L'improcedibilità del ricorso in cassazione per omesso deposito della relazione di notificazione
16 Luglio 2021
Stando all'art. 369 c.p.c., il ricorso per cassazione deve essere depositato nella cancelleria della S.C., a pena di improcedibilità, «nel termine di giorni venti dall'ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto». Unitamente al ricorso debbono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità, una serie di documenti tra cui, in virtù del comma 2, n. 2 del medesimo art. 369 cit., la «copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta». Scopo di tale obbligo di deposito è quello di consentire alla Cassazione di controllare la tempestività dell'esercizio del diritto di impugnazione (giacché, come è noto, una volta che sia stata effettuata la notifica della sentenza, il ricorrente deve rispettare il c.d. «termine breve» di impugnazione del provvedimento) a tutela dell'interesse di carattere pubblicistico (e quindi indisponibile per le parti) al rispetto del vincolo della cosa giudicata formale. La norma è stata però oggetto di interpretazioni diverse, in passato assai restrittive. Per un orientamento assai risalente (e altrettanto rigoroso), l'obbligo di deposito sia della sentenza impugnata che della relazione di notificazione doveva essere adempiuto contestualmente al deposito del ricorso nel termine di venti giorni dall'ultima notifica (così v. per tutte Cass. civ., 3 luglio 1971, n. 2067; Cass. civ., 21 ottobre 1995, n. 10959, in Giur. it., 1996, I, 580). Tale approccio è stato successivamente mitigato, avendo le Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un. 25 novembre 1998, n. 11932, in Giur. it., 1999, I, 1, 1584) affermato la possibilità di allegare copia autentica di sentenza e relata anche separatamente dal deposito del ricorso, facendo leva sull'applicazione estensiva dell'art. 372, secondo cui è ammesso il deposito autonomo di documenti riguardanti l'ammissibilità del ricorso (sempre nel termine perentorio di venti giorni dall'ultima notifica). La Cassazione, tuttavia, ha per molto tempo negato che l'obbligo di deposito della copia autentica della sentenza e della eventuale relata di notifica della stessa potesse essere sostituito da «equipollenti», quali la non contestazione o il deposito da parte del controricorrente della copia autentica della sentenza impugnata munita della relata di notifica ovvero la sua presenza nel fascicolo d'ufficio trasmesso dal giudice a quo. In tal senso si sono espresse le Sezioni Unite con la sentenza n. 9005/2009 (in Corr. giur., 2009, 1358 ss.), per la quale non può farsi questione dell'eventuale esistenza di equipollenti per il fatto che il resistente non abbia svolto attività difensiva nel giudizio di cassazione o abbia depositato lui stesso la copia notificata della sentenza impugnata con la relata o, ancora, una copia si rinvenga nel fascicolo d'ufficio. Quest'indirizzo è stato aspramente criticato in dottrina, osservandosi, tra l'altro, che escludere la rilevanza degli atti equipollenti ma contemporaneamente, escludere la necessità del contestuale deposito di ricorso e sentenza notificata, «dà luogo ad una scelta in sé contraddittoria» (C. Vanz, Sulle sorti (forse ancora da ridiscutere) del ricorso in cassazione in caso di mancato deposito della copia autentica della sentenza e della relata di notifica, in Giur. it., 2009, 384). A ciò può aggiungersi che l'affermazione ricorrente in giurisprudenza per cui il termine di venti giorni previsto dall'art. 369, comma 2, c.p.c. per il deposito del provvedimento impugnato è unicamente finalizzato per permettere un controllo della verifica della tempestività dell'impugnazione e del riscontro della fedeltà documentale permette un'interpretazione ben più ampia di quella fornita dal S.C., giacché nella prassi del procedimento in cassazione queste verifiche avvengono in occasione della decisione sull'impugnazione e, dunque, in un tempo assai lontano dalla scadenza del termine di venti giorni dalla notifica del