motivi di ordine pratico in quanto non sarebbe facile misurare la “residua capacità lavorativa” del dipendente.
L'orientamento che si è andato affermando nel tempo non esclude che il lavoratore in stato di malattia possa volgere altra attività, sia essa lavorativa o ludica, anzi non mancano orientamenti che considerano utile per la ripresa lo svolgimento di alcune attività (ad esempio in caso di depressione della lavoratrice, v. Cass., 19 dicembre 2000, n. 15916), sempre che non comprometta la guarigione e la ripresa del lavoro o che sia di per sé stesso indice di simulazione della malattia.
L'approdo ultimo di una consolidata giurisprudenza è nel senso che lo svolgimento di un'attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia ben può giustificare il licenziamento da parte del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza, e buona fede tipici di ogni obbligazione, e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, previsti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., ma “solo se tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia e, quindi, una sua fraudolenta simulazione; oppure quando, in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l'attività compiuta dal lavoratore assente per malattia possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore” (Cass., 15 dicembre 2000, n. 15827).
Tale orientamento è stato confermato più recentemente. La Suprema Corte ha meglio precisato che in tema di licenziamento per giusta causa, la condotta del lavoratore, che, in ottemperanza delle prescrizioni del medico curante, si sia allontanato dalla propria abitazione e abbia ripreso a compiere attività della vita privata - la cui gravosità non è comparabile a quella di una attività lavorativa piena - senza svolgere una ulteriore attività lavorativa, non è idonea a configurare un inadempimento ai danni dell'interesse del datore di lavoro. È stato ribadito che i “l'espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimento dell'obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro, laddove si riscontri che l'attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell'inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l'espletamento di un'attività ludica o lavorativa ” (Cass. civ., 7 luglio 2020, n. 13980).
Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, “oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio” (Cass. sez. lav., 19 marzo 2019, n. 7641).
La prestazione d'attività lavorativa presso terzi durante l'assenza di malattia “con lo svolgimento delle medesime mansioni” è di per se stessa idonea a compromettere o comunque a ritardare la guarigione, legittimando il licenziamento del dipendente (Tribunale di Roma, 31 maggio 1999). Si è ormai consolidato un orientamento che afferma la liceità dell'utilizzo di una agenzia investigativa per il controllo del lavoratore nel periodo di assenza per malattia. Si era infatti sostenuto che tale utilizzo sarebbe illegittimo in quanto violerebbe a seconda dei casi gli artt. 2, 3, 4 e 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori), in quantol'attività investigativa tramite agenzia, disposta dal datore di lavoro, sarebbe consentita soltanto al fine di tutelare i beni aziendali e che avrebbe comportato anche la lesione del diritto alla riservatezza e all'immagine della persona ; si sono contestate anche videoriprese nella privata abitazione in quanto incompatibili anche con le norme che tutelano la riservatezza. Secondo la giurisprudenza di legittimità "le disposizioni dell'art. 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato d'incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l'assenza. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimi gli accertamenti demandati, dal datore di lavoro, a un'agenzia investigativa, e aventi a oggetto comportamenti extralavorativi, che assumevano rilievo sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro: Cass., 26 novembre 2014, n. 25162). In senso conforme si veda: Cass., 3 maggio 2001, n. 6236”.
Ma v'è un altro orientamento, che comunque non smentisce il precedente ma ne precisa i limiti: Secondo tale orientamento, nonostante l'insussistenza dello stato di malattia sia dimostrabile anche al di fuori della procedura di controllo individuata nell'ambito dell'art. 5, l. n. 300/1970 (c.d. Statuto dei lavoratori), in pratica, solo il ricorso a tale procedura può offrire elementi di valutazione rilevanti anche in riferimento all'elemento soggettivo, essenziale per l'illecito disciplinare; si conclude: “le indagini investigative svolte dal datore di lavoro rileverebbero solo in via sussidiaria alla procedura dì controllo prevista dallo statuto dei lavoratori” (Cass, sez. lav., n. 18507/2016). Si è anche ritenuto che il controllo del datore di lavoro, in concomitanza dello stato di malattia, potesse avere finalità diverse da quelle su esposte e, in particolare, di accertare la sussistenza di illeciti. Così nel caso di “attività lavorativa svolta, fuori dell'orario di lavoro, [dal lavoratore] per società concorrenti” si è ritenuto erroneamente che il controllo, riguardi un controllo sull'attività lavorativa dovuta e non già, come in effetti è, su di un comportamento illegittimo extralavorativo e rilevante ai fini disciplinari. In tali casi il controllo è i giustificato non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. sez. lav. n. 3590\2011, Cass. n. 848\2015).
