Liquidazione del danno biologico in caso di ridotta aspettativa di vita conseguente al fatto lesivo: spunti per un dibattito
24 Novembre 2021
Premessa
Il danno alla salute è un danno permanente di natura non patrimoniale, derivante da lesione all'integrità psico-fisica, che si produce de die in diem; se al momento della liquidazione chi ha patito tale pregiudizio è ancora vivo, esso è liquidato pro futuro, ipotizzando che il danneggiato permarrà in vita per un tempo almeno pari a quello risultante dalle generali statistiche mortuarie (Cass. civ., sez. VI, ord. 22/05/2018, n. 12535). Quando le lesioni cagionano un danno biologico che esita, dopo la guarigione clinica, in postumi permanenti, a essere risarcito è, dunque, il pregiudizio dovuto alla sopportazione di quei postumi per il resto della vita del danneggiato. È lapalissiano che la morte estingue, invece, ogni danno biologico futuro correlato alla probabilità statistica della durata della vita (Cass. civ., sez. III, sent. 09/10/2009, n. 21497).
Le tabelle per l'invalidità permanente in uso presso gli Uffici giudiziari, in primis quelle milanesi, sono state elaborate in base alla vita media futura presunta: con il c.d. criterio tabellare o del punto variabile, infatti, a essere ristorato è un danno in favore di un soggetto del quale, al momento della liquidazione, non è dato conoscere la durata della vita, procedendo, pertanto, al risarcimento sulla presunzione che egli sopravvivrà alla lesione subita per il tempo corrispondente alla sua ordinaria speranza di vita (ex pluribus, Cass. n. 21497/2009 cit.).
Ha osservato in proposito la Corte di cassazione: “Il valore ponderale del punto d'invalidità è calcolato in base all'impiego congiunto di due elementi: la gravità della menomazione, che misura quanto della piena integrità fisica e psichica è andato perduto; l'età della persona nel momento in cui subisce la menomazione, che misura quanto spazio di vita, rispetto alla sua durata media, ha la persona nel momento in cui subisce il danno. Tanto maggiore è la gravità della menomazione, tanto più giovane è l'età di chi la subisce, tanto più elevato è il valore ponderale del punto di invalidità, il quale racchiude in sè ed esprime la simultanea presenza dei due fattori che concorrono a privare la persona del diritto a vivere come persona sana ed a vivere quanto comunemente vivono gli altri” (Cass. civ., sez. III, sent. 09/05/2000, n. 5881). Ma se il calcolo, mediante il ricorso al metodo tabellare, è sviluppato sulla base di coefficienti riferiti all'aspettativa di vita media dell'individuo, quid juris se invece il danneggiato ha, in conseguenza del fatto lesivo, un'aspettativa di vita inferiore a quella risultante dalle statistiche di mortalità? Orientamento giurisprudenziale contrario a una diminuzione del risarcimento in caso di minore speranza di vita futura del danneggiato
Secondo un primo orientamento, espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 5881/2000 cit. , “nella liquidazione del danno alla salute la scelta dal valore monetario del punto d'invalidità deve essere effettuata senza tenere conto della minore speranza di vita futura che il danneggiato potrà avere, in conseguenza del sinistro: diversamente, infatti, il danneggiante verrebbe a beneficiare di una riduzione del risarcimento tanto maggiore quanto più grave è il danno causato” (in Giust. civ. Mass. 2000, 967; Danno e resp. 2001, 169, nota di D'Angelo). La sentenza ha ad oggetto il danno alla salute patito da un neonato in conseguenza delle lesioni riportate durante il parto, ovvero un grave danno neurologico che aveva determinato una compromissione della sua integrità fisica e psichica nella misura del 90%, e che aveva ridotto la sua aspettativa di vita futura a soli trent'anni. La questione era se tale danno dovesse liquidarsi avendo riguardo alla durata della vita media oppure all'effettiva residua aspettativa di vita del bambino, grandemente ridotta a causa della menomazione subita. La sentenza di primo grado era stata impugnata, con appello principale, dal medico anche in relazione all'accertamento e alla liquidazione di alcune voci di danno; proponevano appelli incidentali l'ente