Il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. è integrato anche quando le condotte tipiche sono poste in essere in ambito lavorativo?
08 Luglio 2021
Massima
Il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato negli ambienti di lavoro ristretti nei quali si crea un rapporto para-familiare, in quanto tale reato si realizza tra soggetti legati da un rapporto di prossimità permanente (familiare o di tipo familiare) scaturente da una relazione di convivenza e/o di comunanza di vita o comunque da un intenso rapporto (di lavoro, di affidamento) ossia da un legame che, destinato a durare nel tempo, rende la vittima, in quanto tale, un soggetto particolarmente vulnerabile nei confronti di chi, in ragione della propria posizione, è chiamato al rispetto e alla solidarietà. Il caso
L'imputato era stato riconosciuto colpevole, in entrambi i gradi del giudizio di merito, del reato di cui all'art. 572 c.p., oltre a quello di cui agli artt. 81 e 609-bis c.p. Il delitto ex art. 572 c.p. era stato contestato per avere commesso, con abitualità, nel corso dell'esercizio dell'attività lavorativa presso una farmacia, atti di maltrattamento, lesivi della integrità morale nei confronti delle proprie dipendenti, nello specifico la farmacista e la magazziniera, consistiti in vessazioni ed offese quotidiane, quali utilizzo di appellativi disonoranti, impedimento dell'utilizzo del bagno se non dietro pagamento di una quota, costrizione ad eseguire punizioni umilianti da lui imposte in caso di errori nel lavoro, costrizione di una delle due, dietro la minaccia del licenziamento e a volte anche con calci e colpi, a svolgere faccende domestiche nella propria abitazione, a lavare la propria auto e a compiere altre mansioni non previste nel contratto di impiego. I giudici di merito avevano ritenuto configurabile la fattispecie di maltrattamenti in famiglia (nella formulazione antecedente le modifiche apportate dalla l. n. 172/2012) sul presupposto che il luogo di lavoro fosse una farmacia, dunque un luogo assai limitato, ove le mansioni di ciascun dipendente venivano quotidianamente svolte a stretto contatto, anche fisico, degli altri dipendenti sotto la vigilanza del datore di lavoro, e che, alla luce di tali caratteristiche e del fatto che poche persone passavano tutta la giornata lavorativa e tutte le giornate dell'anno a stretto contatto, in un piccolo luogo sotto la diretta, continua e immediata direttiva e vigilanza del datore di lavoro, l'ambiente di lavoro poteva considerarsi di tipo familiare. Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso per Cassazione l'imputato adducendo diversi motivi, in particolare lamentando l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione (art. 606, comma 1, lettera b) ed e), c.p.), in relazione all'art. 572 c.p. e all'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale del codice civile. Secondo il ricorrente, entrambe le pronunce avevano errato nell'assimilare il rapporto di lavoro tra imputato e persona offesa ad un rapporto di para-familiarità sul solo presupposto delle modeste dimensioni del luogo di lavoro e della relazione subordinata, trascurando che il reato ex art. 572 c.p., all'epoca dei fatti, era indirizzato esclusivamente alla famiglia ed ai fanciulli tanto che era inserita nel titolo dei delitti contro la famiglia; alla luce di ciò, le condotte poste in essere non avrebbero potuto integrare tale reato in quanto il rapporto di subordinazione lavorativa tra l'imputato e la persona offesa non aveva assunto natura para-familiare, sicché non poteva ritenersi idoneo a configurarlo, in siffatti termini, il mero contesto di un rapporto di subordinazione/sovraordinazione in ambiente di lavoro, anche ristretto, a meno che non si fosse fatto ricorso ad un'applicazione analogica della legge penale, vietata però dal principio di tipicità dell'illecito penale, oltre che dall'articolo 14 delle preleggi. La Suprema Corte con la Sentenza di cui si tratta ha respinto sul punto il ricorso. La questione
La questione in esame è la seguente: il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. è integrato anche quando le condotte tipiche sono poste in essere in ambito lavorativo? Le soluzioni giuridiche
