Risarcimento del danno, onere di allegazione e mutamento della domanda

18 Febbraio 2022

Il Focus tratta il tema della possibilità di modificazione della domanda e delle eccezioni nei giudizi aventi ad oggetto il risarcimento dei danni aquiliani.
Premessa

Ricevo dal direttore della Rivista, ed accetto volentieri, l'invito ad esprimere un'opinione su un tema la cui importanza è stata sempre inversamente proporzionale ai contributi scientifici ad esso dedicati: il tema della possibilità di modificazione della domanda e delle eccezioni nei giudizi aventi ad oggetto il risarcimento dei danni aquiliani.

Questo problema coinvolge due aspetti.

Il primo aspetto è stabilire quale sia il contenuto minimo essenziale ed indefettibile dell'atto introduttivo del giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno extracontrattuale.

Esiste infatti una regola di proporzionalità diretta tra il rigore con cui si valuta la completezza della citazione, e quello con cui si ammettono le modificazioni della domanda. Quanto meno si pretende analiticità dall'attore, tanto più gli si consentirà di «aggiustare il tiro» in corso di causa. Così, ad esempio, se si ammettesse che l'attore, una volta descritto il fatto illecito, possa assolvere l'onere di allegazione limitandosi a chiedere il risarcimento di «tutti i danni subiti e subendi» (con buona pace, oltre che del diritto, anche della grammatica), si dovrà per conseguenza necessariamente consentirgli di precisare in corso di causa quali siano stati questi «danni subiti e subendi».

Il secondo e centrale aspetto del problema è stabilire quali siano i limiti delle modifiche della domanda ammissibili. Questo problema, nella nostra materia, si scinde in due ulteriori questioni: a) se e come sia possibile modificare od innovare i fatti costitutivi della colpa; b) se e come sia possibile modificare od innovare i fatti costitutivi del danno.

Nei paragrafi che seguono esaminerò queste due questioni nell'ordine in cui le ho appena enunciate.

Il contenuto minimo dell'atto introduttivo

L'atto introduttivo di un giudizio di danno [non distinguerò, nelle pagine che seguono, tra citazione, ricorso ex art. 702-bis c.p.c. e ricorso ex art. 414 c.p.c. Il ricorso ex art. 702-bis c.p.c., infatti, quanto alla allegazione dei fatti è soggetto alla medesima disciplina dell'atto di citazione (art. 702-bis, primo comma 1, c.p.c.); quanto al ricorso introduttivo dei giudizi soggetti al rito del lavoro i requisiti previsti dai nn. 3 e 4 dell'art. 414 c.p.c. sono sostanzialmente coincidenti con quelli previsti dai nn. 3 e 4 dell'art. 163, terzo comma, c.p.c. Nel testo che segue, pertanto, ogni eventuale riferimento all'atto di citazione deve intendersi valido anche per il ricorso] deve contenere, come qualsiasi altro, «la determinazione dell'oggetto della domanda» e «l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda».

La prima delle suddette previsioni esige che si dica chiaramente cosa si chiede; la seconda che si spieghi perché lo si chiede.

Esaminiamo dunque più analiticamente queste due previsioni.


(A) L'oggetto della domanda

Nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno ovviamente la richiesta attorea è la condanna del convenuto al pagamento d'una somma di denaro. Ma l'attore avrà anche l'onere di quantificare la propria pretesa? Dipende.

È pacifico che l'attore non ha l'onere di indicare al centesimo la somma che pretende a titolo di risarcimento. Nemmeno, però, può limitarsi ad invocare la «somma che sarà ritenuta di giustizia».

Anche quando manchino parametri obiettivi per l'aestimatio del danno, l'attore avrà comunque l'onere di indicare gli elementi costitutivi che intende porre a base del calcolo, oppure i criteri di quest'ultimo: così ad esempio, in tema di danno alla salute, avrà pur sempre l'onere di indicare il grado di invalidità permanente, la durata ed il grado della invalidità temporanea, il criterio di calcolo del quale invoca l'adozione (tabellare, a punto, equitativo puro).

Dunque, non necessario che l'attore provveda già nella citazione a determinare il quantum richiesto, né a fortiori che esponga i conteggi in base ai quali è pervenuto a quella quantificazione. Se lo fa, tanto meglio; ma se ritenesse di non farlo, l'atto di citazione sarà valido ed efficace se l'attore abbia comunque esposto gli elementi costitutivi del calcolo, e segnatamente tutti quegli elementi in ordine ai quali il convenuto ha necessità di difendersi.

