Distinte azioni di impugnazione del medesimo atto di licenziamento per ragioni diverse
27 Ottobre 2021
Massima
In caso di proposizione di distinte azioni di impugnazione, per ragioni diverse, del medesimo atto di licenziamento, non sussiste litispendenza tra i due giudizi, pur aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale; tuttavia, la proponibilità di una nuova iniziativa giudiziaria resta condizionata alla sussistenza di un interesse oggettivo del lavoratore al frazionamento della tutela avverso l'unico atto di recesso. Il caso
Un lavoratore impugna con due azioni separate lo stesso licenziamento adducendo, in ciascun giudizio, diversi motivi di illegittimità.
In primo grado la domanda viene rigettata in un procedimento ed accolta nell'altro.
In appello i giudizi vengono riuniti ed è rigettata l'eccezione di violazione del “ne bis in idem” formulata dal datore di lavoro; il giudice del gravame evidenzia che, malgrado entrambe le cause abbiano ad oggetto la dedotta illegittimità del licenziamento, la “causa petendi” è diversa (e differenti sarebbero, nel caso, le conseguenze economiche invocate).
Il datore di lavoro censura quindi la decisione nella parte in cui ha ritenuto non preclusa la seconda iniziativa giudiziaria, assumendo tra l'altro l'identità di “petitum”, incentrato sulla contestazione della legittimità del licenziamento.
La Suprema Corte accoglie il ricorso enunciando il principio di diritto sopra riportato. La questione
La questione in esame è la seguente: il lavoratore può contestare lo stesso licenziamento promuovendo azioni distinte deducendo, in ciascun giudizio, motivi diversi di illegittimità? Le soluzioni giuridiche
La S.C. ribadisce, in primo luogo, che con l'azione di impugnativa del licenziamento il lavoratore non fa valere un diritto “autodeterminato”, sicché l'azione stessa non è idonea ad estendere l'oggetto del processo all'intero rapporto (cfr., sul punto, Cass. 24 marzo 2017, n. 7687 - ed altre successive conformi - ove è affermato che la “causa petendi” dell'azione proposta dal lavoratore per contestare la validità e l'efficacia del licenziamento va individuata nello specifico motivo di illegittimità dell'atto dedotto nel ricorso introduttivo, in quanto ciascuno dei molteplici vizi dai quali può derivare la illegittimità del recesso discende da circostanze di fatto che è onere del ricorrente dedurre e allegare); ne consegue, ulteriormente, che ogni singolo vizio del licenziamento può fondare una distinta azione, in teoria separatamente proponibile senza che possa configurarsi litispendenza tra cause.
Tale impostazione (che si disallinea da quella seguita da Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, secondo cui l'oggetto del giudizio nelle impugnative negoziali è dato dal negozio e dal rapporto giuridico sostanziale che ne scaturisce), ovviamente, presenta una controindicazione di non poco conto, ossia quella della proliferazione dei giudizi.
Efficace rimedio potrebbe rinvenirsi, allora, nel fattore “preclusione” ricavabile da una valorizzazione del divieto di frazionamento della tutela giurisdizionale fondato sui principi di buona fede o del giusto processo.
Sul punto, già in passato, Cass. 11 marzo 2016, n. 4867, aveva statuito che “In tema di licenziamento non è consentito frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di due distinti giudizi lamentando, in uno, solo vizi formali e, nell'altro, vizi di merito, con conseguente disarticolazione dell'unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto, trattandosi di una condotta lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, che si risolve in un abuso dello strumento processuale e si pone in contrasto con i principi del giusto processo”.
In materia è poi intervenuta Cass., sez. un., 16 febbraio 2017, n. 4090, secondo cui “Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo - sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell'identica vicenda sostanziale - le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, e, laddove ne manchi la corrispondente deduzione, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ex art. 183, c.p.c., riservando, se del caso, la decisione con termine alle parti per il deposito di memorie ex art. 101, comma 2, c.p.c.”.
Successivamente, proprio nel settore lavoristico, il frazionamento delle tutele è stato ammesso, con riferimento alla fattispecie di contratto a termine, dalla S.C. (Cass. 9 febbraio 2018, n. 3226), la quale ha rilevato che “Nel rito del lavoro, la proposizione in giudizio di una domanda relativa a un contratto già impugnato con un precedente ricorso, fondata tuttavia su una diversa “causa petendi”, non costituisce abuso del processo per ingiustificato e arbitrario frazionamento della domanda, in quanto non mira a realizzare una esclusiva utilità dell'attore e non determina un inutile aggravamento della posizione della controparte. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza che aveva dichiarato inammissibile la domanda di nullità di un contratto a termine con Poste italiane s.p.a., per violazione della clausola di contingentamento di cui all'art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, sul presupposto che il ricorrente aveva già impugnato lo stesso contratto per contrarietà della medesima disposizione alla direttiva 1999/70/CE)”.
