I criteri di determinazione del danno da infezione nosocomiale che non abbia cagionato la morte del paziente ma ne abbia impedito la guarigione
21 Settembre 2021
Tizio – durante un ricovero ospedaliero per ictus – contrae alcune infezioni che, secondo il collegio di periti nominati dal Giudice, non hanno rappresentato la causa del decesso, avvenuta dopo sette mesi per un blocco intestinale del tutto indipendente dalle infezioni che, seppure di certa origine ospedaliera e pur persistenti per sei mesi, un mese prima del decesso erano del tutto regredite, pur impedendo la guarigione del paziente. Ebbene, gli eredi che hanno agito in giudizio per fare affermare la responsabilità dell'ospedale hanno diritto ad un risarcimento? Ed in tal caso con quali criteri potrà liquidarsi il danno?
Alla luce della giurisprudenza più recente della Cassazione, non può parlarsi di responsabilità civile se non è soddisfatto il nesso di causalità materiale, ossia se un dato comportamento colposo – omissivo o commissivo – non costituisce l'antecedente di un dato evento dannoso. Tanto, però, non è sufficiente ai fini dell'eventuale diritto del danneggiato al risarcimento, che invece presuppone che sia soddisfatto il nesso di causalità giuridica: sono cioè risarcibili esclusivamente quei danni che – a mente dell'art. 1223 c.c. – sono una conseguenza immediata e diretta dell'evento.
Nel caso concreto, si può certamente affermare la sussistenza del nesso di causalità materiale tra il ricovero e le infezioni (di certa origine ospedaliera). Più problematico è stabilire con certezza quale siano state le conseguenze risarcibili dell'infezione.
Non la perdita del rapporto parentale (la causa del decesso è stata individuata in una sopravvenienza - blocco intestinale - rispetto alla quale l'infezione nosocomiale non ha costituito neanche una concausa) e neppure – sembra di capire – una alterazione dell'integrità psicofisica dalla quale siano residuati postumi permanenti risarcibili come danno biologico ed il cui diritto si sia trasmesso iure hereditatis. Non è neppure d'aiuto la – per certi versi – perplessa valutazione medico legale, non essendo chiaro cosa abbia voluto dire il collegio dei periti ritenendo che la infezione, pur non essendo causa del decesso, abbia impedito la guarigione del paziente: l'ictus è una patologia che – a seconda della gravità – può avere seri esiti, spesso di natura permanente, che richiedono una lunga terapia riabilitativa prima che il paziente possa recuperare parte della funzionalità degli organi compromessi. Affermare che l'infezione ha impedito la guarigione potrebbe significare che, senza le complicazioni ascrivibili alla sepsi, il paziente avrebbe potuto concretamente sperare nella possibilità, guarendo, di una esistenza migliore nell'intervallo di tempo compreso tra la detta guarigione ed il decesso.
Dunque, il danno potrebbe consistere nella perdita di una chance non patrimoniale. Tuttavia, perché possa ravvisarsi questa tipologia di danno (risarcibile equitativamente) occorre che sussistano i presupposti recentemente puntualizzati dalla Suprema Corte.
È necessario, cioè, che “la condotta colpevole del sanitario abbia avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto: le conclusioni della CTU risultano, cioè, espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all'eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo. Tale possibilità – tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta) – sarà risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilità perduta – se provato il nesso causale, secondo gli ordinari criteri civilistici tra la condotta e l'evento incerto (la possibilità perduta) – ove risultino comprovate conseguenze pregiudizievoli (ripercussioni sulla sfera non patrimoniale del paziente) che presentino la necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza” (Cass. civ., Sez. III, 11 novembre 2019 n. 28993).
Detto altrimenti, se fosse certo che il paziente sarebbe guarito senza l'infezione, non di chance perduta si dovrebbe parlare, bensì di effettiva perdita non patrimoniale.
In base agli elementi conosciuti si può solo ipotizzare la seguente alternativa: o la guarigione era incerta (nel senso che dal punto di vista medico legale non si può dire con certezza che senza l'infezione il paziente sarebbe senz'altro guarito) ed allora il danno risarcibile – in maniera equitativa secondo il prudente apprezzamento del giudice e tenuto conto di ogni circostanza del caso concreto – sarà la perdita di chance non patrimoniale; o la guarigione era certa, ed allora il pregiudizio risarcibile non potrà consistere nella perdita di una chance. In tale ultimo caso, però, dovrebbe essere la scienza medico legale a stabilire se questa menomazione (mancata guarigione) è apprezzabile in termini di danno biologico risarcibile applicando i consueti criteri. Vi è poi un altro aspetto che sembra opportuno approfondire.