(B) L'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto

L'art. 163, comma 3, c.p.c. prescrive, al n. 4, che la citazione contenga «l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni».

Nei giudizi di risarcimento del danno «i fatti costituenti le ragioni della domanda» sono di due tipi: i fatti costitutivi della colpa del convenuto, ed i fatti produttivi del danno.

Vediamo dunque separatamente come deve essere assolto l'onere di allegazione dei primi e dei secondi.

(C) i fatti costitutivi della colpa

Il giudizio di risarcimento del danno da fatto illecito presuppone ovviamente l'avverarsi di quest'ultimo, e la responsabilità - accertata o presunta - del convenuto.

Dunque, il primo ed indefettibile «fatto» da allegare nel ricorso è costituito dalla condotta colposa ascritta al convenuto.

Questa non potrà limitarsi a una generica descrizione (del tipo «il veicolo X urtava violentemente il veicolo Y»; oppure «il dott. Tizio eseguì in modo imperito l'intervento chirurgico»); anche se non v'è bisogno di una minuziosa ricostruzione di tutte le fasi dell'accaduto, è comunque necessario che siano descritti in modo chiaro ed inequivoco; a) la condotta ascritta al convenuto; b) la regola di diligenza (che può essere tanto una regola giuridica, quanto una regola di comune prudenza) che si assume violata dal responsabile.

(D) I fatti costitutivi del danno

In passato la giurisprudenza fu molto benevola nello stabilire come andasse assolto, da parte dell'attore nei giudizi di danno, l'onere di allegare quest'ultimo.

Era opinione diffusa che nei giudizi di risarcimento del danno da fatto illecito l'attore non avesse alcun onere di indicare analiticamente i pregiudizi dei quali domandava il ristoro. Si riteneva che la domanda di risarcimento di «tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali», per la sua onnicomprensività, esprimesse la volontà dell'attore di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, e dunque essa fosse sufficiente affinché il giudice potesse liquidare qualsiasi tipo di pregiudizio: patrimoniale, biologico o morale.

Si concluse perciò che:

(a) se l'attore domanda il risarcimento di «tutti i danni», senza alcun'altra precisazione, potrà anche soltanto in comparsa conclusionale precisare tutte le voci di cui chiede il ristoro, senza alcuna preclusione, e con obbligo del giudice di accertare ex officio quali siano i danni effettivamente dimostrati;

(b) se invece l'attore nella citazione elenca analiticamente le voci di danno delle quali chiede il risarcimento, quelle non formulate, ovvero riproposte nel precisare le conclusioni debbono intendersi abbandonate (ex multis, Cass. civ., 12 luglio 2006, n. 13546; in precedenza, nello stesso senso, Cass. civ., sez. III, 26 febbraio 2003, n. 2869, Cass. civ., sez. III, 25 agosto 1997, n. 7975, Cass. civ, sez. III, 28 maggio 1996, n. 4909, Cass. civ., sez. lav., 27 luglio 1995, n. 8216).

Un orientamento, quello appena ricordato, che presentava due grossi inconvenienti: da un lato premiava l'attore meno meticoloso e puniva quello più attento; dall'altro costringeva il convenuto a difendersi «alla cieca», senza sapere quali pregiudizi mai avesse in animo l'attore di provare in corso di causa.

Questo orientamento è ormai superato, ed era comunque profondamente erroneo.

È superato perché la Corte di cassazione, da molti anni, ha stabilito che l'onere di allegazione nei giudizi di risarcimento del danno va assolto in modo puntuale e preciso: sia per mettere il convenuto in condizione di difendersi, sia per mettere il giudice in condizione di stabilire esattamente quale sia il thema decidendum, e quindi le prove ad esso pertinenti.

Ha stabilito, in particolare, Cass. civ., 13 maggio 2011, n. 10527, che ha affermato che «l'onere di allegazione (...) va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche»; ed ha ribadito Cass. civ., sez. III, 18 gennaio 2012 n. 691 che «le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta in tesi colpevole della controparte (...), ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l'attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, e ciò a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo» (il principio negli ultimi dieci anni è stato ribadito da oltre trenta decisioni. Tra le più recenti, in tal senso, Cass. civ., sez. lav., 18 maggio 2021 n. 13536; Cass. civ., sez. lav., 23 aprile 2021, n. 10868; Cass. civ., sez. III, 15 aprile 2019, n. 10450; Cass. civ., sez. I, 24 settembre 2018, n. 22460; Cass. civ., sez. III, 15 giugno 2018, n. 15769).