La sentenza in commento ha rigettato il motivo di ricorso offrendo la seguente interpretazione. Sulla base del presupposto che l'art. 572 c.p. indica, quale soggetto passivo del reato, non solo una persona della famiglia o comunque convivente, ma anche una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, la Suprema Corte ha affermato che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione ("mobbing"), anche dopo le modifiche apportate dalla l. n. 172/2012, possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, ovvero quando sia caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. La Corte ha precisato che, qualora il rapporto tra soggetto attivo e soggetto passivo non rientri nel contesto tipico della famiglia, solo un rapporto di natura para-familiare, alterato dallo svilimento e dall'umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, può rendere configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia. La "familiarità" deve essere intesa quale sussistenza di relazioni abituali e intense, consuetudini di vita tra i soggetti, soggezione di una parte nei confronti dell'altra (rapporto supremazia-soggezione), fiducia riposta dal soggetto passivo, parte più debole, nel soggetto attivo che è, invece, destinatario di obblighi di assistenza verso il primo. Tali elementi non devono sussistere congiuntamente ma è sufficiente la presenza di uno o più indici indicativi di uno stretto legame tra i soggetti. In definitiva, se l'area della punibilità del reato, di cui all'art. 572 c.p., è caratterizzata elettivamente dal requisito della "familiarità", essendo comunque la fattispecie incriminatrice inserita nei delitti contro l'assistenza familiare, e se il fatto di reato, evidentemente per assimilazione, può essere realizzato anche in contesti diversi dagli ambiti familiari, ne consegue che queste ultime condotte devono, per essere conformi al tipo, assumere i tratti della familiarità, non nel senso che devono possedere requisiti identici a quelli propri dei consorzi familiari ma devono essere dotate di uno o più elementi tipici della familiarità, elementi che si costituiscono tra soggetti avvinti da legami di prossimità permanente (ossia cronologicamente consistenti o continuativi) e che si traducono in relazioni abituali e intense tra persone che condividono, sia pure con distinzione dei ruoli, una medesima comunità familiare, di lavoro, di cura, di affidamento o di assistenza, nell'ambito della quale possono intrattenere le stesse consuetudini di vita e/o trovarsi in una posizione di soggezione di una parte nei confronti dell'altra (rapporto supremazia-soggezione), e/o riporre (il soggetto passivo) fiducia nel soggetto attivo, destinatario quest'ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perché parte più debole del rapporto instaurato all'interno della comunità di riferimento. Affinché sia integrata la fattispecie incriminatrice in parola, occorre che i singoli fatti appaiano congiunti tutti insieme da un nesso di abitualità, nel senso che essi non devono risultare, di volta in volta, meramente occasionali o improvvisi, ma devono essere avvinti, nella loro serie, da un'unica intenzione criminosa, in quanto è appunto il collegamento di codesta pluralità di azioni la cifra che caratterizza il reato di maltrattamenti. La fattispecie incriminatrice de qua integra una ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali, isolatamente considerati, potrebbero anche non costituire reato ed essere quindi in sé non punibili (atti di vessazione, di sopraffazione, di sopruso, di umiliazione generica, etc.) ovvero non penalmente perseguibili (ingiurie) o procedibili solo a querela, come le percosse o le minacce lievi ma che rinvengono la ratio dell'incriminazione nella loro reiterazione, che si protrae nel tempo, e nella persistenza dell'elemento intenzionale (dolo di maltrattare). Secondo la Suprema Corte, la Corte d'Appello, e il Tribunale prima, hanno chiarito correttamente quando sussiste un rapporto para-familiare in ambito lavorativo; nel caso di specie, infatti, il luogo di lavoro, essendo una farmacia, era assai limitato e, al suo interno, le mansioni di ciascun dipendente venivano quotidianamente svolte a stretto contatto, anche fisico, con