Con la pronuncia in commento, invece, la S.C., nel far ricorso all'indirizzo promosso dalla citata pronuncia delle Sezioni unite, precisa che deve sussistere in capo al lavoratore un interesse oggettivo a promuovere azioni separate di impugnativa del medesimo licenziamento.
Ciò in quanto, in caso di plurime impugnative giudiziali, le domande hanno ad oggetto “un unico atto ed una medesima vicenda sostanziale”, sicché opera, in caso di insussistenza del predetto interesse, il divieto di frazionamento delle tutele, che risponde, come affermato nella richiamata pronuncia delle Sezioni unite, alla necessità di salvaguardare la giustizia sostanziale della decisione, il principio di durata ragionevole dei processi nonché, infine, la stabilità dei rapporti, in relazione al rischio di giudicati contrastanti. Osservazioni
Un primo aspetto da vagliare è quello concernente, nell'ipotesi considerata, la ritenuta operatività del divieto, pur “temperato”, di frazionamento delle tutele.
Al riguardo potrebbe osservarsi che, in realtà, i fatti costitutivi di due azioni di impugnativa con le quali venga contestato lo stesso licenziamento non sono uguali ove in ciascuna azione venga dedotto un vizio differente - ad esempio, in un caso, la nullità per discriminazione e, nell'altro, la mancanza di giusta causa -. Peraltro, in molti casi non vi sarebbe neppure una duplicazione di attività istruttoria con conseguente dispersione della conoscenza dell'identica vicenda sostanziale, come nell'esempio sopra fatto, in cui l'ambito di acquisizione del materiale probatorio volto all'accertamento della discriminazione è verosimilmente non coincidente con quello finalizzato alla verifica della sussistenza della giusta causa.
Tuttavia, sembra assumere valenza decisiva, nel caso, un principio di economia processuale (anche di recente posto a supporto di un divieto “secco” di frazionamento nell'ambito di un unico rapporto obbligatorio; cfr., sul punto, Cass. 27 luglio 2018, n. 19898: “Non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale; conseguentemente, le domande giudiziali aventi ad oggetto una frazione di un unico credito sono da dichiararsi improcedibili”), che risulterebbe violato in quanto, benché il rapporto di lavoro sia di durata, l'atto di licenziamento costituisce un singolo episodio, avverso il quale la unitaria reazione del lavoratore (consistente nell'unica impugnativa contenente tutti i possibili motivi di contestazione) si presenta come espressione del principio generale di concentrazione e di speditezza che informa l'attuale sistema processuale.
In buona sostanza, la pronuncia in commento sembra valorizzare il divieto di frazionamento alla luce della particolarità del caso, in cui a venire in rilievo non è un'azione di adempimento relativa a diritti di credito, bensì di impugnativa del licenziamento, retta da principi di settore.
L'adozione della soluzione, per così dire, “temperata”, che ammette il frazionamento ma solo a condizione che il lavoratore abbia un oggettivo interesse, si rivela, del resto, equilibrata e ragionevole, perché risponde ad esigenze pratiche.
Basti ipotizzare il caso in cui il lavoratore che abbia dapprima impugnato in via giudiziale il licenziamento deducendo la mancanza di giusta causa venga a scoprire, dopo la proposizione dell'azione, che in realtà quel licenziamento era anche discriminatorio. In tal caso la preclusione alla seconda azione non sembra trovare adeguata giustificazione.
Si tratta ora di capire come un tale interesse possa essere evidenziato in sede processuale.
Al riguardo, sembra ragionevole ritenere che il lavoratore debba dedurre l'interesse in questione fin dalla proposizione della seconda impugnativa giudiziale; il che presuppone che egli debba dare previamente atto, nel ricorso, dell'esistenza di altro giudizio avente ad oggetto l'impugnativa dello stesso licenziamento.
In alcuni casi, peraltro, la sussistenza dell'interesse all'azione separata dovrà essere provata.
Il profilo probatorio va, però, attentamente valutato nell'ipotesi in cui il lavoratore nulla deduca circa la sussistenza dell'interesse e sia la controparte ad eccepire l'improponibilità dell'azione; qui si tratta di capire se il lavoratore medesimo possa evidenziare la sussistenza di un tale interesse nelle controdeduzioni e se egli sia ancora in termini per dare prova dello stesso. Analoga problematica si verifica ove sia il giudice a rilevare di ufficio il difetto di interesse fissando alle parti un termine per l'esame della questione; anche qui, infatti, il lavoratore potrebbe voler dedurre e provare il predetto interesse.
Ciò detto, si tratta di verificare i punti di interferenza che sul tema può presentare l'operatività dell'istituto della decadenza ex art. 6 della l. n. 604 del 1966.
Ed infatti una misura di sbarramento alla instaurazione di giudizi successivi può essere costituita dal termine di decadenza entro cui procedere all'impugnativa giudiziale, ove si ammetta che la (seconda) decadenza non possa ritenersi definitivamente impedita, una volta per tutte, con la proposizione del primo ricorso.