Il vecchio orientamento comunque, oltre che superato, come accennato era manifestamente erroneo nei presupposti ed iniquo negli effetti.

Qualche esempio varrà a chiarire questo concetto.

Se l'attore domanda il risarcimento del «danno al veicolo», senza null'altro aggiungere, per il convenuto non è indifferente sapere se la controparte chiede unicamente la rifusione del costo necessario per la riparazione, ovvero anche il ristoro del pregiudizio patito in conseguenza della mancata disponibilità del mezzo (c.d. danno da fermo tecnico). Nel primo caso il convenuto avrà bisogno di certo mezzi di prova per contrastare la domanda, nel secondo di mezzi di prova tutt'affatto diversi.

Se l'attore, che ha subito lesioni personali, domanda il risarcimento di «tutti i danni» patiti in conseguenza di esse, per il convenuto è essenziale sapere se la controparte intenda invocare o meno anche il ristoro del danno da perdita del guadagno o della capacità di produrlo: in caso affermativo, infatti, le eccezioni astrattamente opponibili all'attore (la compensatio lucri cum damno per essere stato tenuto indenne dall'assicuratore sociale; l'aliunde perceptum per avere svolto altro e diverso lavoro; il difetto di nesso causale, perché le lesioni non hanno inciso sulla capacità di guadagno) sono totalmente diverse da quelle che il convenuto dovrebbe sollevare per contrastare soltanto una domanda di ristoro del danno biologico.

Se i congiunti di persona deceduta in conseguenza dell'altrui fatto illecito domandano il ristoro del «danno patrimoniale», senza alcun'altra specificazione, il convenuto si trova nell'impossibilità di sapere se gli attori abbiano inteso domandare il danno patito dalla vittima primaria e ad esse trasmesso iure haereditario, ovvero il pregiudizio patito direttamente dagli attori, in conseguenza della perdita delle utilità ad essi erogate dal defunto, od ancora il danno emergente rappresentato dalla spese funerarie, od infine il danno patito in proprio, e derivato dalla perduta capacità di guadagno, a sua volta conseguenza della malattia psichica insorta in conseguenza dell'evento luttuoso.

Ma dove l'orientamento che ammetteva la formula dei «danni patiti e patiendi» mostrava al tutto la sua inaccettabilità, era con riferimento al danno non patrimoniale. Questo danno si può manifestare in mille modi, e in mille modi è stato definito dagli interpreti. Si sono talora usati nomi diversi per definire pregiudizi simili, e nomi identici per designare pregiudizi diversi. In questo quadro di incertezza lessicale, mai del tutto sopita, l'etichetta appiccicata dall'attore alla propria domanda «voglio il risarcimento del danno morale» non è che un flatum vocis. Non è col nome del danno che si assolve l'onere di allegazione, ma con la sua descrizione. Sarebbe un atto di citazione nullo, quello in cui si dicesse: «ho patito una frattura del radio, chiedo la condanna del convenuto al risarcimento del danno biologico». Sarà invece un atto rispettoso della legge quello in cui si dicesse: «ho patito una frattura del radio; è guarita con postumi permanenti che mi impediscono l'articolarità del polso, chiedo la condanna del convenuto al risarcimento del danno biologico».

A quanto esposto deve aggiungersi che l'art. 111 Cost., il quale stabilisce come noto che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale» riverbera i propri effetti su tutte le norme del codice di rito, che debbono essere lette ed interpretate alla luce di esso.

E la parità delle parti non potrebbe mai dirsi garantita, se si consentisse all'attore di formulare la domanda in termini estremamente generici, ed al convenuto si imponesse per contro di sollevare tutte le eccezioni non rilevabili d'ufficio nella comparsa di costituzione e risposta, a pena di decadenza. Diritto di difesa del convenuto ed onere attoreo di indicare analiticamente il petitum sono il recto ed il verso della stessa medaglia. Quel diritto non potrà essere validamente esercitato se prima non sarà adempiuto quell'onere, e l'adempimento di quest'ultimo è funzionale all'esercizio di quello. Dunque, l'attore nel ricorso introduttivo del giudizio risarcitorio avrà l'onere di indicare analiticamente le voci di danno delle quali chiede il ristoro. Pur senza ricorrere a formule sacramentali, beninteso, ma a condizione che il convenuto sia posto in grado di sapere quali e di che natura siano i pregiudizi dei quali l'attore chiede il risarcimento (così anche le Sezioni Unite: “l'onere di allegazione precede l'onere di contestazione” nella decisione del 17 giugno 2004 n. 11353).