ricorso. Spinta forse dai suggerimenti avanzati in dottrina, più di recente la Cassazione ha affermato che il mancato deposito ex art. 369 c.p.c. da parte del ricorrente in cassazione della copia autentica della decisione impugnata munita della relata di notificazione è inidonea a determinare l'improcedibilità del ricorso ove detta relata sia comunque presente nel fascicolo perché acquisita d'ufficio o perché prodotta dal controricorrente. La Cassazione, dopo aver riconosciuto le difficoltà di conciliare la soluzione meno rigida con il tenore letterale dell'art. 369, il quale chiede inequivocabilmente il deposito della relata «se la sentenza è notificata», avvalora la propria conclusione sulla base di un unico argomento, fondato sull'interpretazione del primo periodo dell'art. 6, par. 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, osservando che il diritto di accesso alla giustizia costituisce aspetto particolare del diritto ad un tribunale sancito dall'art. 6, il quale, pur non essendo assoluto e dunque prestandosi a vincoli legali, anzi necessitando «per sua stessa natura» di una «regolamentazione da parte dello Stato», risulta inammissibilmente mortificato se le limitazioni esulano da un «ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito» (Cass. civ., sez. un., 2 maggio 2017, n. 10648, in Riv. dir. proc., 2017, 1619 ss.). Notifica telematica della sentenza e poteri certificativi del difensore
Dal 31 marzo 2021 anche dinanzi la Corte di cassazione potrà essere effettuato, con valore legale, da parte dei difensori, il deposito telematico di atti e documenti. E' stato infatti pubblicato il tanto atteso decreto del Ministero della Giustizia con il quale viene dato atto dell'installazione e dell'idoneità delle attrezzature informatiche per la ricezione di atti depositati telematicamente presso la Suprema Corte (v. Decreto Ministero della Giustizia, 27 gennaio 2021 in G.U. n. 22 del 28 gennaio 2021). Si tratta, come può evincersi dal dettato normativo contenuto nel comma 5 dell'artt. 221 del d.l. n. 34/2020 («il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati può avvenire in modalità telematica…»), di una mera facoltà e non di un obbligo. Sino ad oggi, dunque, il giudizio di cassazione si è svolto in modalità analogiche con la sola eccezione della fase di notifica della sentenza di secondo grado, del ricorso e del controricorso. Tale possibilità ha determinato il sorgere della questione, di massima importanza, attinente al modo in cui il ricorrente, nel caso di notifica telematica della sentenza o della decisione impugnata, possa assolvere all'onere del deposito della copia autentica della stessa. Al riguardo vengono in rilievo gli oneri certificativi della sentenza notificata al fine di attestarne la conformità a quella estratta dal fascicolo informatico, i quali devono essere interpretati e modellati secondo la logica della notificazione a mezzo PEC. Sul punto, la Cassazione, con la sentenza n. 30765/2017 ha affermato che «qualora la notificazione della sentenza impugnata sia stata eseguita con modalità telematiche, per soddisfare l'onere di deposito della copia autentica della decisione con la relazione di notificazione, il difensore del ricorrente, destinatario della suddetta notifica, deve estrarre copia cartacea del messaggio di posta elettronica certificata pervenutogli e dei suoi allegati (relazione di notifica e provvedimento impugnato), attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali della copia formata su supporto analogico, ai sensi dell'art. 9, commi 1-bis e 1-ter, l. n. 53/1994, e depositare nei termini quest'ultima presso la cancelleria della S.C., mentre non è necessario provvedere anche al deposito di copia autenticata della sentenza estratta dal fascicolo informatico». In altre parole, stante l'impossibilità di procedere al deposito telematico, era necessario che il difensore provvedesse ad autenticare la copia del messaggio PEC ricevuto e del provvedimento allegato avvalendosi del potere