convenuto e gli attori. La Corte d'appello riformava parzialmente la sentenza di primo grado. Proponevano, quindi, ricorso per cassazione il medico e l'ente, quest'ultimo resistendo in parte al ricorso; resistevano con controricorso i genitori del minore. La Corte di legittimità, riuniti i ricorsi, li ha rigettati entrambi premettendo, in ordine alla questione che qui interessa, che “il danno biologico deve essere liquidato dal giudice con valutazione equitativa (art. 1226 cod. civ. [link normativa]), tenendo conto dei tratti che caratterizzano nel caso concreto la menomazione arrecata al diritto della persona alla propria integrità fisica e psichica”, e tra le varie le circostanze concrete vi è la residua aspettativa di vita del danneggiato, ridotta per colpa altrui rispetto alla durata di vita media. Si legge a tal proposito in sentenza: “È ben chiaro e risponde alla logica comune, che la massima menomazione che possa arrecarsi all'integrità fisica e psichica di una persona, che tuttavia vivrà ed a lungo, sta nel porla nella condizione di dover vivere una vita presso che totalmente svuotata dei valori e possibilità che essa presenta ed offre a tutti gli altri. Ciò non significa dire, come affermazione di principio, che il giudice non possa tenere conto o sbaglierebbe se tenesse conto del fatto che alla persona, per la gravità della menomazione, non resti che un veramente breve spazio di vita ulteriore, eventualmente consumatosi nel momento in cui il danno è liquidato. Rientra nella logica della valutazione equitativa che il giudice possa e debba tenere conto di ogni rilevante tratto del caso concreto. Ma sbagliano i ricorrenti quando assumono che, nel caso concreto, la liquidazione del danno avrebbe dovuto essere fatta in altro modo e che sia viziata dal punto di vista logico per non essere stata fatta in altro modo. Il quale avrebbe poi dovuto consistere nel considerare il bambino alla stregua di una persona che avesse già consumato parte della durata della vita media e si trovasse nella condizione di età della persona cui resti, di tale durata di vita media, lo stesso spazio di vita che resterebbe ad un bambino nato con le menomazioni” del minore. A questo punto, rileva la Corte di cassazione, “se avrà la ventura di vivere solo trent'anni gli [al bambino] è stato tolto, non dalla natura o dal destino, ma dal fatto colposo di altri, ben più di quanto può essere tolto a persona che abbia vissuto cinquanta degli ottanta anni di vita che costituiscono oggi la durata di vita sulla cui base è stata formata la tabella. Non aver la corte d'appello ritenuto di dover attribuire al dato su cui si sono soffermati i ricorrenti ha d'altro canto sul piano logico ulteriori giustificazioni: la non breve attesa di vita futura e la possibilità che la prognosi risulti smentita dai fatti o dal progresso della scienza”. Il medesimo principio è stato richiamato in un obiter dictum dalla Sezione sesta civile della Corte di cassazione (ord. 31/10/2019, n. 28168), in una causa instaurata dai prossimi congiunti di persona gravemente ferita e, tre anni dopo, deceduta a causa delle lesioni riportate in un incidente stradale.
Dopo aver rilevato che la pronuncia n. 5881 del 2000, invocata dai ricorrenti a sostegno della loro tesi, riguardava una fattispecie del tutto diversa, avendo ad oggetto il danno alla salute patito da un neonato intra partum, ma vivente al momento della decisione, la Corte ha osservato: “Sorse in quel caso questione se il danno al neonato dovesse liquidarsi avendo riguardo alla durata media della vita umana, od alla sua speranza di vita, ridotta a causa dellemenomazioni patite. Ed in quel caso, condivisibilmente, questa Corte optò per la prima soluzione: sia perchè si trattava di liquidare un danno permanente non temporaneo; sia perchè si trattava di liquidare un danno patito da una persona vivente, e dunque un danno destinato a proiettarsi nel futuro. Quando, invece, occorra liquidare iure hereditario il danno patito da una persona già defunta al momento della liquidazione, il pregiudizio alla salute di cui si chiede al giudice l'aestimatio può essere solo e soltanto passato e dunque esaurito nella sua vicenda biologica”.
