Il d.d.l. AS 1662 prevede di riformare la fase decisoria, sia con l'abrogazione del modulo tradizionale di cui all'art. 190 c.p.c., sia introducendo per le cause del tribunale (in composizione monocratica o collegiale) un modello uniforme di decisione, al fine di ottenere una contrazione dei tempi processuali pari o comunque non inferiore ad ottanta giorni.
Inquadramento
Di grande interesse è la riforma del processo civile, che passata all'approvazione del Senato, si trova attualmente all'attenzione della Camera. Come in passato, l'obiettivo della riforma è quello di semplificare il processo civile in ogni sua parte o fase, tendendo ad accelerare il più possibile i tempi, anche in considerazione del principio della ragionevole durata, nel rispetto dell'art. 111 Cost.
Il funzionamento ed i tempi della giustizia italiana sono «sorvegliati speciali» nel contesto internazionale, tanto che secondo il «Global competitiveness index» l'Italia si colloca al 130° posto su 141 Paesi censiti per capacità di «risolvere le controversie» ed al 126° posto per «efficienza del sistema legale in caso di contestazioni sulla normativa». La Commissione del Consiglio d'Europa, specializzata nella valutazione dei sistemi giudiziari (Cepej), ha inoltre eseguito un altro studio che, per l'efficienza del sistema giudiziario, pone l'Italia al 35° posto su 42 paesi monitorati.
In questo contesto, si è ritenuto, di riformare la fase decisoria, sia con l'abrogazione del modulo tradizionale di cui all'art. 190 c.p.c., sia introducendo per le cause del tribunale (in composizione monocratica o collegiale) un modello uniforme di decisione, al fine di ottenere una contrazione dei tempi processuali pari o comunque non inferiore ad ottanta giorni.
Le linee generali seguite dalla Commissione per l'elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi
Preliminarmente, va ricostruito l'iter seguito finora dalla riforma. Segnatamente, con decreto ministeriale 12 marzo 2021, è stata costituita - presso l'Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia - la Commissione per l'elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti allo stesso alternativi, al fine di ridurre i tempi dei processi e migliorarne l'efficienza.
Per il processo civile dichiarativo, la Commissione ha individuato quelli che, a suo avviso, costituiscono i «tempi morti» del processo e, conseguentemente, formulato due ipotesi alternative di modifica della fase iniziale, volte ad evitare che la prima udienza si esaurisca nella concessione dei termini di cui all'art. 183 c.p.c. e di «ristrutturazione» della fase decisoria, che - sempre al fine di evitare passaggi inutili - tende ad abolire una udienza finalizzata solo alla precisazione delle conclusioni.
Quanto alla fase decisoria, la Commissione ha mantenuto ferma, nei casi in cui il giudice decida in composizione monocratica, la possibilità di invitare le parti a precisare le conclusioni ed a discutere oralmente la causa alla stessa udienza ovvero ad altra udienza, pronunciando poi sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della succinta motivazione.
Nell'ipotesi di cause particolarmente complesse, a parziale modifica dell'attuale 281-sexies c.p.c., ossia della decisione a seguito di trattazione orale, il giudice, avvenuta la discussione, può riservare la decisione ai successivi trenta giorni.
Innovazioni rilevanti riguardano il modello c.d. «ordinario»: al termine dell'istruttoria, il giudice fissa un'udienza di rimessione della causa in decisione e, anziché concedere a quella data i termini di cui all'art. 190 c.p.c. (dalla scadenza dei quali ad oggi decorrono i sessanta giorni per il deposito della sentenza), assegna già da subito tre termini da calcolarsi a ritroso rispetto all'udienza medesima, per consentire agli avvocati l'esercizio delle seguenti attività: a) la precisazione delle conclusioni; b) il deposito delle comparse conclusionali e, quindi, delle successive ed eventuali c) memorie di replica. Salvo l'espressa rinuncia delle parti, all'esito dell'udienza, la causa è trattenuta in decisione, sia ove il tribunale giudichi in composizione monocratica, sia in quella collegiale; la sentenza va, quindi, depositata rispettivamente nel termine dei successivi trenta o sessanta giorni.