Si è espressamente stabilito quindi che le disposizioni dell'art. 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, andavano interpretate nel senso che le stesse non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato d'incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l'assenza, ritenendo conseguentemente legittimi gli accertamenti demandati, dal datore di lavoro, a un'agenzia investigativa, e aventi a oggetto comportamenti extralavorativi, che pure assumevano rilievo disciplinare sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro (Cass. sez, lav. n. 25162\2014). Onere della prova
Si danno orientamenti contrastanti: a) Orientamento che pone l'onere a carico del lavoratore Si ritiene che nell'ipotesi in cui il dipendente assente per malattia venga sorpreso a svolgere attività lavorativa presso terzi, gravi su di lui l'onere di provare la compatibilità dell'attività svolta con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, e perciò l'inidoneità di tale attività a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative
“Il lavoratore al quale sia contestato in sede disciplinare di avere svolto un altro lavoro durante un'assenza per malattia ha l'onere di dimostrare la compatibilità dell'attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico - fisiche, restando peraltro le relative valutazioni riservate al giudice del merito all'esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto. “(Nella specie il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva accertato che la lavoratrice ricorrente, affetta da depressione a seguito di una dermatite, non aveva prestato regolare servizio presso il bar in cui era stata sorpresa, di cui era titolare la figlia, limitandosi a un libero e sporadico aiuto, non incompatibile con le sue condizioni di salute e semmai idoneo a coadiuvare la guarigione; aveva annullato quindi l'impugnato licenziamento – Cass., 19 dicembre 2000, n. 15916).
b) Orientamento che pone l'onere a carico del datore di lavoro Sia che lo svolgimento di un'attività esterna da parte del lavoratore assente per malattia sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia e, quindi, una sua fraudolenta simulazione, sia che, in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l'attività compiuta dal lavoratore assente per malattia possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, in entrambe le ipotesi, incombe sul datore di lavoro l'onere di provare - come fatti giustificativi della legittimità dell'intimato licenziamento - l'inesistenza o la ragionevole certezza dell'inesistenza della dedotta malattia oppure il pregiudizio arrecato alla pronta guarigione e al sollecito rientro in servizio del lavoratore in conseguenza dell'attività da questo prestata in costanza di malattia (Cass., sez. lav., 15 dicembre 2000, n. 15827).
Anche rafforzare l'importanza nella fattispecie della presenza di una documentazione medica si è ulteriormente ritenuto essere il datore di lavoro onerato della prova che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al dipendente, il comportamento tenuto dal lavoratore durante il periodo di inabilità temporanea certificata contrasti con gli obblighi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto di lavoro senza quindi che il lavoratore sia a sua volta onerato a provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all'attività lavorativa (Cass. sez. lav., 7 luglio 2020, n. 13980). In conclusione
Deve dirsi in conclusione che la prova che l'attività, sia propriamente lavorativa che ludica, svolta dal lavoratore in stato di malattia comporti la compromissione o ritardo della guarigione e della conseguente ripresa del lavoro da parte del dipendente non è facile da darsi né da parte del datore di lavoro nè da parte del lavoratore.
Ancora più difficile ci pare che possa darsi da parte del lavoratore la prova della non incidenza sulla ripresa dell'attività svolta in periodo di malattia dallo stesso, anche per ragioni di carattere economico considerati i costi di una perizia tecnica. Si parla infatti, in generale, del processo del lavoro come un processo “semi dispositivo o parzialmente acquisitivo" in quanto il giudice in tale processo, in forza dell'art. 421, c. 2, c.p.c., è dotato sì di particolari poteri istruttori che tuttavia non ne fanno comunque un processo inquisitorio in quanto i mezzi di prova ammessi d'ufficio devono pur trovare il loro fondamento nelle allegazioni delle parti. |