Del resto, qualora si ritenga che alla deduzione di ciascun vizio corrisponda una “causa petendi” distinta, dovrebbe ammettersi che ogni impugnativa giudiziale – diversamente dall'impugnativa stragiudiziale, che, finalizzata ad una mera contestazione della legittimità del licenziamento, è neutra quanto alle ragioni della predetta contestazione – impedisca il compimento della decadenza solo in relazione al motivo esternato in ricorso (per una conferma, v. Cass. 20 marzo 2019, n. 7851, la quale ha rilevato che il secondo ricorso era stato nel caso depositato dal lavoratore quando oramai era scaduto il termine di decadenza decorrente dall'impugnativa extragiudiziale, in tal modo confermando che il primo ricorso aveva impedito la decadenza solo in relazione alla “causa petendi” ivi contenuta, sì da considerarsi inidoneo ad impedirla una volta per tutte in relazione a future domande incentrate su ragioni diverse).
Rimane infine da valutare cosa possa accadere ove invece sia accertata la sussistenza di un interesse del lavoratore al promovimento di una ulteriore azione separata di impugnativa del licenziamento.
L'ipotesi più semplice è quella in cui si ravvisi tra i due procedimenti una ipotesi di connessione, con la conseguenza che il secondo potrebbe essere riunito al primo o, in caso di pendenza dei procedimenti in questione in uffici giudiziari diversi, riassunto, ex art. 40 c.p.c., per la trattazione unitaria.
Ove invece, per varie ragioni, sia negata la trattazione unitaria, allora sarebbe ipotizzabile l'utilizzo della sospensione ex art. 337, comma 2, c.p.c. in caso di intervenuta pronuncia che accordi la tutela reintegratoria “piena” nel primo giudizio, poiché essa rende inutile il secondo, essendosi in presenza di concorso di diritti; diversamente, si possono distinguere le seguenti ipotesi (non escludendosene, ovviamente, altre): a) se, a fronte dell'impugnativa di licenziamento con domanda di reintegra sulla base, ad esempio, del difetto di giusta causa, con la sentenza sia assegnata la sola posta risarcitoria, o venga dichiarato legittimo il licenziamento, il secondo giudizio potrebbe proseguire qualora il lavoratore abbia con esso chiesto la reintegra fondata, ad esempio, sulla nullità per ritorsione o discriminazione; b) se, a fronte della domanda di reintegra sulla base della nullità del licenziamento, la sentenza sia di rigetto, il secondo giudizio potrebbe proseguire qualora il lavoratore abbia con esso chiesto la reintegra fondata, ad esempio, sul difetto di giusta causa; c) se il lavoratore ha fatto valere dapprima vizi formali o procedurali non dovrebbe essere preclusa la successiva azione fondata su vizi sostanziali (e sul punto v. già Cass. 10 maggio 2000, n. 6021); d) se il lavoratore ha fatto valere vizi sostanziali dovrebbe essere preclusa la successiva azione fondata su vizi formali o procedurali, ove si acceda alla tradizionale tesi che il profilo formale è un antecedente logico di quello sostanziale.
Nei casi sub a) e b) si tratta di stabilire se il passaggio in giudicato della prima sentenza che abbia dichiarato legittimo il licenziamento sia idonea a coprire il “deducibile”, quale proiezione del nesso di “incompatibilità” tra la questione proposta con la nuova domanda ed i presupposti logico-giuridici del già avvenuto accertamento giudiziale (in tal senso potrebbe ritenersi ancora valido l'insegnamento di Cass. 28 settembre 2006, n. 21032, ove è affermato che “In presenza di più impugnazioni dello stesso licenziamento, il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile implica che il risultato di un processo (conclusosi, appunto, con sentenza passata in giudicato) non possa più essere messo in discussione mediante ragioni o argomentazioni che in quello stesso processo avrebbero potuto essere fatte valere dall'interessato; così, in particolare, con riguardo al licenziamento disciplinare, è da ritenersi preclusa per effetto del precedente giudicato la nuova impugnazione che deduca nuovi e diversi profili di illegittimità da parte del lavoratore dipendente, precisandosi che, in ogni caso, è da escludersi che il giudicato sulla validità sostanziale del licenziamento consenta un'altra impugnazione per ragioni formali, restando del tutto irrilevante che gli eventuali, relativi vizi non siano stati dedotti o siano stati tardivamente, e perciò inammissibilmente, fatti valere”). E' dubbio, peraltro, avuto riguardo al caso sub a), se, passata in giudicato la sentenza che abbia dichiarato la illegittimità del licenziamento riconoscendo solo la posta risarcitoria, il giudicato possa coprire solo detta illegittimità e non una di altra natura; in caso affermativo, la accertata ingiustificatezza del licenziamento non precluderebbe al giudice della seconda causa di sancirne anche la nullità.
Per riferimenti sul tema, v. L. Di Paola, L'impugnativa del licenziamento e le decadenze, ne “Il licenziamento”, L. Di Paola (a cura di), Giuffré, 2019, 505 ss. |