Quanto un verbale di conciliazione può dirsi tombale?

Francesca Siccardi
16 Settembre 2021

Nell'interpretazione di una clausola contenuta in una conciliazione occorre perimetrare la comune intenzione dei contraenti: la stessa si ricava facendo leva non solo sul tenore letterale delle parole utilizzate – da vagliare alla luce dell'integrale contesto negoziale ex art. 1363 c.c., ma facendo ricorso anche ai criteri di interpretazione soggettiva di cui agli artt. 1369 e 1366 c.c...

Nell'interpretazione di una clausola contenuta in una conciliazione occorre perimetrare la comune intenzione dei contraenti: la stessa si ricava facendo leva non solo sul tenore letterale delle parole utilizzate – da vagliare alla luce dell'integrale contesto negoziale ex art. 1363 c.c., ma facendo ricorso anche ai criteri di interpretazione soggettiva di cui agli artt. 1369 e 1366 c.c. E', infatti, necessario accertare il significato dell'accordo in coerenza con gli interessi che entrambe le parti abbiano inteso tutelare ed escludere – in forza di un principio di lealtà e salvaguardia dell'altrui posizione giuridica - quelle interpretazioni che, sebbene formalmente sostenibili, appaiano con essi in contrasto.

Tanto ha affermato il 14 settembre 2021 la Sezione Lavoro della Corte di cassazione.

Il caso. Il Tribunale di Roma ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso proposto da un lavoratore avverso il proprio ex datore di lavoro, volto ad ottenerne la condanna al pagamento di differenze retributive relative a tredicesima mensilità, indennità di funzione, di buoni pasto, di reperibilità e per rinnovo contrattuale dal luglio 2007, riferite al periodo dal marzo 2003 (dies ad quem della sentenza n. 8506/2010 della Corte di Appello, in giudicato, avente riconosciuto mansioni superiori e spettanza di analoghe indennità) sino al collocamento in quiescenza del 31 agosto 2007, sul presupposto che tali richieste rientrassero nell'ambito di una conciliazione intervenuta tra le parti nel luglio 2007.

La Corte di secondo grado, aderendo alla ricostruzione di fatto e diritto effettuata dal primo giudicante, ha respinto l'appello.

Il ragionamento della Corte di appello. Premettendo la formazione del giudicato sulla sentenza di appello 8506/2010 resa in altro precedente giudizio tra le stesse parti (RG 2710/2005), la Corte Territoriale ha ritenuto che le pretese oggetto della causa sottoposta alla sua attenzione rientrassero nell'accordo conciliativo raggiunto dalle medesime nel luglio 2007.

Il tenore della conciliazione. In particolare, con lo strumento conciliativo le parti hanno risolto consensualmente il rapporto di lavoro al 1° settembre 2007, con riconoscimento dell'incentivo all'esodo, dispensa dal preavviso e dalla corresponsione della relativa indennità; inoltre, è stata attribuita al dipendente la somma di euro 20.000,00 netti a titolo di transazione generale novativa, a fronte della rinuncia “a qualsivoglia ulteriore domanda o azione comunque connessi…all'esecuzione e cessazione del rapporto, nonché ad ogni altro diritto”, eccezion fatta per le pretese oggetto del giudizio di appello sub RG 2710/2005 “avente ad oggetto l'accertamento del diritto … alla corresponsione della cd. indennità di funzione e del superminimo individuale parametrati alla posizione dirigenziale rivestita, con conseguente ricostruzione della carriera ed attribuzione almeno del minimo contrattualmente previsto”.

Il soccombente si è rivolto alla Corte di cassazione, lamentando, tra i vari motivi, la violazione e falsa applicazione della normativa codicistica in ordine all'interpretazione negoziale, specialmente per quanto concerne la clausola di salvezza contenuta nella transazione, che ricomprenderebbe, a suo avviso, anche le pretese avanzate in causa.

Parte datoriale ha resistito con controricorso.

La sentenza va cassata.

La Corte di Legittimità, ritenendo fondato il motivo di ricorso sopra espresso, con valore assorbente, ha cassato la pronuncia di merito, trasmettendo la controversia ad altra sezione della Corte di appello.

Ad avviso della Cassazione, infatti, la clausola di salvezza contenuta nella transazione deve essere interpretata alla luce del complessivo assetto negoziale che le parti hanno inteso perseguire.

Le regole da seguire. Se è pur vero che l'interprete deve, in primo luogo, avviare l'esame dall'elemento letterale (che funge da faro di ricerca della effettiva volontà delle parti), è altrettanto vero che lo stesso va valutato tenendo conto dell'intero contesto contrattuale, cioè collegando e raffrontando parole e frasi al fine di chiarirne il significato complessivo, il tutto senza perdere di vista lo scopo pratico che le parti stesse abbiano inteso realizzare.

Infatti, proprio facendo ricorso ai criteri di interpretazione soggettiva di cui agli artt. 1369 e 1366 c.c., è possibile appurare il significato dell'accordo in coerenza con la causa concreta perseguita e, al tempo stesso, escludere interpretazioni cavillose che siano sostanzialmente in contrasto con essa.

In buona sostanza, quindi, nella circolarità del procedimento ermeneutico, dopo l'esegesi del testo, l'interprete deve ricostruire in base ad essa la reale intenzione dei contraenti e verificare se la stessa sia coerente con le restanti disposizioni contrattuali e con la condotta delle parti.

Il caso concreto esige particolare attenzione. La rinuncia contenuta nella transazione non può ritenersi comprensiva di tutte le controversie attuali o potenziali tra le parti: alla luce della clausola che fa salve le pretese oggetto del giudizio sub RG 2710/2005 (all'epoca – luglio 2007 - pendente) e alla “conseguente ricostruzione di carriera”, oltre che della scansione temporale degli antefatti (l'odierno giudizio va considerato evoluzione della vicenda processuale sub RG 2710/2005, divenuto definitivo dopo l'intervenuta conciliazione), la Cassazione ha reputato che gli emolumenti pretesi dal lavoratore nella presente causa si iscrivano proprio nella locuzione “ricostruzione di carriera”, giacché diversamente la stessa non lo sarebbe interamente, ma solamente fino al marzo 2003 (come stabilito nella sentenza già menzionata, in giudicato), e contraddirebbe la negoziata prospettiva conciliativa dell'intero rapporto.

Tale interpretazione, porta ad affermare che all'ex dipendente vadano riconosciute – nei rigorosi limiti accertati dal giudicato e in quanto escluse dalla conciliazione del luglio 2007 – le voci afferenti alla ricostruzione di carriera, per quanto concerne il periodo successivo al marzo 2003 e fino alla data del pensionamento (31 luglio 2007).

Per quanto precede, quindi, la pronuncia di seconde cure è stata cassata e la causa è stata rimessa alla Corte di appello affinché si conformi all'espresso principio di diritto.

(Fonte: Diritto e Giustizia)

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