Anche il ricorso cautelare ante causam è idoneo ad impedire la decadenza da “Collegato lavoro”
28 Aprile 2021
Massima
La mancata previsione del ricorso per provvedimento d'urgenza ante causam, ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c., quale atto idoneo a impedire, se proposto nel termine di decadenza, l'inefficacia dell'impugnazione stragiudiziale del primo comma dell'art. 6 della legge n. 604 del 1966, è contraria al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), se posta in comparazione con l'idoneità riconosciuta, dal secondo comma del citato art. 6, alla richiesta di attivazione della procedura conciliativa o arbitrale, nonché al principio di ragionevolezza (riconducibile anch'esso all'art. 3 Cost.), in riferimento alla finalità sottesa alla previsione del termine di decadenza, essendo la domanda di tutela cautelare idonea a far emergere il contenzioso insito nell'impugnazione dell'atto datoriale. Il caso
Con ricorso cautelare ante causam ex art. 700 c.p.c. un lavoratore impugnava – entro il termine di 180 giorni previsto dall'art. 6, comma 2, l. n. 604/1966 – il provvedimento di trasferimento disposto dal datore di lavoro.
La società datrice di lavoro, nel costituirsi in giudizio, eccepiva la decadenza del ricorrente dalla facoltà di impugnare il trasferimento, rilevando che il lavoratore, dopo il deposito del ricorso cautelare non aveva instaurato, nel medesimo termine di 180 giorni, la causa di merito, né aveva formulato istanza di conciliazione o di arbitrato.
L'azienda giustificava l'eccezione sul presupposto dell'inidoneità del ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. ad impedire la predetta decadenza, in accordo con costante giurisprudenza di legittimità, potendosi riconoscere capacità di impedire la predetta decadenza esclusivamente al ricorso ex art. 414 c.p.c., ovvero alla comunicazione della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato.
Il Tribunale sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, l. n. 604/1966 per violazione degli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost., nonché in relazione all'art. 6 CEDU, proprio in considerazione del constante indirizzo interpretativo della Suprema Corte, secondo cui il ricorso cautelare ante causam non è idoneo ad impedire la decadenza ex art. 6 cit.
Nella prospettiva del giudice a quo tale linea interpretativa conduce, infatti, all'irragionevole risultato di precludere definitivamente al lavoratore l'accesso alla tutela cautelare, pur costituzionalmente necessaria ex art. 24 Cost., a fronte di incisivi atti datoriali, qualora nelle more spiri il termine di decadenza ex art. 6, comma 2, l. n. 604/1966, senza la proposizione del ricorso ordinario, del tentativo di conciliazione o di arbitrato. La questione
La questione di costituzionalità riguardava l'irragionevole – nella prospettiva del giudice rimettente – esclusione del procedimento cautelare dal novero delle fattispecie idonee ad impedire la decadenza dall'impugnazione del provvedimento datoriale. Le soluzioni giuridiche
La Corte costituzionale ha accolto la questione di costituzionalità sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza, ai sensi dell'art. 3 Cost., ritenendo assorbiti gli ulteriori parametri.
Il ragionamento della Corte, in estrema sintesi, è il seguente: l'art. 6, l. n. 604/1966 – dopo le modifiche della l. n. 183/2010 e della l. n. 92/2012 – pone a carico del lavoratore un doppio onere: l'impugnazione del provvedimento datoriale entro sessanta giorni; successivamente, entro centottanta giorni, a pena di perdita di efficacia della stessa impugnazione, in alternativa: a) la proposizione della domanda in sede contenziosa; b) l'instaurazione di un procedimento di conciliazione; c) la richiesta di instaurazione di un procedimento arbitrale.
Nell'ambito di tale meccanismo a tre strade, la mancata previsione del ricorso per provvedimento d'urgenza, ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c., quale atto idoneo a impedire, se proposto nel termine di decadenza, l'inefficacia dell'impugnazione stragiudiziale del 1° comma dell'art. 6, l. n. 604/1966, è: contraria, da un lato, al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) se posta in comparazione con l'idoneità riconosciuta dalla stessa disposizione alla richiesta di attivazione della procedura conciliativa o di quella arbitrale; contraria, dall'altro, al principio di ragionevolezza (sempre riconducibile all'art. 3 Cost.), rispetto alla finalità normativa sottesa alla previsione del termine di decadenza in esame di fare emergere il contenzioso insito nell'impugnazione dell'atto datoriale.
