Obbligo contributivo sull'indennità di preavviso e risoluzione consensuale del rapporto
20 Settembre 2021
Massima
È nel momento stesso in cui il licenziamento acquista efficacia che sorge il diritto del lavoratore all'indennità sostitutiva del preavviso e la conseguente obbligazione contributiva su tale indennità: se poi, successivamente, il lavoratore licenziato rinunci al diritto all'indennità, tale rinuncia non potrà avere alcun effetto sull'obbligazione pubblicista, preesistente alla rinuncia e ad essa indifferente perché il negozio abdicativo proviene da soggetto (il lavoratore) diverso dal titolare (INPS).
L'obbligazione contributiva del datore di lavoro verso l'INPS sussiste, infatti, indipendentemente dall'adempimento degli obblighi retributivi nei confronti del lavoratore o dalla rinuncia ai relativi diritti da parte di quest'ultimo.
Il caso
Il giudice di secondo grado (corte d'Appello di Firenze) rigettava le domande di accertamento negativo proposte da un noto istituto bancario con separati ricorsi poi riuniti, al fine di sentir dichiarare non dovuti contributi e somme aggiuntive pretesi dall'INPS sull'indennità di mancato preavviso alla quale oltre 90 dirigenti, licenziati nel corso del 2012 e 2013, avevano rinunciato, nell'ambito di una successiva transazione con cui avevano concordato la risoluzione consensuale dei rapporti di lavoro.
Per la Corte territoriale i rapporti di lavoro si erano precedentemente risolti per effetto delle comunicazioni di licenziamento che i dirigenti avevano ricevuto, contenenti l'esonero dalla prestazione lavorativa durante il periodo del preavviso e la previsione di pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso. Avendo il recesso datoriale già prodotto l'effetto di risolvere i rapporti di lavoro, l'indennità in questione costituiva elemento retributivo già entrato a far parte del patrimonio dei dipendenti, e come tale soggetto ad obbligazione contributiva, senza che rilevasse la successiva scrittura privata sottoscritta con cui le parti avevano pattuito la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro (senza revocare il licenziamento) con rinuncia ad ogni ulteriore pretesa, preavviso e relativa indennità sostitutiva compresi.
L'Istituto bancario impugnava la decisione in cassazione con tre articolati motivi su questioni interpretative e definitorie. La questione
Si tratta di stabilire se e come l'autonomia individuale delle parti in relazione alle vicende estintive del rapporto di lavoro possa incidere sull'obbligazione contributiva.
La soluzione giuridica
La Corte di Cassazione conferma la sentenza di secondo grado ribadendo l'irrilevanza ai fini dell'obbligazione contributiva relativa all'indennità sostitutiva del preavviso conseguente al licenziamento perfezionatosi, sia della successiva modifica pattizia della causa di recesso (da licenziamento a risoluzione consensuale), sia delle rinunce dei lavoratori al diritto a ricevere l'indennità in questione contenuta nelle transazioni sottoscritte dalle parti.
La Suprema Corte giunge a tale conclusione attraverso un duplice ordine di motivi. La prima considerazione (di carattere sistematico) è che l'obbligazione contributiva, cui il datore è tenuto in relazione al periodo di preavviso da licenziamento, sussiste in virtù della natura pubblica dell'obbligazione in questione che è legata alla definizione normativa della retribuzione imponibile ai fini contributivi (ex art. 12 Legge 153/1969 secondo cui rientra nella retribuzione imponibile in questione “tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro” che secondo la Corte deve essere intesa nel senso di tutto ciò che il lavoratore ha diritto di ricevere, indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del lavoratore siano stati in tutto o in parte soddisfatti, ovvero che il lavoratore vi abbia rinunciato).
La seconda considerazione (di carattere ricostruttivo) è che, sempre per le finalità di imposizione contributiva, è nel momento stesso in cui licenziamento diviene efficace che sorge il diritto del lavoratore all'indennità sostitutiva del preavviso e la conseguente obbligazione contributiva su tali indennità; se poi, successivamente, il lavoratore licenziato rinuncia al diritto all'indennità, tale rinuncia non potrà avere alcun effetto sull'obbligazione pubblicistica preesistente cui è indifferente perché il negozio abdicativo proviene da soggetto (il lavoratore) diverso dal titolare (INPS).
Nel caso di specie, dunque, secondo la Suprema Corte, l'intervenuto licenziamento con esenzione della prestazione durante il periodo di preavviso, ha fatto sorgere automaticamente la relativa obbligazione contributiva nell'autonomo e distinto rapporto previdenziale. Osservazioni
Il ragionamento della Corte di Cassazione non appare esente da critiche sia sotto il profilo ricostruttivo costituzional-privatistico, sia sotto il profilo sistematico e definitorio dell'obbligo contributivo.
Se è corretto l'argomento secondo cui l'obbligo contributivo ha natura pubblica e che, per tale motivo, il rapporto pubblicistico assicurativo tra datore di lavoro e istituto previdenziale è autonomo e distinto rispetto al rapporto di lavoro, non si può non considerare che il presupposto giuridico e di fatto dell'obbligazione contributiva resta pur sempre l'erogazione di una somma in esecuzione di un obbligazione contrattuale lavoro che, come tale, è espressione di autonomia e libertà secondo i principi primari costituzionali (Titolo III Cost.) e generali comuni di diritto privato (artt. 1321 e 1965 c.c.).