(E) L'allegazione dei fatti costitutivi del danno biologico

L'accertamento del danno alla salute o danno biologico esige la verifica della sussistenza di tre condizioni: (a) una lesione dell'integrità psicofisica; (b) una disfunzione da quella derivata; (c) un peggioramento delle funzioni vitali dell'individuo leso.

Ne discende, sul piano processuale, che se l'attore domanda il risarcimento del danno alla salute, per assolvere l'onere di allegare il «fatto costitutivo della pretesa» dovrà indicare nell'atto di citazione non soltanto l'esistenza delle lesioni, ma anche l'esistenza della disfunzione da esse derivata, ed infine dell'handicap che tale disfunzione ha comportato per la vita della vittima.

Pertanto, l'onere di allegazione non può ritenersi adempiuto per il solo fatto che la vittima abbia esposto nel ricorso il tipo di lesioni sofferte (ad esempio, «distrazione del rachide cervicale»). Lesioni personali possono guarire con o senza postumi, e questi ultimi possono variare da caso a caso: dunque l'attore dovrà indicare, oltre le lesioni patite in conseguenza del sinistro, anche il tipo di postumi da esse derivate.

Chiediamoci ora: l'indicazione del tipo di postumi residuati al sinistro può consistere nella mera indicazione di un numero percentuale (ad es., «una invalidità del 9%, del 12%», ecc.)?

Senz'altro no: il grado di invalidità permanente, quando non esista una tabella di legge per la sua individuazione, può essere determinato in base a barémes medico legali piuttosto diversi e non sempre coincidenti. Pertanto, non ha alcun senso, dal punto di vista medico legale, allegare l'esistenza di «postumi permanenti nella misura del 10%», se non si indica il barémes in base al quale tale valutazione è stata compiuta, e soprattutto la disfunzione effettiva residuata al sinistro. Non è detto, infatti, che il giudice adotti, quale parametro di valutazione, lo stesso baréme utilizzato dal ricorrente, ed in questo caso se manca la descrizione dei postumi, il convenuto non può contestare la corrispondenza tra essi e la misura percentuale dell'invalidità.

Deve dunque concludersi che, nel caso di domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno da lesioni, l'attore non può limitarsi ad indicare nel ricorso il grado di invalidità permanente che allega essere residuato al sinistro, ma deve procedere alla descrizione della disfunzione e dell'handicap conseguiti al sinistro (ad es., «l'attore ha perso l'articolazione completa scapolo-omerale; ha patito un abbassamento dell'udito; è affetto da frequenti mal di testa», ecc.). Adempiuto tale onere, potrà anche trascurare di indicare il grado di invalidità permanente; ma ove lo indichi, dovrà conseguentemente precisare in base a quale baréme sia stato determinato.

(F) L'allegazione dei fatti costitutivi del danno da morte

Considerazioni analoghe a quelle appena svolte con riferimento ai danni da lesione della salute, valgono anche nell'ipotesi di danno da morte.

Anche in tal caso il ricorrente avrà l'onere, se non di indicare nominativamente e qualificare giuridicamente i danni di cui chiede il ristoro, quanto meno di descriverli: e così precisare innanzitutto se domanda il ristoro dai danni patiti iure proprio o iure haereditario, e in secondo luogo in cosa siano consistiti i pregiudizi lamentati (ad es., prostrazione morale, stress, malattia psichica, e via dicendo).

Anche nel caso in cui si invochi un danno patrimoniale da morte del congiunto, consistito nella perdita delle utilità che questi erogava alla famiglia, non sarà necessario esporre analitici conteggi dai quali desumere l'entità della perdita, ma sarà comunque doveroso indicare quale fosse il reddito della vittima, se gli altri membri della famiglia godessero di propri redditi, quanta parte del proprio reddito la vittima destinava alla famiglia.

(G) L'allegazione dei fatti costitutivi del danno da mora

Il ritardato adempimento di una obbligazione risarcitoria, come noto, causa al creditore un danno ulteriore e distinto rispetto a quello derivato dal fatto illecito primario, danno consistente nella perduta possibilità di disporre della somma dovuta a titolo di risarcimento, di investirla e di ricavarne così un lucro finanziario.