La ratio della modifica sta nel tentativo di «realizzare una semplificazione del procedimento, al tempo stesso adottando alcune misure acceleratorie dirette ad assicurare la ragionevole durata del processo, con una riduzione dei tempi processuali di almeno ottanta giorni che, peraltro, potrebbero essere maggiori nel caso di generalizzazione del modello della discussione orale, obiettivo parimenti perseguito dalla riforma».
Il Disegno di legge 1662
Sulla base di tali premesse, l'art. 3 del d.d.l. 1662 prevede da un lato le modalità di decisione della causa dinnanzi al giudice monocratico e, dall'altro, disciplina i rapporti tra collegio e giudice monocratico.
Per vero, il comma 8 lett. c) del medesimo art. 3 dispone che, nell'esercizio della delega di cui all'art. 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche al c.p.c. in materia di processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione monocratica siano adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi.
Anzitutto, esaurita la trattazione ed istruzione della causa, nel corso della medesima udienza il giudice invita le parti a precisare le conclusioni ed alla discussione orale oppure, su istanza di parte, il giudice può fissare un'altra udienza per la discussione e, sempre e solo se richiesto, assegnare un termine perentorio non superiore a quaranta giorni prima dell'udienza per il deposito di note difensive e un ulteriore termine non superiore a dieci giorni prima dell'udienza per il deposito di note di replica. Una volta conclusa la discussione, il giudice pronuncia la sentenza dando lettura del dispositivo e delle ragioni della decisione, oppure si riserva il deposito del provvedimento conclusivo del processo entro i trenta giorni successivi.
Quanto invece ai rapporti tra collegio e giudice monocratico, il d.d.l. prevede che:
1) il collegio, quando rilevi che una causa, rimessa davanti a sé per la decisione, deve essere decisa dal tribunale in composizione monocratica, rimetta la causa al giudice istruttore, con ordinanza non impugnabile, perché decida quale giudice monocratico, senza fissare ulteriori udienze;
2) il giudice, quando rilevi che una causa, già riservata per la decisione davanti a sé quale giudice monocratico, deve essere decisa dal tribunale in composizione collegiale, senza fissare ulteriori udienze, rimetta la causa al collegio per la decisione con ordinanza. Tale provvedimento deve essere comunicato alle parti, ciascuna delle quali, entro dieci giorni dalla ricezione della comunicazione, può chiedere la fissazione dell'udienza di discussione davanti al collegio, senza che in tal caso sia necessario precisare nuovamente le conclusioni e debbano essere assegnati alle parti ulteriori termini per il deposito di atti difensivi;
3) in caso di mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producano secondo le norme del rito seguite prima del mutamento, restino ferme le decadenze e le preclusioni già maturate secondo le norme seguite prima del mutamento e il giudice fissi alle parti un termine perentorio per l'eventuale integrazione degli atti introduttivi;
4) in caso di cause connesse oggetto di riunione prevalga il rito collegiale, restando ferme le decadenze e le preclusioni già maturate in ciascun procedimento prima della riunione.
Testo proposto dalla Commissione e approvato dal Senato
Il testo approvato dal Senato lo scorso 21 settembre 2021 prevede, in parziale modifica del testo proposto dal Governo, all'art. 3, comma 1, lettera c-septiesdue modelli di decisione.
Infatti, esaurita la trattazione e istruzione della causa il giudice ove abbia disposto la discussione orale della causa ex art. 281-sexies c.p.c. possa riservare il deposito della sentenza entro un termine fino a trenta giorni dall'udienza di discussione. Qualora invece non proceda ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c. deve fissare l'udienza di rimessione della causa in decisione e, conseguentemente, assegnare un termine perentorio fino a sessanta giorni prima di tale udienza per il deposito di note scritte di precisazione delle conclusioni; un termine sempre perentorio fino a trenta giorni prima dell'udienza per il deposito delle comparse conclusionali e, da ultimo, un ulteriore termine di quindici giorni prima dell'udienza fissata per la rimessione della causa in decisione, per il deposito delle memorie di replica. È previsto altresì che le parti possano rinunciare agli ultimi due termini. All'udienza di remissione della causa in decisione il giudice ha la facoltà di riservarsi la decisione e di provvedere al deposito della sentenza nei successivi trenta giorni, mentre nelle cause in cui il tribunale decide in composizione collegiale nei successivi sessanta.