Il contratto di lavoro è, infatti, pur sempre un contratto tra datore di lavoro e lavoratore per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale (art. 1321 c.c.) e, in tale schema, le parti restano libere di decidere le modalità di svolgimento e di cessazione (ovviamente all'interno di quanto consentito dall'ordinamento giuslavoristico) e anche di modificare gli effetti provocati dai singoli atti inerenti il rapporto (ad es. recesso) rimuovendoli unilateralmente (es. revoca del licenziamento o delle dimissioni) o concordemente (sostituendoli o modificandoli).
L'ordinamento giuslavoristico ammette pacificamente la disponibilità delle parti a porre in essere tali modificazioni:
L'obbligazione contributiva conseguente a una determinata prestazione patrimoniale, segue necessariamente la tipologia di negozio giuridico posto in essere dalle parti in quanto ne è il presupposto di applicazione e presuppone un diritto di credito esigibile nell'ambito dell'elencazione prevista dalla norma definitoria (art. 12 della Legge 153/1969). Tale norma, richiamata nella sentenza in commento, dispone oggi che costituiscono redditi di lavoro dipendente ai fini contributivi quelli di cui al testo unico delle imposte sui redditi (d.P.R. 917/1986), maturati nel periodo di riferimento. E la norma fiscale richiamata, prevede espressamente che “il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”. Anche la giurisprudenza che ha trattato l'argomento (decisione in commento compresa), richiamando la generale presunzione di cui al predetto art. 12, pone sempre l'accento sulle somme ricevute dal lavoratore per effetto delle obbligazioni connesse al rapporto di lavoro (si veda anche Tribunale di Milano, 5.01.2018, n. 2891). Ma, nel nostro caso (come e soprattutto nel caso di revoca), tali erogazioni di somme di denaro non sono mai avvenute, né sono esigibili perché prive di titolo avendo le parti rimosso il fatto stesso del recesso unilaterale (mutandolo in risoluzione consensuale che non prevede obbligo di preavviso). Per cui se le parti validamente modificano o estinguono precedenti atti con nuovi negozi giuridici (anche di natura novativa), mutandone il titolo, anche la relativa prestazione non è più dovuta (cioè non viene corrisposta né percepita e quindi non matura utilizzando la terminologia della norma) e, se invece prevista, dovrà necessariamente seguire il mutato titolo anche sotto il (conseguente) profilo contributivo e fiscale. Quanto precede salva la dimostrazione della non negoziabilità delle parti (in quanto diritti non disponibili o non riducibili o non validamente modificati ai sensi dell'art. 2113 c.c.) o di una simulazione fraudolenta in danno dei terzi che però dovrà essere oggetto di specifica domanda e accertamento autonomo.
Posto che, come visto, la cessazione del rapporto di lavoro è validamente disponibile dalle parti che possono anche mutarne il titolo e la titolarità e collegarne attribuzioni patrimoniali, il tema (questione) non è quindi l'autonomia e indipendenza dell'obbligazione contributiva, né l'(in)efficacia delle rinunce del lavoratore nei confronti dell'istituto previdenziale (entrambi pacifici), ma il fatto giuridico rappresentato dalla valida rimozione del recesso con ogni necessaria conseguenza in termini obbligatori (evidentemente caducati), fiscali e contributivi.
Del resto, sempre la giurisprudenza di legittimità confermando che le somme pagate al lavoratore in conseguenza di una transazione sulla risoluzione del rapporto di lavoro dipendono da quest'ultimo contratto e non dal diverso contratto di lavoro (una su tutte, Cass. 15411/2020 citata nella sentenza in commento che ha escluso l'assoggettabilità a contribuzione dell'incentivo all'esodo), riconoscono l'autonomia contrattuale delle parti e la rilevanza della stessa ai fini della imponibilità delle somme previste da accordi aventi causa e titoli autonomi.
In definitiva, mantenere gli effetti di un atto (il licenziamento) giuridicamente rimosso per volontà unilaterale (revoca) o per negozio giuridico transattivo novativo (risoluzione consensuale nell'ambito di transazione generale e novativa) solo per finalità pubblicistiche di imposizione contributiva, oltre a non essere coerente e consequenziale sotto il profilo logico-giuridico, contraddice la volontà delle parti violandone l'autonomia contrattuale ed eleva ad oggetto di tutela preminente (l'obbligazione contributiva pubblicistica) ciò che è invece accessorio e conseguente alla qualificazione giuridica dei fatti derivante dalla libera determinazione delle parti riconosciuta e protetta dall'ordinamento (tramite i principi generali sulle obbligazioni di diritto privato).
Né potrà sostenersi la validità di un'interpretazione del sistema di carattere antielusivo (aspetto comunque assente nella decisione della Corte). La chiave di lettura di una norma propositiva (in attuazione dei principi costituzionali sulle libertà individuali) non può mai essere la repressione dei possibili abusi o comportamenti fraudolenti (eventi che devono essere considerati sempre come eccezione patologica e, come tali, puniti da norme specifiche), ma la coerenza con il sistema di regole e principi generali a base dell'ordinamento. |