Questo danno ha natura di lucro cessante, può essere liquidato ex art. 1226 c.c. applicando un saggio di interesse, scelto equitativamente dal giudice, sull'importo originario del credito rivalutato anno per anno (la sentenza capostipite, in tal senso, è la fondamentale decisione resa da Cass. civ., 17 febbraio 1995 n. 1712). In questo caso il riconoscimento di interessi costituisce «una mera modalità liquidatoria», e non applicazione degli artt. 1282 o 1224 c.c.: questi «interessi», detto altrimenti, non sono frutti civili, ma una componente dell'unico diritto al risarcimento. Il risarcimento del danno in esame non è inoltre in re ipsa: esso, pertanto, può anche essere negato dal giudice, in considerazione delle peculiarità del caso concreto (per un obiter in tal senso, Cass. civ., 26 ottobre 2004, n. 20742).

Rispetto a tali consolidati princìpi, deve riconoscersi che spesso la domanda di ristoro del danno in esame ha rappresentato l'aspetto più trascurato dell'atto di citazione. Non è raro che l'attore si limiti a domandare «interessi e rivalutazione» sulle somme dovute a titolo di risarcimento, senza precisare che tipo di interessi domandi, che misura di rivalutazione invochi, e di quale criterio di calcolo chieda l'applicazione.

Una domanda così concepita è formulata in modo erroneo: sia perché in tema di risarcimento del danno aquiliano le somme dovute a titolo di risarcimento vengono normalmente liquidate in moneta attuale, sicché non è luogo a rivalutare alcunché; sia perché le obbligazioni di valore, qual è quella di risarcimento del danno, sono sottratte al principio nominalistico, e ad esse sono inapplicabili sia l'art. 1277 c.c., sia l'art. 1224 c.c., ai fini del computo del danno da ritardato adempimento sotto forma di interessi (sia consentito, sul punto, il rinvio a Rossetti, I danni nelle obbligazioni pecuniarie, Milano 2021, 349 e ss.).

Vero è che la giurisprudenza è stata sinora piuttosto indulgente nei confronti di domande così concepite: forse nell'inconsapevole istinto di non fare ricadere sui clienti il maltalento o la insipienza dei procuratori.

Ma è altresì vero che in alcune occasioni si è affermato che l'attribuzione degli interessi compensativi (rectius, del lucro cessante da ritardato adempimento delle obbligazioni di valore, liquidato sotto forma di interessi), al contrario della rivalutazione, non può avvenire d'ufficio, ma esige una domanda espressa di risarcimento del danno da lucro cessante, patito dal danneggiato in conseguenza del ritardato pagamento della somma a lui dovuta e, conseguentemente, la prova di tale danno (ex aliis, Cass. civ., sez. III, 21 maggio 2004, n. 9711).

Pertanto, cautela e rigore d'interprete imporrebbero che l'attore, se intende domandare il lucro cessante da ritardato adempimento, avrà l'onere di formulare una domanda espressa in tal senso, ed allegare quale lucro avrebbe realizzato dall'investimento del risarcimento dovutogli, ser gli fosse stato tempestivamente pagato.

(H) Il livello di analiticità dell'allegazione. Fatti primari e fatti secondari

Si è detto che l'attore, per assolvere l'onere di cui all'art. 163, comma 3, n. 4, c.p.c., non deve «etichettare», ma deve descrivere i pregiudizi conseguiti al fatto illecito e dei quali chiede il risarcimento.

Ma quale dovrà essere il grado di analiticità di questa distinzione? Così, ad esempio, nel caso di danno alla salute, sarà sufficiente per l'attore limitarsi ad allegare di avere dovuto rinunciare ad «attività realizzatrici» genericamente indicate, oppure dovrà espressamente descrivere le rinunce conseguite all'invalidità? Od ancora, nel caso di danno da morte, sarà sufficiente per l'attore limitarsi ad allegare di avere sofferto uno «sconvolgimento della propria esistenza», oppure dovrà espressamente descrivere in cosa sia consistito quello «sconvolgimento»?

Non negherò che nella pratica questa valutazione possa presentarsi complessa, ma a livello teorico il criterio di giudizio è molto semplice, e riposa sulla distinzione tra fatti primari e fatti secondari.

Il «fatto primario» è quello che, se provato, comporta di per sé l'accoglimento della domanda (o dell'eccezione).