Si veda, inoltre, la sentenza della Sezione lavoro della Cassazione 23/05/2003, n. 8204, con riferimento alla domanda di risarcimento del danno proposta dagli eredi di un lavoratore, esposto per lungo tempo all'inalazione di polveri di amianto, deceduto per mesotelioma pleurico e, in particolare, alla questione se l'entità del danno vada commisurata alla durata effettiva della vita: “[…] in ordine alla valutazione del danno, numerosi precedenti della Corte affermano la necessità di riferirlo al periodo intercorso tra l'evento lesivo e la morte del leso […], ancorché alcune sembrino limitare il principio - del riferimento alla durata effettiva e non a quella probabile della vita futura del soggetto - al caso di morte nel corso del giudizio di liquidazione per causa indipendente dalla lesione di cui il convenuto è chiamato a rispondere […] In questo modo, però, la determinazione concreta del danno viene resa immediatamente dipendente dai tempi del giudizio di liquidazione […] ed inoltre, quale necessario, coerente, sviluppo logico, dovrebbe anche comportare una riduzione del risarcimento ove, proprio in conseguenza del fatto lesivo, sia diminuita la speranza di vita futura del danneggiato (il che è decisamente escluso Cass: 9 maggio 2000, n. 5881, sul rilievo che non sarebbe concepibile che il danneggiante benefici di una riduzione del risarcimento tanto maggiore quanto più grave è il danno causato). […] In realtà, il rilievo accordato alla successiva morte del soggetto, accertata nel giudizio di liquidazione, non considera adeguatamente il fatto che la scelta del valore monetario del punto di invalidità in relazione alla speranza di vita futura costituisce puramente e semplicemente un criterio, un semplice metodo, per la determinazione (equitativa) del danno arrecato al bene della salute al momento dell'evento; mentre, ove si facesse riferimento alla durata concreta della vita, si adotterebbe un criterio contrastante sotto il profilo logico - giuridico con l'essenza di danno non patrimoniale, consistente nel quantum di menomazione dell'integrità psico - fisica, siccome è solo la perdita patrimoniale che va calcolata in relazione all'incidenza sulla capacità di produrre reddito in futuro […]”. Segue: indirizzo giurisprudenziale di segno opposto
Altro orientamento giurisprudenziale ritiene che nella liquidazione del danno alla salute si debba tenere conto non già della speranza di vita media, ma della concreta aspettativa di vita della vittima, sebbene essa sia stata ridotta proprio dal fatto illecito.
A enunciare per la prima volta questo principio è stata la Sezione terza civile della Corte di cassazione con sentenza 4 novembre 2003, n. 16525, secondo cui “nella liquidazione del danno biologico la scelta del valore monetario del punto di invalidità deve essere effettuata tenendo in considerazione l'eventuale minore speranza di vita futura, scientificamente accertata, di cui il danneggiato possa godere in conseguenza del sinistro, salvo il potere del giudice di disporre un'adeguata e prudente maggiorazione del risarcimento in ragione della particolare gravità della lesione” (in Foro it. 2004, I, 779, nota di Bona; Danno e resp. 2004, 677). Nella fattispecie, era stato promosso dai genitori un giudizio per la condanna di un'Azienda ospedaliera al risarcimento dei danni subiti dalla figlia, all'epoca di cinque mesi, per lesioni cerebrali riconducibili ad arresto cardiaco a seguito di shock ipovolemico per emorragia, della quale i sanitari si erano accorti in ritardo. Pur avendo il giudice di merito accertato che la minore aveva riportato postumi permanenti della misura dell'85 - 90%, con una speranza di vita limitata a soli diciotto - vent'anni, il danno permanente alla salute era stato liquidato applicando le tabelle del Tribunale di Milano, tenendo conto non di questa ridotta aspettativa di vita, ma della speranza di vita media nazionale. Proponeva ricorso per cassazione l'Azienda ospedaliera, censurando con il secondo motivo la sentenza impugnata “per aver liquidato il danno biologico e quello morale in favore della minore, come se la stessa avesse una previsione di vita normale […] di tale ridotta aspettativa di vita, invece, il giudice aveva contraddittoriamente tenuto conto ai fini della liquidazione del danno da spese sanitarie”.