Sotto il primo profilo, la Corte ha ritenuto decisivo il fatto che i provvedimenti cautelari sono caratterizzati da una sorta di “definitività” – pur se condizionata in modo risolutivo ad una differente decisione assunta nel giudizio di merito eventualmente incardinato dalla parte in causa che non si ritenga soddisfatta dall'assetto di interessi cristallizzato nella pronuncia d'urgenza – che non li rende certamente meno idonei degli atti stragiudiziali indicati dalla medesima norma a manifestare al datore di lavoro l'interesse del lavoratore ad ottenere la rimozione dell'atto impugnato.
In altre parole, secondo la Consulta “l'esercizio dell'azione cautelare, in quanto a tutti gli effetti esercizio dell'azione giurisdizionale (art. 24, comma 1, Cost.) in conformità alla garanzia del giusto processo (art. 111, comma 1, Cost.), non può ricevere una posizione deteriore rispetto ai metodi alternativi di risoluzione della controversia”, senza che vi sia una violazione del principio di eguaglianza.
Sotto altro profilo, la Corte costituzionale ha evidenziato come la ratio del legislatore del “Collegato lavoro” fosse quella di far emergere tempestivamente il contenzioso avente ad oggetto l'impugnativa dell'atto datoriale, e che la previsione della perdita di efficacia dell'impugnativa stragiudiziale (se non coltivata tempestivamente nella sede giudiziaria o in altra analoga, quella conciliativa o arbitrale) fosse strumentale al superamento dello stato di incertezza sulla sorte dell'atto, altrimenti gravante sul datore di lavoro e suscettibile di incidere in modo significativo sull'organizzazione e sulla gestione dell'impresa.
Ebbene, secondo la Consulta l'inidoneità del ricorso per provvedimento d'urgenza ante causam ad impedire la decadenza di cui al secondo comma dell'art. 6 della l. n. 604/1966 costituisce una conseguenza sproporzionata ed irragionevole, poiché una volta proposto il ricorso cautelare viene meno il rischio che la decadenza ex art. 6 cit. intende evitare – ovvero quello di una contestazione della legittimità dell'atto datoriale che rimanga silente per lungo tempo, nel solo rispetto del termine prescrizionale dell'azione di annullamento o addirittura senza questo limite nel caso di imprescrittibilità dell'azione di nullità – perché il lavoratore è già “uscito allo scoperto” nel momento in cui ha adito il giudice della cautela.
Non solo, ma è lo stesso regime di strumentalità attenuata che consente di superare l'impasse: invero, una volta definita la vicenda cautelare, ben può il datore di lavoro assumere l'iniziativa di far venire meno ogni incertezza sul rapporto giuridico sostanziale, ove ne residui alcuna, promuovendo egli stesso il giudizio di merito (art. 669-octies, comma 6, c.p.c.).
Il bilanciamento di interessi è stato dunque risolto in favore dell'incostituzionalità della norma censurata, anche in ragione del fatto che entrambe le parti in causa, e dunque anche il datore di lavoro, possono introdurre il successivo giudizio di merito, onde scongiurare qualsivoglia incertezza sul punto; inoltre, ad avviso della Consulta non si vede perché la norma criticata non debba attribuire la stessa efficacia (di impedire la decadenza) riconosciuta alla richiesta di attivazione della procedura conciliativa o di quella arbitrale, anche alla “più pregnante iniziativa” del ricorso cautelare, rivolto direttamente alla cognizione del giudice, cui tra l'altro il datore di lavoro non può sottrarsi. Osservazioni
L'impugnazione dei provvedimenti datoriali, così come legislativamente disciplinata dall'art. 6, l. n. 604/1966, a seguito delle modifiche apportate dalla l. n. 183/2010, art. 32 (c.d. Collegato lavoro) e dall'art. 1, comma 38, della l. n. 92/2012, prevede un meccanismo complesso, articolato su una doppia iniziativa del lavoratore: entro sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione dell'atto datoriale, o dei suoi motivi, egli deve trasmettere un qualsivoglia atto scritto, anche stragiudiziale, purché idoneo a rendere nota al datore la volontà del lavoratore di fare valere l'illegittimità del provvedimento (art. 6, comma 1); nei centottanta giorni successivi il lavoratore deve depositare il ricorso presso la cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o comunicare alla controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato (art. 6, comma 2), pena l'inefficacia sopravvenuta della precedente impugnativa stragiudiziale.
In altre parole, il legislatore ha introdotto, nell'ambito del diritto del lavoro, un'eccezione alle generali regole sulla prescrizione, gravando l'impugnativa dei provvedimenti datoriali di due distinti e successivi termini decadenziali, la cui efficacia è interamente rimessa al controllo dello stesso impugnante il quale, dopo aver assolto alla prima delle incombenze di cui è onerato, è assoggettato a quella ulteriore di attivare la fase giudiziaria o stragiudiziale entro il termine prefissato (cfr. Cass., sez. lav., 17 agosto 2020 n. 17197).