Il «fatto secondario» è quello che, anche se provato, non basta di per sé a determinare l'accoglimento della domanda (o dal capo di domanda: la colpa, il danno, ecc.). Il fatto secondario, per la Corte di cassazione, è solo quello che viene dedotto in giudizio al fine di desumere da esso la prova dell'esistenza di uno degli elementi costitutivi della pretesa, ovvero un fatto primario (Cass. civ., sez. III, 6 maggio 2020, n. 8525).

Così, ad esempio: in un giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno da sinistro stradale, la circostanza che il convenuto abbia impegnato l'area del crocevia con il segnale semaforico di «rosso» è fatto primario, perché dimostrata quella circostanza, resta dimostrata la colpa del convenuto.

Per contro, la circostanza che in quel crocevia nei giorni precedenti si fossero verificati numerosi sinistri stradali è fatto secondario, giacché la dimostrazione di esso, da sola, non basta a dimostrare la colpa del convenuto, ma potrebbe al più costituire un mero indizio.

Analogamente: in un giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno biologico, la circostanza che la vittima prima dell'infortunio praticasse a livello amatoriale lo sport del ciclismo, abbandonato a causa dei postumi, è fatto primario, perché la dimostrazione di esso, da sola, basta a dimostrare la necessità di procedere ad una c.d. «personalizzazione» del risarcimento.

Per contro, la circostanza che la vittima possedesse una tessera della federazione ciclistica italiana o fosse iscritta ad una associazione sportiva dilettantistica sono fatti secondari: infatti la dimostrazione di essi non basterebbe all'accoglimento della domanda, ove manchi la prova che la vittima dedicava all'attività sportiva tempo ed impegno.

Così definiti i fatti secondari, resta da aggiungere che secondo la Suprema Corte essi possono essere introdotti nel giudizio al più tardi con la seconda memoria istruttoria (art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c.), e ciò sinanche nel caso in cui tale termine sia stato richiesto al solo fine della indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali: “basti pensare - ha osservato la S.C. - ai capitoli di prova testimoniale, molto spesso riferiti a circostanze non specificamente narrate nell'atto introduttivo, ma tuttavia indicate al fine di dimostrare, in virtù di ragionamento inferenziale, il fatto costitutivo in esso dedotto; non si è mai dubitato, né può dubitarsi che essi possano essere indicati per la prima volta anche nel termine di cui all'art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c.” (Cass. civ., sez. III, 6 maggio 2020, n. 8525).

Se dunque l'attore allega nella citazione di avere speso del denaro per curarsi dopo un infortunio, e nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c., depositi documenti che attestino tre ricoveri in tre diverse cliniche, la produzione sarà ammissibile, e il fatto «tre ricoveri» non potrà ritenersi nuovo e tardivamente dedotto.

Non così, però, se l'attore nella citazione si sia limitato a dedurre di avere subito «un danno patrimoniale», senza ulteriori precisazioni (e sempre che il giudice istruttore, rilevata la nullità, non gli abbia fissato un termine per chiarire quali sarebbero i danni patrimoniali di cui chiede il risarcimento), e poi solo con la seconda memoria istruttoria alleghi di avere speso del denaro per curare i postumi dell'infortunio. In tal caso la deduzione sarà inammissibile perché nuova.

Conclusivamente sul tema dell'onere di allegazione, è possibile affermare che nei giudizi di danno l'onere di allegazione va adempiuto in modo rigoroso, in quanto - al contrario di quanto accade nelle controversie contrattuali - di norma i fatti costitutivi della pretesa rientra nel patrimonio di conoscenze esclusivo dell'attore, e non sono comuni al convenuto.

L'onere di allegazione è presupposto indefettibile per il compiuto e corretto esercizio del diritto di difesa da parte del convenuto; l'assolvimento di tale onere richiede dall'attore non già il ricorso a mere etichette («chiedo il ristoro del danno biologico», «chiedo il ristoro del danno morale», e via dicendo), ma la descrizione in concreto dei pregiudizi di qualunque tipo conseguiti al fatto illecito.

L'onere di allegazione è assolto quando siano descritti esaustivamente i fatti primari; quelli secondari potranno essere dedotti anche soltanto con la seconda memoria istruttoria, se posti ad oggetto della prova testimoniale.