La Suprema Corte ha accolto questo motivo di ricorso, cassando sul punto la sentenza di merito, rilevando che la liquidazione del danno biologico consegue alla combinazione di due “fattori variabili di cui occorre tener conto: da un lato l'entità della perdita del bene salute, come conseguenza delle lesioni, e dall'altra la durata di detta perdita, cioè il tempo per cui il soggetto dovrà convivere con il danno alla salute, per cui in caso di postumi permanenti, detto tempo sarà pari alla speranza di vita futura del soggetto. In base a questo principio, […] si giustificano i due principi costantemente affermati da questa Corte: a) il primo è che, se nel corso del giudizio il soggetto danneggiato decede, la liquidazione del danno biologico dello stesso (in favore degli eredi iure hereditatis), va effettuata non più con riferimento alla vita futura probabile del soggetto danneggiato, ma con riferimento alla vita effettiva (Cass. 9 agosto 2001, n. 10980; Cass. 20 gennaio 1999, n. 489; Cass. 11 luglio 2000, n. 9182); b) il secondo è che, se tra il fatto illecito ed il decesso causato dallo stesso, intercorre un apprezzabile lasso di tempo, al soggetto danneggiato è dovuto il risarcimento del danno biologico, ma esso è commisurato pur sempre alla durata della permanenza in vita del danneggiato e non è dovuto il risarcimento del danno biologico per intero, come se il soggetto avesse raggiunto la durata di vita conforme alle speranze della vita media. In altri termini il risarcimento del danno biologico non entra per intero nel patrimonio del soggetto danneggiato istantaneamente, indipendentemente da quanto tempo egli sia vissuto o si presuma che potrà vivere (Cass. 16 maggio 2003, n. 7632). […] Da quanto sopra detto; e segnatamente in relazione al punto che la liquidazione del danno biologico deve tener conto anche del fattore “tempo”, durante il quale il danneggiato ha dovuto (o dovrà presumibilmente) convivere con detto danno biologico, ne consegue che se durante il giudizio di merito il soggetto danneggiato è rimasto in vita, il giudice di merito, investendo la liquidazione del detto danno biologico anche in futuro, non potrà che effettuare una prognosi della durata dello stesso per il futuro. Se non esiste una prognosi specifica di durata della vita del danneggiato, correttamente il giudice del merito ritiene che essa sia eguale per il soggetto danneggiato a quella media nazionale, su cui sono redatte le c.d. tabelle”.
Alla luce di quanto precede, la Cassazione ha enunciato il principio per cui se “nel caso concreto la prognosi di speranza di vita per il danneggiato è accertata sulla base di conoscenze scientifiche (ad esempio, come nella fattispecie, tramite c.t.u.), il giudice di merito deve liquidare il danno biologico non con riferimento alla speranza di vita media nazionale, ma alla prognosi di durata della vita dello specifico soggetto danneggiato”. Inoltre, escluso che il risarcimento in questione abbia funzione sanzionatoria, di pena privata nei confronti del danneggiante, “simile ai punitives damages, tipici dell'ordinamento anglosassone (e verso cui la nostra cultura giuridica ha sempre avuto una considerazione critica)”, con riferimento all'opera di “personalizzazione” cui è chiamato il giudice del merito, questi deve tenere “correttamente conto di detta riduzione della speranza di vita (accertata nella fattispecie come conseguenza delle subite lesioni), sotto il profilo non dell'evento morte, che come tale rimane fuori dal risarcimento del danno biologico, attinente esclusivamente ad un soggetto in vita, ma della gravità particolare della lesione, che ha inciso anche sulla capacità recuperatoria, o quanto meno stabilizzatrice, della salute, accelerando la “discesa” vesso la morte e rendendo più gravoso quel minus esistenziale che accompagna la residua vita della vittima, provvedendo quindi nell'attività di “personalizzazione” dei criteri tabellari ad una adeguata e prudente maggiorazione”.