di autentica di cui all'art. 9, comma 1-bis, della l. n. 53/1994, applicabile in tutti i casi in cui l'avvocato debba fornire prova della notificazione e non sia possibile fornirla con modalità telematiche, a norma del comma 1-ter del medesimo articolo. Successivamente, la Cassazione (Cass. civ., sez. un., 25 marzo 2019, n. 8312), aprendo la strada verso una interpretazione più «elastica» dell'art. 369 c.p.c. nei casi di notifica a mezzo PEC e di mancata attestazione di conformità da parte del difensore, ha affermato che, ai fini della verifica d'ufficio della tempestività del ricorso per cassazione, è sufficiente il deposito, da parte del ricorrente, della decisione comunicatagli a mezzo PEC (nel suo testo integrale) a cura della cancelleria; ai fini della procedibilità del ricorso, invece, ove la decisione non risulti autenticata nelle forme di cui all'art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della l. n. 53/1994, è necessario che il controricorrente (o uno dei controricorrenti), nel costituirsi (anche tardivamente), depositi a sua volta copia analogica della decisione ritualmente autenticata oppure non disconosca ex art. 23, comma 2, d.lgs. n. 82/2005, la conformità della copia informale all'originale notificatogli, mentre, nell'ipotesi in cui il controricorrente (o uno dei controricorrenti) sia rimasto soltanto intimato o abbia effettuato il suddetto disconoscimento, è necessario che il ricorrente depositi l'asseverazione di conformità all'originale della copia analogica entro l'udienza di discussione o l'adunanza in camera di consiglio. I principi così affermati hanno trovato immediata applicazione da parte delle Sezioni semplici (v., ad esempio, Cass. civ., 19 aprile 2019, n. 11102; Cass. civ., 21 gennaio 2020, n. 1147), anche nel senso di dichiarare l'improcedibilità del ricorso ove non risultino applicabili i meccanismi in sanatoria elaborati dalle Sezioni Unite, con particolare riferimento alla mancata costituzione delle parti intimate in assenza di asseverazione di conformità della copia della decisione impugnata (Cass civ., 14 febbraio 2020, n. 3715). Va, tuttavia, sottolineato che l'interpretazione resa dalle Sezioni Unite è da intendere ristretta al cd. «ambiente digitale», non applicabile, ad esempio, ove la notificazione sia avvenuta nella forma tradizionale cartacea. In merito, la Corte di cassazione ha di recente ribadito il principio secondo cui la improcedibilità può essere evitata solo ove la sentenza con la relata di notificazione risulti comunque nella disponibilità del giudice perché prodotto dalla parte controricorrente ovvero acquisito mediante l'istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio, ha ritenuto irrilevante la documentazione depositata successivamente alla scadenza del termine perentorio previsto dall'art. 369, comma 1, c.p.c., sull'assunto che la pronuncia a Sezioni Unite n. 8312/2019 ‹‹abbia ristretto sotto tale profilo l'ambito applicativo della sanzione di improcedibilità limitatamente al cosiddetto “ambiente digitale”, vale a dire ai soli atti notificati a mezzo PEC›› (Cass. civ., 10 novembre 2020, n. 25105). Problemi analoghi si sono posti anche con riguardo alla materia della protezione internazionale, giacché l'art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. 25/2008, stabilisce che, una volta pronunciato il decreto del tribunale avente ad oggetto l'istanza di riconoscimento della protezione internazionale, il termine per proporre ricorso per cassazione avverso di esso «è di giorni trenta e decorre dalla comunicazione del decreto a cura della cancelleria, da effettuarsi anche nei confronti della parte non costituita»; pertanto, la norma prevede che la cancelleria debba sempre provvedere alla comunicazione del decreto, tramite PEC al difensore del richiedente. Al riguardo, la S.C. ha affermato che il mancato deposito della copia autentica del provvedimento unitamente alla relazione di comunicazione, munita di attestazione di conformità delle ricevute PEC, è