In tale contesto, la giurisprudenza di legittimità ha più volte sottolineato che la proposizione di un ricorso cautelare, ai sensi dell'art. 700 c.p.c., non è in grado di interrompere il termine di decadenza previsto dal secondo comma dell'art. 6 cit.
Ciò in quanto, l'assenza, nel sistema della strumentalità attenuata di cui all'art. 669-octies, comma 6 c.p.c., di un termine entro il quale instaurare il giudizio di merito all'esito del procedimento cautelare – potenzialmente proponibile fino allo spirare dell'ordinario termine di prescrizione – vanificherebbe l'obiettivo della disciplina introdotta dalla l. n. 183/2010, ovvero di provocare in tempi ristretti una pronuncia di merito sulla legittimità del licenziamento, attraverso la previsione di termini di decadenza per l'azione in giudizio, così operando un non irragionevole bilanciamento tra la necessità di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa del lavoratore, il quale è immediatamente in grado di conoscere quale sia il dies a quo del termine per il deposito del ricorso giudiziale (cfr. Cass., sez. lav., 9 dicembre 2019, n. 32073; 15 novembre 2018 n. 29429; 6 dicembre 2018, n. 31647; 7 novembre 2017, n. 26309; 14 luglio 2016, n. 14390; 5 novembre 2015, n. 22627).
Con la pronuncia in commento la Corte costituzionale, proprio muovendo dalla indicata finalità acceleratoria dei tempi di emersione del contenzioso sull'atto datoriale sottesa all'art. 6 comma 2, l. n. 604/1966, giunge a conclusioni di segno contrario rispetto a quelle proprie dell'indirizzo ermeneutico dominante, ritenendo che la norma impugnata, per come interpretata dal diritto vivente, non superi lo scrutinio di legittimità costituzionale.
Le questioni affrontate dalla Consulta sono due: da un lato, c'è il problema della legittimità costituzionale della norma censurata, che la Corte risolve affermando la non conformità a costituzione dell'esclusione del ricorso cautelare ante causam dal novero delle iniziative idonee ad impedire l'inefficacia dell'impugnazione stragiudiziale dell'atto datoriale; dall'altro, c'è quello della disciplina applicabile dopo la dichiarazione di incostituzionalità, in relazione alla quale la Consulta ritiene la decadenza definitivamente impedita dal mero esercizio dell'azione cautelare ante causam, indipendentemente dal risultato cui conduce e, quindi, anche qualora non segua il giudizio di merito.
Ebbene, la pronuncia della Consulta – del tutto condivisibile nella parte in cui conclude che la sanzione della perdita d'efficacia dell'impugnazione inflitta al lavoratore che abbia agito ex art. 700 c.p.c. è sproporzionata ed irragionevole – pare non curarsi a sufficienza delle obiezioni sottese al consolidato orientamento della Corte di cassazione, per cui la decadenza può essere impedita soltanto per il tramite dell'esercizio dell'azione e la tempestiva proposizione del giudizio di merito.
Invero, a fronte dell'osservazione per cui il provvedimento cautelare non ha efficacia decisoria, e quindi non solo non impedisce la successiva istaurazione di un processo di cognizione, ma neppure la impone, trattandosi di un provvedimento cautelare anticipatorio, la Consulta ritiene il problema facilmente risolvibile sulla base del rilievo che “una volta definita la vicenda cautelare, ben può il datore di lavoro assumere l'iniziativa per far venir meno ogni incertezza sul rapporto giuridico sostanziale in essere – ove ne residui alcuna – promuovendo egli stesso il giudizio di merito”.
L'impressione generale è, però, che resti irrisolta la questione del deficit di effettività della tutela che consegue all'esito del giudizio cautelare ante causam, stante l'assenza di un termine per introdurre il giudizio di merito.
A tale riguardo, appare significativo quanto osservato da autorevole dottrina (cfr. Luiso, A ciascuno il suo mestiere: breve commento a Corte costituzionale 14 ottobre 2020, n. 212, in judicium.it), la quale evidenzia come la ratio dell'art. 6 della l. n. 604/1966, dopo le riforme del 2010 e del 2012, non è tanto (e non solo) la “emersione” del contenzioso – per evitare che “una contestazione della legittimità del trasferimento (o di un altro atto datoriale, quale innanzitutto il licenziamento) … rimanga silente per lungo tempo, nel solo rispetto del termine prescrizionale dell'azione di annullamento o addirittura senza questo limite nel caso di imprescrittibilità dell'azione di nullità” – quanto, e soprattutto, “giungere quanto prima ad una stabilizzazione degli effetti del provvedimento datoriale, vuoi nel senso della conferma degli stessi, vuoi nel senso della loro rimozione”.