A questi principi è conforme l'ordinanza della Sezione sesta civile della Corte di cassazione 30 aprile 2019, n. 11393, anche se con riferimento al danno patrimoniale per spese mediche future: “[…] questa Corte infatti ha già stabilito che nella stima del danno futuro causato da una invalidità permanente, il giudice di merito deve liquidare il danno non con riferimento alla speranza di vita media nazionale, ma alla prognosi di durata della vita dello specifico soggetto danneggiato". In applicazione del principio, la Suprema Corte, in fattispecie nella quale il danneggiato aveva chiesto il risarcimento dei danni patrimoniali conseguenti a un sinistro stradale in cui era rimasto coinvolto riportando gravi lesioni personali, ha ritenuto esente da critiche la sentenza che aveva proceduto alla liquidazione moltiplicando l'importo annuale delle spese mediche dovute per assistenza fisioterapica per la prognosi di durata della vita, calcolata in misura pari a trentacinque anni. In Giustizia Civile Massimario 2019). La sentenza n. 26118/2021 della Sezione terza civile della Corte di cassazione
Sul tema è tornata recentemente a pronunciarsi la Sezione terza civile della Corte di cassazione (sentenza n. 26118 del 27 settembre 2021, Presidente Dott. Giacomo Travaglino - rel. Consigliere Dott. Marco Rossetti). La sentenza trae origine dal giudizio promosso contro un ospedale dai genitori (anche in rappresentanza del figlio minorenne) e dagli avi di un bambino che nelle ore immediatamente precedenti il parto aveva subito una grave asfissia ipossico-ischemica, che lo aveva reso permanentemente e totalmente invalido.
Gli attori attribuivano l'ipossia a responsabilità dei sanitari dell'ospedale, che inizialmente non si erano accorti dell'esistenza dei sintomi predittivi di una sofferenza fetale, e poi non avevano effettuato per tempo un parto cesareo. Era, quindi, chiesta la condanna dell'ospedale al risarcimento dei danni dagli stessi subiti. Costituitosi in giudizio il nosocomio negava la propria responsabilità ed estendeva il contraddittorio nei confronti del proprio assicuratore della responsabilità civile, al fine di essere tenuto indenne in caso di soccombenza. L'ospedale deduceva, inoltre, l'avvenuto pagamento a favore degli attori della somma di euro 1.033.000, per effetto di transazione stipulata con la società assicuratrice della responsabilità civile del ginecologo di turno al momento del parto. Costituitosi ritualmente, l'assicuratore dell'ospedale contestava la responsabilità del proprio assicurato, eccependo comunque i limiti della garanzia. Il Tribunale accoglieva la domanda a favore del minore, decurtando dal relativo risarcimento quanto già versato a titolo transattivo dall'assicuratore del medico e, in seguito, anche dall'ospedale. Accoglieva anche la domanda proposta dagli altri attori, liquidando il danno senza alcuna detrazione, condannando l'assicuratore dell'ospedale a tenere indenne quest'ultimo “di tutto quanto fosse tenuto a pagare” in loro favore. La sentenza era impugnata in via principale dall'assicuratore dell'ospedale, e in via incidentale da quest'ultimo, ritenendo che la stessa presentasse diversi vizi, tra cui – per quanto qui rileva – una sovrastima del danno “sia per non avere il Tribunale tenuto conto delle ridotte aspettative di vita del minore; sia per avere risarcito due volte i medesimi pregiudizi non patrimoniali, chiamati con nomi diversi”. La Corte d'appello rigettava il gravame sia principale sia incidentale, ritenendo in particolare che il danno alla salute del minore fosse stato correttamente liquidato dal giudice di prime cure, mediante adeguato incremento del valore standard del risarcimento “per tenere conto della totale soppressione di ogni aspetto della vita del minore”. Secondo la Corte territoriale, nella liquidazione del danno alla salute, il Tribunale aveva altrettanto correttamente “tenuto conto della speranza di vita di una persona sana, dal momento che la ridotta speranza di vita del minore era essa stessa una conseguenza del fatto illecito”. La sentenza d'appello era impugnata per cassazione in via principale dall'assicuratore dell'ospedale e in via incidentale adesiva da quest'ultimo, il quale contrastava con controricorso l'impugnazione principale, nella parte volta a rimettere in discussione il capo di sentenza riguardante il rapporto assicurativo. Il minore e i suoi parenti resistevano con separati controricorsi sia al ricorso principale sia a quello incidentale. Col sesto motivo la ricorrente principale lamentava, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione da parte della Corte d'appello di cinque diverse norme del codice civile(artt. 1223, 1225, 1226, 2056 e 2059 c.c.), poiché, nella liquidazione del danno non patrimoniale subito dal minore, “avrebbe tenuto conto della speranza di vita di una persona sana, e non invece della ridotta speranza di vita che il danneggiato aveva concretamente, in conseguenza del trauma cerebrale patito al momento della nascita”.