sanzionato con la declaratoria di improcedibilità del ricorso, fermo restando che il mancato deposito di tale relazione è irrilevante non solo nel caso in cui il ricorso sia comunque notificato entro trenta giorni dalla pubblicazione del decreto (c.d. prova di resistenza), ma anche quando essa risulti comunque nella disponibilità della Corte di cassazione, perché prodotta dalla parte controricorrente ovvero acquisita a seguito dell'istanza di trasmissione del fascicolo d'ufficio, ma con la precisazione che detta trasmissione assume rilievo se effettuata nella misura in cui da essa risulti l'avvenuta comunicazione, non spettando alla Corte attivarsi per supplire attraverso tale via all'inosservanza del precetto posto dal citato art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, essendo «allo stato tecnicamente inattuabile la trasmissione del fascicolo telematico, e con esso della comunicazione telematica in via diretta e tra sistemi, in conseguenza della limitata applicazione del processo telematico nel giudizio di legittimità» (Cass. civ., 10 luglio 2020, n. 14839; Cass. civ., 15 ottobre 2020, n. 22324). A base di quest'indirizzo vi è il seguente ragionamento: va equiparata la relata di notifica della sentenza alla comunicazione del decreto operata dalla cancelleria, avendo entrambe la medesima finalità, «e cioè di strumento di messa a conoscenza integrale del provvedimento (con ogni certezza circa la sua corrispondenza all'originale)», ma anche di mezzo per «costituire l'inizio della decorrenza del termine per impugnarlo (non casualmente ridotto rispetto a quello ordinario, per esigenze di maggior celerità del procedimento)»; poiché l'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2 precisa che spetta al ricorrente depositare la relazione di comunicazione, si pone l'interrogativo su come operi la norma se la comunicazione/notificazione sia avvenuta e però la parte non ne dia conto ovvero semplicemente essa non sia proprio avvenuta e la parte conseguentemente ometta ogni produzione, senza dare atto di tale evento negativo nel ricorso. Sulla scia dei suoi precedenti, la Cassazione afferma che dall'art. 369 deve giocoforza desumersi l'esistenza di un onere di esplicitazione nell'atto d'impugnazione di quanto avvenuto, «dovendo l'inciso di condizionalità della circostanza («se questa è avvenuta») correlarsi all'imposizione, a carico del ricorrente, di un dovere di attività («debbono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità»)». Qualora l'insorgenza dell'onere in capo al ricorrente di depositare la relazione di notificazione (o anche di comunicazione, nei casi speciali e secondo l'accezione riportata) fosse fatta dipendere dalla prova positiva già emergente dagli atti che quest'ultima sia avvenuta, la norma sarebbe del tutto frustrata; «ciò in quanto, in caso di documentata avvenuta notificazione, la corrispondente relata già assolverebbe, ma ab externo rispetto ai doveri della parte verso la quale la norma è indirizzata, all'esigenza di verificare la tempestività del ricorso; conseguendone, per l'ipotesi di provata intempestività del ricorso medesimo, la declaratoria della sua inammissibilità, istituto tuttavia successivo alla verifica d'introduzione preliminare dell'impugnazione per la quale la improcedibilità sembra invece, quale verifica ancora anteriore, congegnata». Brevi osservazioni conclusive
Come può constatarsi, due contrapposte soluzioni si contendono il campo; una rigoristica e formalistica che si fonda sul dato testuale della norma e l'altra, sostanzialistica, che invece fa leva sulla funzione che il dettato normativo dovrebbe realizzare. Tra le due a me pare debba preferirsi la seconda: invero, pur non intendendo mettere in discussione il fondamentale principio secondo cui non è concepibile alcuna provvidenza sanante per la figura (dell'inammissibilità e) dell'improcedibilità, mi sembra sia prospettabile una soluzione meno rigorosa volta ad ammettere la producibilità della copia della comunicazione dell'ordinanza (filtro ex art. 348-bis) o del decreto (ex art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. 