Un banale escamotage (beninteso, senza pretesa di scientificità, e comunque da utilizzare cum grano salis e da valutare caso per caso) per stabilire se l'attore abbia assolto correttamente l'onere di allegazione è il c.d. «metodo del ‘si vera sunt exposita'».

Il metodo consiste in ciò: si immagina che siano veri tutti i fatti descritti dall'attore nell'atto di citazione; se quei fatti, così come descritti, consentono di comprendere quali pregiudizi l'attore abbia patito, e liquidare il danno «sulla carta», l'onere di allegazione deve ritenersi validamente assolto.

Diritto scritto e prassi degli interpreti

In un processo «teorico», l'imperfetto adempimento dell'onere di allegazione da parte dell'attore non può che comportare una conseguenza: il giudice rileva la nullità ex art. 164 c.p.c. e fissa all'attore un termine per sanarla.

Dopo di che delle due l'una: o l'attore provvede alla sanatoria, e il processo seguirà suo corso naturale; oppure l'attore non vi provvede, la domanda sarà dichiarata inammissibile. Nell'uno, come nell'altro caso, nessun problema di modifica della domanda potrebbe mai porsi: non nella prima ipotesi, perché il thema decidendum sarà stato espressamente delimitato; non è la seconda ipotesi, perché ovviamente il processo si chiude.

L'esperienza purtroppo insegna che raramente le cose vanno così.

Spero di non suscitare scandalo se osservo che, in base alla mia esperienza di magistrato, in materia di risarcimento del danno 30 citazioni su 100 sono nulle per omessa indicazione dei fatti costitutivi della pretesa, ma di quelle 30 nullità solo una viene intercettata dal giudice di primo grado in prima udienza.

È questa sostanziale sistematica disapplicazione dell'art. 164 c.p.c., mio sommesso avviso, una delle cause principali delle incertezze circa l'ammissibilità della modifica della domanda nei giudizi di risarcimento del danno: ed infatti i dubbi più gravi in tema di mutatio libelli sorgono a fronte di citazioni ambigue, incomplete, inesaustive, generiche. Così, ad esempio: l'attore ha chiesto «tutti i danni», ma ha descritto solo di avere patito un'invalidità permanente: sarà domanda nuova la richiesta di personalizzazione del risarcimento del danno biologico? Od ancora: l'attore ha domandato il risarcimento di «tutti i danni», ma ha descritto solo di avere dovuto riparare il proprio autoveicolo: sarà domanda nuova la richiesta di rifusione delle spese sostenute per il noleggio di una vettura sostitutiva?

Dunque, prima di passare ad esaminare il secondo punto annunciato nell'incipit del presente scritto (a quali condizioni il mutamento della domanda sia ammissibile, ed a quali condizioni sia inammissibile) è doveroso ricordare che il problema di cui si discorre, teoricamente formidabile, può essere spesso prevenuto dall'accortezza del giudice istruttore, se questi, rilevata la nullità della citazione per incomplete esposizione dei fatti costitutivi della pretesa, inviti espressamente l'attore a chiarire i punti ambigui e gli fissi all'uopo un termine ex art. 164 c.p.c..

Modificazione di domande ed eccezioni

Come noto l'art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c., consente alle parti di «depositare memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte».

È altresì noto che forse non esiste atto processuale nella prassi più svisato della «prima memoria» istruttoria. Mentre con essa le parti dovrebbero precisare o modificare domande ed eccezioni, nella maggior parte dei casi viene utilizzata dall'attore come una sorta di «comparsa conclusionale anticipata», non per precisare la domanda, ma per replicare alle difese del convenuto (replica inutile, dal momento che per la corte di cassazione Le contestazioni del convenuto non ribaltano affatto sull'attore l'inutile onere di replicare alla replica; ha osservato Cass. sez. lav., 14 marzo 2018, n. 6183: «la contestazione da parte del convenuto dei fatti già affermati o già negati nell'atto introduttivo del giudizio non ribalta sull'attore l'onere di 'contestare l'altrui contestazione', dal momento che egli ha già esposto la propria posizione a riguardo. Diversamente, il processo si trasformerebbe in una sorta di gioco di specchi contrapposti che rinviano all'infinito le immagini riflesse, per cui ciascuna parte avrebbe sempre l'onere di contestare l'altrui contestazione e così via, in una sorta di agone dialettico in cui prevale l'ultimo che contesti (magari con mera formula di stile) l'avverso dedotto»).