Più in dettaglio, a fondamento della censura la ricorrente deduceva che:
Era quindi sollevata la seguente questione di diritto: “se, nella liquidazione del danno biologico permanente, si debba commisurare il risarcimento, sempre e comunque, alla durata media della vita in astratto, desunta dalle statistiche mortuarie; oppure si debba avere riguardo alla speranza di vita in concreto della vittima, quand'anche ridotta rispetto alla media proprio in conseguenza del fatto illecito”. La Corte di cassazione ha dichiarato il motivo in esame inammissibile per insufficiente esposizione della sua decisività. Rileva il Supremo Collegio che sulla questione posta dalla ricorrente “parrebbe esistere un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte” (v. supra). Secondo un primo orientamento (sentenza n. 5881/2000 cit.), “il giudice nella liquidazione del danno deve tenere conto di tutte le circostanze concrete, e quindi anche della ridotta speranza di vita”: e, inoltre, “la ridotta speranza di vita non obbliga affatto il giudice a liquidare il danno tenendo conto della speranza di vita concreta, e non della media nazionale, perché non vi è implicazione logica tra i due concetti. La ridotta speranza di vita, infatti, sottrae esperienze e vantaggi alla vittima, e le preclude - in teoria - la possibilità di beneficiare di futuri progressi del campo medico e scientifico. Ed anche questi sono pregiudizi che vanno "messi in conto" nella liquidazione del danno”. Per un successivo orientamento (sentenza n. 16525/2003 cit.), “nella liquidazione del danno biologico permanente, occorre tenere conto del tempo durante il quale il danneggiato dovrà presumibilmente convivere con la sua menomazione. Pertanto, quando sia certo che la vittima ha una ridotta speranza di vita, ‘il giudice di merito deve liquidare il danno biologico non con riferimento alla speranza di vita media nazionale, ma alla prognosi di durata della vita dello specifico soggetto danneggiato'”); in ogni caso, “della ridotta speranza di vita il giudice può tenere conto ai fini della c.d. ‘personalizzazione' del risarcimento del danno biologico permanente”. Invero – osserva la sentenza in commento – i due orientamenti sopra riassunti “ammettono che il provocare lesioni personali così gravi da ridurre la speranza di vita della vittima costituisca un danno risarcibile”. Con questa differenza: “mentre il primo orientamento ritiene che questo danno debba essere risarcito liquidando in base ai criteri tabellari standard l'invalidità permanente, il secondo orientamento ritiene che questo danno debba essere risarcito liquidando il danno biologico in base alla speranza di vita concreta e non a quella ‘normale'; ma aggiungendo al risultato un quid pluris per tenere conto del pregiudizio ‘da anticipanda morte'”.
Dopo aver ricostruito i precedenti indirizzi della giurisprudenza di legittimità, per la pronuncia in esame “deve concludersi che tra essi non vi sia contrasto se non apparente; che ciascuno di essi, alla luce degli sviluppi della giurisprudenza successiva, contenga un frammento di verità; e che pertanto essi vanno armonizzati nei termini che seguono. […] Il danno alla salute, secondo la giurisprudenza di questa Corte, può consistere: -) nella temporanea compromissione dell'integrità psicofisica; -) nella permanente compromissione dell'integrità psicofisica; -) nell'aumentato rischio di contrarre malattie in futuro; -) nell'aumentato rischio di morte ante tempus”.