25/2008), anche dopo lo spirare del termine perentorio di venti giorni dall'ultima notifica del ricorso per cassazione, laddove si sposi una interpretazione degli artt. 369 e 372 c.p.c. più elastica e volta a valorizzare (più che quelli formalistici) gli aspetti funzionali di detto onere. A ben vedere, infatti, l'art. 369, nel prevedere in capo al ricorrente l'onere di depositare la copia della sentenza impugnata e delle relata di notifica della stessa laddove effettuata dalla controparte sottopone ad identico trattamento due situazioni diverse, in quanto l'onere di depositare la copia della sentenza impugnata ha la funzione di permettere al cancelliere della Corte di cassazione di verificare se vi sia coincidenza tra la sentenza oggetto di ricorso e il fascicolo d'ufficio del procedimento che è terminato con la sentenza impugnata, mentre il deposito della relata di notifica (i.e. della copia della sentenza impugnata con la relazione di notificazione) o della copia della comunicazione dell'ordinanza o del decreto è funzionale solo ed unicamente alla verifica della tempestività dell'atto di impugnazione. In altre parole, il legislatore tratta congiuntamente le due ipotesi - quella in cui notifica vi è stata, e quella in cui la notifica sia mancata - ma solo per evitare formulazioni della norma prolisse e contorte e per l'ulteriore ragione rappresentata dalla circostanza che, normalmente, laddove scatti il termine breve, il ricorrente produce proprio la copia oggetto di notifica, per evitare di chiedere un'ulteriore copia autentica. Se ciò è vero, allora, ove nei 20 giorni dal ricorso sia depositata unicamente la copia del provvedimento impugnato senza che invece il ricorrente abbia provveduto a depositare copia della comunicazione dell'ordinanza filtro o del decreto impugnato, l'improcedibilità del ricorso dovrà essere dichiarata solo in caso di omesso deposito nei termini del provvedimento impugnato (sentenza o decreto) e, nel caso di cui all'art. 348-bis, dell'ordinanza di inammissibilità, essendo permesso al ricorrente di produrre la copia della comunicazione anche successivamente. In tal modo, all'acquisizione della copia della comunicazione dell'ordinanza filtro o del decreto in materia di protezione internazionale viene attribuita l'unica (e vera) funzione di consentire il controllo della tempestività dell'impugnazione, attività che la Corte svolge solo successivamente nella fase decisoria. Sennonché, come si è visto, la Corte interpreta il requisito dell'improcedibilità assai rigorosamente, affermando che l'intempestività del ricorso medesimo è causa di declaratoria della sua inammissibilità, ma che tale istituto è «successivo alla verifica d'introduzione preliminare dell'impugnazione per la quale la improcedibilità sembra invece, quale verifica ancora anteriore, congegnata». Ora, anche a voler condividere quest'impostazione, della cui correttezza è forse lecito dubitare (ma si tratta di profili che meriterebbero ben altro approfondimento), resta fermo e indiscutibile che attribuire all'acquisizione della copia della comunicazione dell'ordinanza filtro o del decreto in materia di protezione internazionale l'unica (e vera) funzione di consentire il controllo della tempestività dell'impugnazione rende superabile l'affermazione della Corte e permette di interpretare in chiave evolutiva il disposto dell'art. 369, nel rispetto della funzione ad essa assegnata dal legislatore. Nell'auspicabile attesa di un definitivo cambiamento di rotta da parte della S.C., fa ben sperare, comunque, l'apertura alla rilevanza che viene riconosciuta al fascicolo d'ufficio ai fini della verifica della tempestività del ricorso. Fascicolo d'ufficio la cui acquisizione, anche per via telematica, potrà rivelarsi davvero risolutiva di numerose situazioni concrete che si possono presentare nella prassi applicativa. Riferimenti
(Fonte: Il Processo Civile) |