gli altri dipendenti e con il datore di lavoro, il quale esercitava il potere direttivo in un ambiente di tipo familiare, tenuto anche conto del fatto che poche persone trascorrevano tutta la giornata lavorativa e tutte le giornate dell'anno a stretto contatto, in un piccolo luogo e sotto la diretta, continua e immediata vigilanza del datore di lavoro. In conclusione, il fatto di reato di cui all'art. 572 c.p. si realizza tra soggetti legati da un rapporto di prossimità permanente (familiare o di tipo familiare) scaturente da una relazione di convivenza e/o di comunanza di vita o comunque da un intenso rapporto (di lavoro, di affidamento) ossia da un legame che, destinato a durare nel tempo, rende la vittima, in quanto tale, un soggetto particolarmente vulnerabile nei confronti di chi, in ragione della propria posizione, è chiamato al rispetto e alla solidarietà. Osservazioni
La Corte di Cassazione, con detta sentenza, ha affrontato un tema, quello della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia all'interno dei luoghi di lavoro, che aveva trovato già applicazioni in senso positivo nella giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. pen., Sez. VI, n. 14754/2018, n. 13088/2014, n.2860/2013, n. 16094/2012, n. 43100/2011, n. 685/2010 e n. 26594/2009). La Sentenza si segnala per la chiarezza e l'ampiezza della motivazione, che, oltre a ripercorrere temi già sviluppati da precedenti sentenze, si sofferma su alcuni concetti basilari. In primo luogo, valorizza l'inserimento del reato di maltrattamenti tra i delitti contro l'assistenza familiare, precisando come esso sia in linea con il ruolo che la stessa Costituzione assegna alla "famiglia", quale società intermedia destinata alla formazione e all'affermazione della personalità dei suoi componenti, cosicché, nella stessa ottica, vanno letti e interpretati, secondo la giurisprudenza della Corte, soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura para-familiare; chiarisce, poi, che la concezione arcaica della famiglia contenuta nel codice Rocco, intesa quale nucleo elementare, coniugale e parentale, della società, concezione comprensiva dell'interesse dello Stato alla salvaguardia del consorzio familiare in quanto istituto di ordine pubblico, deve essere rivista e aggiornata alla luce del progresso sia culturale che costituzionale, al punto che la famiglia, attualmente, costituisce una formazione sociale intermedia tra l'individuo e lo Stato, entro la quale si forma e si afferma la persona umana, sia come singolo che come membro di una comunità. In tale ottica, si modella il concetto penalistico di famiglia per indicare un aggregato in senso ampio, non necessariamente vincolato da stretti rapporti parentali o di sangue, ponendo l'accento sul fatto che elemento qualificante della ratio dell'incriminazione è una relazione tra soggetto maltrattante e vittima definibile in termini di "convivenza" all'interno di un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà o, comunque, di "comunanza di vita". Queste considerazioni sul concetto di famiglia, portano, poi, la sentenza in commento a delineare più esattamente il bene giuridico protetto dalla norma, che non può essere ristretto all'integrità psico-fisica di coloro che, per età o per rapporti di tipo familiare o di affidamento, si trovino nelle condizioni di subire, proprio nei contesti in cui dovrebbero ricevere maggior protezione, condotte di prevaricazione fisica o morale, ma deve essere esteso alla «personalità dell'individuo», sul rilievo che la reiterazione degli atti, attentando alla dignità della persona (sia essa membro della famiglia, un convivente, un lavoratore, un anziano) attribuisce alla condotta un'oggettività giuridica autonoma rispetto a quella dei singoli atti, con la conseguenza che la condotta del maltrattare, per la sua durata e ripetitività, lede l'intera personalità, mentre il singolo atto (percossa, ingiuria, minaccia) lede l'integrità psicofisica del soggetto passivo. Tale analisi contenuta nella sentenza, da saldo fondamento all'affermazione di principio, secondo la quale il reato di maltrattamenti in famiglia è anche integrato negli ambienti di lavoro ristretti nei quali si crea un rapporto para-familiare. |