Viene sottolineato che per la medicina legale “tra i ‘postumi permanenti' causati da una lesione della salute rientra anche il maggior rischio di una ingravescenza futura”, come accade, a titolo esemplificativo, per le gravi fratture, che espongono la vittima al rischio di fenomeni artrosici precoci, oppure per le infezioni da HCV o HIV, cui è correlato il maggior rischio, rispettivamente, di cirrosi epatica o di polmoniti e tubercolosi, al termine della fase di latenza clinica. “Si tratta del c.d. rischio latente, già noto in tema di patologie rilevanti sul piano previdenziale (Sez. L, Sentenza n. 2260 del 02/04/1986, Rv. 445407-01 ” – precisa la Suprema Corte – il quale “consiste nella possibilità, oggettiva e non ipotetica, che l'infermità residuata all'infortunio possa improvvisamente degenerare in un futuro tanto prossimo quanto remoto, e differisce dal mero peggioramento dipendente dalla naturale evoluzione dell'infermità”.
Mentre il peggioramento rappresenta la naturale evoluzione fisiologica dei postumi permanenti, il rischio latente è invece la possibilità che essi “provochino a loro volta un nuovo e diverso danno, che può consistere tanto in una ulteriore invalidità, quanto nella morte”.
Muovendo da queste premesse, osserva la Cassazione che “il patire postumi che, per quanto stabilizzati, espongano per la loro gravità la vittima ad un maggior rischio di ingravescenza o morte ante tempus costituisce per la vittima una lesione della salute (così, ampiamente, Sez. 3, Sentenza n. 29492 del 14/11/2019, Rv. 655798 - 01)” (nella fattispecie, la Suprema Corte aveva confermato la decisione di merito che aveva escluso il risarcimento, in aggiunta al danno biologico precedentemente accertato e liquidato, del pregiudizio derivante dalla progressiva evoluzione peggiorativa delle condizioni di salute e, poi, dal decesso di un soggetto affetto da virus HCV contratto a seguito di emotrasfusione, trattandosi della concretizzazione di un prevedibile rischio di aggravamento della patologia epatica originaria, In Giustizia Civile Massimario 2019).
E allora, questa è la conclusione che deve trarsi da quanto precede: “Se il rischio di contrarre malattie in futuro o di morire ante tempus, a causa dell'avverarsi del rischio latente, costituisce un danno alla salute, di esso si deve tenere conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, secondo le indicazioni della medicina legale”. Ulteriore corollario: “Se dunque il grado di invalidità permanente suggerito dal medico-legale, e condiviso dal Giudice, venga determinato tenendo conto del suddetto rischio, insito nei postumi a causa della loro natura o gravità, la liquidazione del danno biologico dovrà avvenire tenendo conto della (minore) speranza di vita in concreto, e non di quella media”. Altrimenti, si finirebbe col liquidare due volte il medesimo danno: in un primo momento “attraverso l'incremento del grado di percentuale di invalidità permanente”, e successivamente“tenendo conto della speranza di vita media, invece che della speranza di vita concreta”.