La lettera d) dell'art. 3 è rimasta immutata rispetto al disegno originario e continua a disciplinare i rapporti tra collegio e giudice monocratico prevedendo che il collegio, quando rilevi che una causa, rimessa davanti a sé per la decisione, deve essere decisa dal tribunale in composizione monocratica, rimetta la causa al giudice istruttore con ordinanza non impugnabile, perché decida quale giudice monocratico, senza fissare ulteriori udienze. Di converso, il giudice, quando rilevi che una causa, già riservata per la decisione davanti a sé quale giudice monocratico, deve essere decisa dal tribunale in composizione collegiale, senza fissare ulteriori udienze, rimetta la causa al collegio per la decisione con ordinanza comunicata alle parti, ciascuna delle quali, entro dieci giorni dalla comunicazione, può chiedere la fissazione dell'udienza di discussione davanti al collegio, senza che in tal caso sia necessario precisare nuovamente le conclusioni e debbano essere assegnati alle parti ulteriori termini per il deposito di atti difensivi. La disposizione precisa altresì che: in caso di mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producano secondo le norme del rito seguite prima del mutamento, restino ferme le decadenze e le preclusioni già maturate e il giudice fissi alle parti un termine perentorio per l'eventuale integrazione degli atti introduttivi. Viene infine disposta la prevalenza in caso di cause connesse, che sono state oggetto di riunione del rito collegiale, ferme sempre le decadenze e le preclusioni già maturate prima della riunione.
Osservazioni
Alla luce delle nuove disposizioni, dunque, al di fuori dei casi in cui la controversia è di competenza del collegio (di cui si dirà infra), il tentativo del legislatore di ridurre i tempi morti del processo, di fatto, si è concentrato sulla riduzione dei termini a difesa concessi alle parti.
Tuttavia, si tratta di una soluzione che non pare risolva alcun problema concreto.
Sotto il profilo pratico, infatti, se il giudice deve pronunciare la sentenza al termine della discussione orale, o a seguito di altra udienza fissata con la concessione di termini per la precisazione delle conclusioni e per il deposito delle note conclusionali e di replica, comunque sarà costretto a tenere in considerazione il proprio ruolo di cause ed a «calendarizzare» (così come espressamente previsto nel comma 8 del medesimo art. 3 del d.d.l.) l'udienza istruttoria «conclusiva» in un tempo che gli consenta di studiare il fascicolo, valutare le risultanze dell'istruttoria e, soprattutto, redigere la sentenza nel termine previsto dalla legge. Ora, poiché i giudici sono soliti decidere la causa ben oltre l'udienza suddetta, in quanto prima sono «calendarizzate» numerose altre cause pronte da tempo per la decisione, è evidente che l'udienza dalla quale calcolare i termini a ritroso, come quella per la discussione, sarà fissata a distanza di mesi, se non anni, dalla fine dell'istruttoria, per cui il risparmio di tempo è destinato a rimanere solo sulla carta.
In realtà, se il fine è ottenere una decisione più rapida, allora il problema non può essere individuato esclusivamente nei termini assegnati alle parti o al giudice per giungere ad una decisione, quanto piuttosto nella fase decisionale intesa come momento storico: se in quella fase viene a crearsi un «collo di bottiglia», nel senso che, come detto, in quel momento il giudice si trova a decidere altre cause già calendarizzate (il che nella maggior parte dei casi è determinato dal numero elevato di procedimenti assegnati) l'udienza «conclusiva» va fissata molto a lungo nel tempo, indipendentemente dall'ipotetica e prospettata concentrazione in un'unica udienza della fase decisoria.
