La sofferenza morale dei genitori nella morte del feto e risarcimento del danno
05 Ottobre 2021
Così la Corte di Cassazione nella pronuncia n. 26301 il 29 settembre 2021 in materia di risarcimento del danno cagionato dalla morte del feto.
Il fatto. Il caso in esame riguarda la richiesta di risarcimento danni subiti dai genitori in proprio e in qualità di esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio minore a fronte della morte del feto portato in grembo dalla madre per responsabilità dei sanitari. In particolare, la coppia conveniva in giudizio la ASL per non aver diagnosticato nel feto l'ipossia fetale, per non aver effettuato conseguentemente il trattamento terapeutico, per aver tardato il taglio cesareo che con elevata probabilità avrebbe evitato la sofferenza fetale e la sua morte.
Il giudizio. La CTU disposta in primo grado, infatti, aveva rilevato profili di negligenza ed imperizia a carico dei sanitari concludendo per un giudizio prognostico di elevata probabilità che il feto sarebbe nato vivo se il taglio cesareo fosse stato effettuato tempestivamente. Il giudice di primo grado, nel riconoscere il diritto al risarcimento per malpractice sanitaria in favore dei genitori e del fratellino primogenito, rigettava, al contrario, tutte le altre domande istruttorie formulate dalle parti e qualificate come “danni per perdita del frutto del concepimento” ritenendole a fondamento di domande nuove volte a dimostrare fatti non dedotti originariamente; adottava quale criterio di calcolo le Tabelle milanesi per la perdita del rapporto parentale; aveva ridotto le somme posto che tali parametri si riferivano alla perdita di un figlio nato vivo e alla luce del fatto che era mancata la prova di indici di particolare gravità o peculiarità del fatto idonei a giustificare la personalizzazione in aumento del risarcimento; aveva ritenuto la donna ancora in età fertile e pertanto nelle condizioni di avere altri figli. La Corte d'Appello, adita dai genitori, confermava la decisione impugnata.
Le doglianze in Cassazione. I ricorrenti lamentano la circostanza che i giudici di appello avrebbero errato nel ritenere che il gravame fosse diretto ad ottenere un maggior risarcimento dei danni subiti: invero, i ricorrenti si dolevano della incompletezza dell'istruttoria all'esito del quale gli stessi attori non erano stati messi nelle condizioni di provare la fondatezza delle pretese e la reale natura e consistenza dei danni subiti. E ancora, avrebbe errato la Corte d'Appello nel ritenere che gli attori avessero svolto domande nuove: il panico, gli incubi, il mutamento delle abitudini di vita conseguenti alla morte del feto sarebbero stati, a detta di giudici di secondo grado, danni diversi e ulteriori rispetto al danno non patrimoniale per la perdita del feto. E inoltre, i ricorrenti lamentano che secondo la Corte d'Appello sarebbero stati irrilevanti ai fini della quantificazione le quattro ore di agonia patite dalla donna prima del taglio cesareo.
Il danno non patrimoniale. Secondo la Corte di Cassazione, il danno da perdita del frutto del concepimento coincide col danno da perdita del rapporto parentale. La tutela del concepito ha fondamento costituzionale (art. 31 Cost., art. 2 Cost.). Per orientamento costante e pacifico, i componenti del consorzio familiare sono legittimati a far valere una pretesa risarcitoria ex art. 2043 e 2059 c.c. in relazione agli artt. 2,29 e 30 Cost. nonché ex art. 8 Cedu. La perdita del rapporto parentale rileva nella sua dimensione della sofferenza interiore eventualmente patita sul piano morale soggettivo nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore e anche in quella riflessa sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l'ha subita.
La sofferenza morale. Il panico, gli incubi, il cambio di abitudini quali conseguenza della morte del feto non sono, pertanto, danni “avulsi” rispetto alla domanda di risarcimento danni. Infatti, nei casi come questi, molto spesso la sofferenza morale, allegata e poi provata anche a mezzo di presunzioni semplici, è l'aspetto più significativo del danno de quo.
(Fonte: Diritto e Giustizia.it) |