Sulla legittimità del recupero da parte dell'azienda dei dati cancellati dolosamente dal lavoratore dal proprio computer
17 Novembre 2021
Il caso. La Corte d'appello di Torino, riformando la decisione di primo grado, aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta da A. s.r.l. per voci patrimoniali varie e per danno all'immagine e alla reputazione professionale, nei confronti dell'ing. T., suo dirigente con mansioni di direttore commerciale e responsabile d'area, dimessosi il 2 settembre 2013, e aveva condannato la società datrice al pagamento, in favore del dipendente, della indennità di mancato preavviso.
E ciò sia per l'inutilizzabilità delle conversazioni illegittimamente acquisite dalla società datrice, una volta riconsegnato dal dipendente il computer aziendale in dotazione, sul suo account privato Skype, in violazione della segretezza della corrispondenza (tale essendo anche quella informatica o telematica) che della password personale di accesso del lavoratore, mai avendo la società ritenuto di fornirne una aziendale, nonostante l'impiego dell'applicativo Skype anche per lo svolgimento dell'attività lavorativa: non potendo tali comportamenti, in difetto di consenso dell'interessato, essere giustificati dal d.lgs. n. 196 del 2003, art. 24 (Codice della privacy), in assenza di attualità e diretta strumentalità all'esercizio o alla tutela di un diritto in sede giudiziaria; sia per inidoneità delle risultanze istruttorie, in esito a loro critico ed argomentato scrutinio, al coinvolgimento del dirigente negli illeciti suindicati.
Infine, la Corte subalpina riconosceva al predetto il diritto all'indennità di preavviso avendo egli manifestato, al di là della propria preferenza per una cessazione anticipata del rapporto per le dimissioni rassegnate per ragioni familiari, la disponibilità a lavorare l'intero periodo; avendolo poi la società datrice unilateralmente da ciò esonerato.
Sulla legittimità del recupero da parte dell'azienda dei dati cancellati dolosamente dal lavoratore dal proprio computer. Per la Cassazione, i giudici di appello hanno omesso “di bilanciare i diritti di difesa e di tutela della riservatezza, posto che, in materia di trattamento dei dati personali, il diritto di difesa in giudizio prevale su quello di inviolabilità della corrispondenza, consentendo la normativa di prescindere dal consenso della parte interessata per il trattamento di dati personali, quando esso sia necessario per la tutela dell'esercizio di un diritto in sede giudiziaria, a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento», spiegano i giudici di Cassazione. E “il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso”, aggiungono ancora i giudici di legittimità.
La produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è dunque sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza, dovendo, tuttavia, tale facoltà di difendersi in giudizio, utilizzando gli altrui dati personali, essere esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dalla l. n. 675 del 1996, art. 9, lett. a) e d), sicché la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, con le esigenze di difesa (fattispecie relativa all'attività di recupero dei documenti, dati e informazioni contenuti nei dispositivi aziendali - dati in dotazione al dirigente e pure integranti patrimonio aziendali - e dolosamente cancellati dal dirigente prima della riconsegna del pc). |