Il collegio di periti – sottolineando che la infezione ha impedito la guarigione del paziente – potrebbe aver voluto dire che questo stato infettivo abbia prolungato il periodo di invalidità temporanea che inevitabilmente patisce il soggetto colpito da ictus. Se così fosse, di questo aggravamento delle condizioni di salute del paziente – apprezzabile in termini di un più lungo e penalizzante periodo di invalidità temporanea - dovrebbe senz'altro risponderne la struttura ospedaliera presso la quale Tizio fu ricoverato e contrasse l'infezione e ciò proprio applicando la regola della causalità giuridica.
Vi è da chiedersi, a questo punto, se l'ammontare complessivo del risarcimento possa essere ulteriormente incrementato. Le Tabelle Milanesi, recentemente revisionate, prevedono un valore unitario di € 99,00 pro die di invalidità assoluta che tiene in debita considerazione la componente per danno biologico/dinamico-relazionale (pari ad € 72,00) e la componente per danno da sofferenza soggettiva interiore presumibile (pari ad € 27,00). È questo il valore “standard” della invalidità temporanea. Le medesime Tabelle ammettono però un aumento personalizzato di questo valore, fino al massimo del 50%, in presenza di allegate e comprovate peculiarità.
Orbene, la Cassazione più recente è orientata a tenere distinta la componente “morale” del danno alla persona – intesa come sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del diritto alla salute - dal danno biologico, per tale invece dovendosi intendere tutte le incidenze negative delle lesioni sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali del danneggiato; danno, quello biologico, da liquidare secondo valori standard che possono essere incrementati “in via di personalizzazione in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali, tempestivamente allegate e provate dal danneggiato, le quali rendano il danno subito più grave rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti da lesioni personali dello stesso grado sofferte da persone della stessa età e condizione di salute” (Cass. civ., Sez. III, 6 maggio 2021 n. 12046). In linea di principio ciascuna voce di danno, dunque anche la sofferenza soggettiva, deve essere provata; tuttavia, per questa componente è opinione della più recente giurisprudenza che il ricorso alla prova presuntiva sia destinato ad assumere particolare rilievo, al punto da poter costituire anche l'unica fonte di convincimento del giudice: sicché, tanto più grave è la lesione alla salute tanto più si può presumere la esistenza di un correlato danno morale (Cass. civ., Sez. III 10 novembre 2020 n. 25164).
Quanto invece alla eventuale personalizzazione, e nel caso di concorso del danno dinamico – relazionale e del danno morale, occorrerà procedere all'aumento della sola componente “biologica” (Cass. civ., Sez. III 10 novembre 2020 n. 25164). Si potrà quindi immaginare la possibilità che il solo danno biologico temporaneo sofferto da Tizio a causa della infezione nosocomiale possa essere personalizzato, a condizione – però – che siano allegate e dimostrate specifiche circostanze che abbiano contribuito ad aggravare le conseguenze ordinarie della invalidità temporanea e dunque possano giustificare un adeguamento del risarcimento: circostanze che potrebbero ravvisarsi non tanto nell'astratto e più lungo periodo di invalidità temporanea (specie se si fosse in presenza di una invalidità temporanea normalmente correlata a quel tipo di infezioni in soggetto già allettato e magari avanti negli anni) quanto nel concreto vissuto del danneggiato. Si vuole dire, cioè, che potrebbe considerarsi più penosa (e dunque meritevole di personalizzazione) la condizione di colui che sia costretto ad un lungo periodo di inabilità temporanea, e che deceda un mese dopo la guarigione dell'infezione per cause diverse, rispetto a quella di soggetto che, pur costretto ad analogo periodo di invalidità temporanea, invece non subisca la stessa sorte. Più in generale, comunque, si potrà invocare un incremento del risarcimento se ricorreranno i presupposti ben compendiati dalla Suprema Corte, secondo la quale unicamente “le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico” (Cass. civ., Sez. III, 27 marzo 2018 n. 7513).
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