Con riferimento, poi, alle innovazioni relative ai rapporti tra collegio e giudice monocratico, tralasciando per un momento quanto statuito in relazione al mutamento del rito ed alla connessione di cause, ferme le considerazioni appena svolte, appare condivisibile la scelta del legislatore di evitare una nuova udienza nel caso di trasmissione della causa dal giudice monocratico al collegio e viceversa.
Unica perplessità sorge circa la previsione per le parti di un termine di 10 giorni dalla comunicazione dell'ordinanza, con la quale il giudice monocratico rimette le parti dinnanzi al collegio per le cause riservate per la decisione dinnanzi a sé, ma di competenza del collegio medesimo, per richiedere la fissazione dell'udienza di discussione della causa.
Se da un lato un termine effettivamente molto breve appare giustificato dalla esigenza di celerità, a cui si ispira la riforma ed è in linea con l'abbreviazione di tutti gli attuali termini processuali, dall'altro lato, un po' meno chiaro sembra l'intento perseguito nella previsione di concedere ad ognuna delle parti la possibilità di chiedere la fissazione di una udienza di discussione davanti al collegio, senza però che sia consentito loro di precisare nuovamente le conclusioni, né al giudice di assegnare ulteriori termini per il deposito di atti difensivi. Si aggiunga che, mentre nel caso di remissione da parte del collegio al giudice monocratico, è espressamente previsto che l'ordinanza sia inimpugnabile, in questo caso nulla è disposto e soprattutto non è chiara l'effettiva utilità di un'udienza di discussione dinnanzi al Collegio, laddove è inibita la precisazione delle conclusioni ed il deposito di scritti difensivi. In altre parole, in quella udienza il collegio dovrebbe emettere la sentenza, esattamente come nella ipotesi contraria disciplinata dal n. 1 della lettera d) del comma 8 dell'art. 3, ma ci sarebbe - se richiesto dalle parti ovviamente - un'udienza ulteriore, senza chiarire allo svolgimento di quale incombente essa va destinata.
Peraltro, in entrambe le ipotesi le parti potrebbero non essere d'accordo a che la causa sia di competenza del giudice collegiale o del giudice monocratico, pur tuttavia in nessun modo potrebbero sollevare la questione, a meno che non si voglia pensare l'udienza di discussione - nel caso di remissione dinnanzi al Collegio - destinata proprio a questo. Se fosse così però non avrebbe senso non fissare la medesima udienza anche dinnanzi al giudice monocratico, dinnanzi al quale il collegio ha rimesso la causa perché ritiene che la decisione spetti a lui.
Quanto poi al n. 3 della lettera d) del comma 8 dell'art. 3, ossia la previsione espressa che in caso di mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producano secondo le norme del rito seguite prima del mutamento e che restino ferme le decadenze e le preclusioni già maturate secondo le norme seguite prima del mutamento, la disposizione disciplina espressamente gli approdi giurisprudenziali raggiunti in argomento. Un poco meno chiara è la precisazione circa la necessità di fissazione da parte del giudice di un termine perentorio per l'eventuale integrazione degli atti introduttivi. Essendo infatti oramai giunti alla fine dell'istruttoria e facendo salve tutte le decadenze e le preclusioni già maturate in ordine alla possibilità di sollevare eccezioni e difese e, magari, oramai raggiunta la ‘non contestazione' circa determinati fatti, il termine di cui in parola per la integrazione degli atti introduttivi sembra perdere di una qualunque utilità.
Avuto infine riguardo alla prevalenza del rito collegiale sul rito monocratico, nella ipotesi di cause connesse fatte oggetto di riunione, la scelta appare del tutto condivisibile in un'ottica di garanzia, soprattutto con riferimento la tipologia di cause riservate alla decisione del tribunale in composizione collegiale, attualmente individuate nell'art. 50-bis c.p.c. ma che, in forza dell'art. 4, comma 1, lett. a), verranno ridotte, in considerazione dell'oggettiva complessità giuridica e della rilevanza economico-sociale della controversia.
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