Nel caso in cui, invece, “il rischio latente non sia stato tenuto in conto del grado percentuale di invalidità permanente: vuoi perché non contemplato dal bareme utilizzato nel caso concreto; vuoi per maltalento del medico-legale”, il giudice del merito dovrà tener conto del pregiudizio in esame, “maggiorando la liquidazione in via equitativa: e nell'ambito di questa liquidazione equitativa non gli sarà certo vietato scegliere il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima: e dunque in base alla vita media nazionale, invece che alla speranza di vita del caso concreto”. Ciò sarà possibile, ad esempio, nei casi più gravi, ove è massimo il divario tra la vita attesa secondo le statistiche mortuarie, e la concreta speranza di vita residua. “Quel che unicamente rileva, ai fini della legittimità della decisione” – mette in risalto la sentenza – “è che il giudice di merito dia conto dei criteri seguiti tanto nel determinare il grado di invalidità permanente, quanto nel monetizzarlo in via equitativa”. L'inammissibilità del sesto motivo di ricorso per difetto di specificità deriva dal fatto che esso non chiarisce un elemento essenziale per valutare se la liquidazione del danno da parte del giudice di merito sia stata corretta o meno, ovvero “se i consulenti tecnici, nel determinare il grado di invalidità permanente nella misura del 91%, abbiano o non abbiano incluso in tale percentuale anche il rischio di anticipata morte”. In conclusione
Il danno biologico da invalidità permanente, risarcibile a favore del soggetto che ha subito una lesione all'integrità psico-fisica, va inteso come danno conseguenza rispetto al danno evento della lesione (la Cassazione ha a più riprese affermato che è danno biologico risarcibile la “perdita per il danneggiato di utilità dell'esistenza determinata dalla lesione del bene della salute”, così Cass. civ., sez. III, 12 marzo 2008, n. 6631 ; Cass. civ., sez. III, 10 agosto 2004, n. 15408; Cass. civ., sez. III, 25 agosto 1997, n. 7975) Esso costituisce un danno non patrimoniale risarcibile a norma dell'art. 2059 c.c. ed è liquidabile esclusivamente mediante il ricorso a criteri equitativi a norma del combinato disposto degli artt. 1226 e 2056 c.c.
Per quanto riguarda i parametri utilizzabili per il risarcimento di questo pregiudizio, nel procedere alla liquidazione equitativa del danno biologico con ricorso ai criteri standardizzati e predefiniti delle tabelle, è richiesta al giudice una congrua motivazione in ordine all'adeguamento del valore medio del punto tabellare alla peculiarità del caso concreto (Cass. n. 16525/2003 cit.). E così, se la prognosi di speranza di vita per il danneggiato sia accertata sulla base di conoscenze medico-scientifiche, i.e. tramite consulenza tecnica d'ufficio che determini il grado di invalidità tenendo in conto il cd. “rischio latente” (vale a dire, la possibilità che i postumi permanenti, per la loro gravità, provochino un nuovo e diverso pregiudizio consistente in un'ulteriore invalidità o nella morte “ante tempus”), il giudice dovrà liquidare il danno biologico non con riferimento alla durata media della vita, ma alla concreta minore speranza di vita del danneggiato; in caso contrario, tenuto conto di tale rischio, dovrà procedere a un'adeguata e prudente maggiorazione della liquidazione in via equitativa, “anche scegliendo il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima e, dunque, in base alla durata media nazionale della vita, anziché alla speranza di vita del caso concreto” (Cass. n. 26118/2021 cit., in Giustizia Civile Massimario 2021). Il presente Focus costituisce un primo contributo con cui si è inteso offrire non solo una panoramica dei principi fondamentali enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno non patrimoniale in caso di ridotta aspettativa di vita conseguente alla lesione subita dalla vittima, ma anche uno stimolo al dibattito su questo tema oltre ai “confini” delle sentenze sopra richiamate, così da far emergere le questioni e le criticità, giuridiche e medico-legali, connesse alla valutazione, quantificazione e liquidazione di tale pregiudizio. L'auspicio è, dunque, quello di aprire un proficuo confronto tra giuristi e medici legali che vorranno intervenire per esprimere il loro parere sui principi da ultimo affermati dalla sentenza n. 26118/2021 della Corte di cassazione. Il tema, di indubbia delicatezza, pone inoltre l'interrogativo sull'opportunità per il giudice di liquidare in tali casi il danno sotto forma di rendita vitalizia, dunque facendo ricorso alla previsione dell'art. 2057 c.c., ovvero se tale strumento rappresenti una risposta adeguata ed equa che l'ordinamento offre per un miglior risarcimento del danno, destinato a protrarsi in futuro per un tempo inferiore rispetto alla durata media della vita. Va sin d'ora ricordata la posizione critica di coloro che ritengono che, attraverso la liquidazione di una rendita vitalizia, il danneggiante finirebbe con l'avvantaggiarsi delle conseguenze del proprio illecito, proprio alla luce della minore aspettativa di vita della vittima. Lo spazio, insomma, che si apre per un dibattito è molto ampio. Riferimenti
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