In effetti, che questa sia la ratio ispiratrice dell'intervento di riforma – cioè quella di giungere quanto prima ad una stabilizzazione degli effetti del provvedimento datoriale – si ricava chiaramente dallo stesso secondo comma dell'art. 6, l. n. 604/1966 che, per i casi in cui la perdita di efficacia dell'impugnazione deriva dalla richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato, prevede che, ove la conciliazione non riesca oppure la proposta di arbitrato non sia accettata, inizi a decorrere di nuovo il termine di decadenza entro il quale deve essere proposta la domanda giudiziale.
In particolare, nell'evenienza in cui il lavoratore veda sbarrata la strada di questi due canali alternativi, in ragione del difetto di consenso della controparte datoriale all'espletamento della procedura conciliativa o arbitrale, lo stesso art. 6, comma 2, l. n. 604/1966 recupera la via giudiziaria ordinaria: il ricorso al giudice deve essere infatti depositato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
La ricostruzione qui condivisa trova ulteriore riscontro nel tenore letterale dell'art. 6, comma 2, cit., perché la locuzione “L'impugnazione è inefficace se…” sta ad indicare che, indipendentemente dal suo perfezionarsi (dell'impugnativa stragiudiziale), il lavoratore deve attivarsi, nel termine indicato, per promuovere il giudizio di merito, anche nel caso in cui la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo.
Alla luce di tali considerazioni, non appare corretto sostenere che la “emersione” del contenzioso, derivante dallo svolgimento del procedimento cautelare, sia sufficiente a far ritenere soddisfatto quanto prevede il secondo comma dell'art. 6, l. n. 604/1966: “se così fosse, anche la richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato dovrebbero essere sufficienti, in quanto anche essi producono l'emersione del contenzioso non meno di quanto accade per il procedimento cautelare” (cfr. Luiso, op. cit.).
Al contrario, se il legislatore del 2010 e del 2012 ha ritenuto che la richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato non fosse sufficiente, ponendo a carico del lavoratore, oltre all'onere di tentare la risoluzione stragiudiziale della controversia, anche quello di attivarsi, nel termine indicato, per promuovere il giudizio di merito, ciò significa che anche il provvedimento cautelare non può considerarsi, di per sé, sufficiente, così come non può dirsi sufficiente la previsione della possibilità che sia il datore di lavoro a proporre la domanda in giudizio (art. 669-octies, comma 6, c.p.c.).
A ben guardare, l'ingranaggio cui dà vita la scelta interpretativa adottata dalla Corte costituzionale sembra incepparsi allorché, chiusosi il procedimento cautelare, deve ammettersi la proponibilità dell'azione di accertamento, per sua natura sottratta a termini di decadenza, da parte del datore di lavoro (qualora si ritenga il datore di lavoro titolare del relativo interesse ad agire), e dell'azione, a seconda delle qualificazioni, di accertamento o di annullamento (quest'ultima soggetta a prescrizione quinquennale) da parte del lavoratore.
Il che, come osservato in dottrina (nella diversa, ma pertinente, ipotesi di chiusura in rito del procedimento di impugnativa del licenziamento) “sul piano sistematico, pare inaccettabile, perché consente ad una pronuncia di mero rito (nella specie, ad una pronuncia cautelare, sia essa di rigetto o di accoglimento) di modificare la disciplina sostanziale dell'impugnativa del licenziamento, eliminando il termine decadenziale; sul piano pratico, si presta ad usi distorti, giacché può favorire la consapevole instaurazione del giudizio di impugnativa del licenziamento con le forme errate (ovvero, nella specie, di un ricorso cautelare), confidando nella pronuncia di inammissibilità (o di infondatezza), al fine di eludere il termine e, di conseguenza, aggirare la ratio della sua introduzione ;, costituita, come è noto, dall'esigenza di certezza dei rapporti giuridici” (cfr. A.D. De Santis, Errore sul rito, inammissibilità dell'impugnativa del licenziamento e impedimento della decadenza, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc. 2, 2015, 481).
Vi è però una disposizione – l'ultima parte del secondo comma dell'art. 6, l. n. 604/1966 – la quale stabilisce che qualora “la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”.
Orbene, non è chiaro perché non possa prevedersi che, in deroga all'art. 669-octies c.p.c., anche in caso di ricorso per provvedimento d'urgenza ante causam promosso per impedire la decadenza da “Collegato lavoro” la domanda di merito debba essere proposta a pena di decadenza nel termine di sessanta giorni, decorrente dalla pronuncia (se avvenuta in udienza) o dalla comunicazione del provvedimento cautelare (o dell'ordinanza che decide l'eventuale reclamo) (sul punto, cfr. Luiso, op. cit.). |