Del resto non mi sentirei di biasimare i litiganti che ricorrano a questo defatigante gioco di inutili ripetizioni di cose già esposte: esso, infatti, in qualche caso è stato incentivato da quei giudicanti che, legati ad un formalismo equiparabile a quello del noto esempio de vitis aut de arboribus caedendis, non hanno esitato a reputare “ammessi” i fatti dedotti dal convenuto nella comparsa, incompatibili con quelli dedotti dall'attore nella citazione, e da quest'ultimo non contestati nella prima memoria istruttoria.

Cerchiamo ora di stabilire, con riferimento alle controversie risarcitorie, cosa debba intendersi per «modificazione e precisazione» di domande, eccezioni e conclusioni.

Iniziamo con lo sgomberare subito il campo da una vulgata, ovvero una opinione tanto diffusa quanto erronea: quella secondo cui le sezioni unite della corte di cassazione con la sentenza Cass. civ., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310, avrebbero «liberalizzato» la facoltà di modificare la domanda.

La sentenza appena ricordata aveva ad oggetto un caso in cui con l'atto introduttivo del giudizio l'attore aveva formulato una domanda di sentenza dichiarativa ex art. 2932 c.c.; nel corso del giudizio aveva tuttavia dedotto che il contratto da lui qualificato nell'atto di citazione come “preliminare”, si doveva in realtà qualificare come vere e proprie definitivo, e chiese perciò al giudice di accertare l'avvenuta stipula di esso.

La corte di cassazione ha ritenuto che in tal caso il mutamento fosse ammissibile, perché non comportava nessun mutamento dei fatti da accertare, ma solo una diversa qualificazione giuridica di essi.

Per comprendere se ed in che misura la decisione riverbera effetti nei giudizi di risarcimento del danno è doveroso ripercorre brevemente l'iter motivazionale.

Le sezioni unite hanno rilevato come il codice di procedura contempli tre tipi di domande «modificate»: le domande nuove, quelle modificate e quelle precisate.

Le domande nuove sono sempre inammissibili; quelle precisate sono sempre ammissibili. Quelle modificate pongono il problema di stabilire cosa debba intendersi per «modifica». A tal riguardo le sezioni unite hanno bollato come generica e concettualmente improduttiva la tradizionale distinzione tra «mutatio libelli» ed «emendatio libelli», correttamente osservato che quella distinzione era divenuto un «mantra» ripetuto pappagallescamente, senza nessuna previa riflessione del suo significato, e senza nessuna condivisa ricognizione del suo contenuto.

Posto ciò, le Sezioni Unite hanno sviluppato un ragionamento così riassumibile:

a) la modifica della domanda non può essere solo la diversa qualificazione giuridica, in quanto questa è sempre ammissibile, e non ci sarebbe stato bisogno di consentirla con una norma ad hoc;

b) una qualche modifica della domanda deve comunque pur sempre essere consentita, altrimenti l'art. 183 c.p.c. non avrebbe senso: non si comprenderebbe come possa una modifica da un lato essere diversa dalla “precisazione”, ma dall'altro non incidere su petitum e causa petendi;

c) l'art. 183, comma 5, c.p.c.. vieta (implicitamente) le domande nuove, ma consente quelle «di reazione» alle difese del convenuto;

d) le domande nuove ammesse dal quinto comma dell'art. 183 c.p.c. sono quelle che si aggiungono alla domanda originaria;

e) ergo, le domande “modificate” di cui al sesto comma dell'art. 183 c.p.c. non possono che essere, «per sottrazione», quelle che non si aggiungono alla domanda originale, ma si sostituiscono ad essa;

f) se così non fosse si costringerebbe la parte ad iniziare un nuovo processo, con inutile dispendio di attività processuale: ma l'art. 183 c.p.c. ha per l'appunto lo scopo di favorire la decisione sul merito;

g) in ogni caso la modifica deve riguardare la «medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio o comunque essere con questa collegata».

Proviamo ora ad applicare questi principi ai giudizi di risarcimento del danno aquiliano.

Ne discende che saranno inammissibili tutti i mutamenti della domanda, che avranno per effetto di introdurre nel giudizio una «vicenda sostanziale» differente da quella dedotta con l'atto di citazione.

La sentenza delle Sezioni Unite, dunque, sotto questo profilo ha convalidato la tradizionale opinione dottrinaria secondo cui in materia di diritti eterodeterminati (gli unici che vengono in rilievo nelle controversie risarcitorie) la distinzione tra mutamento e modifica della domanda si fonda sull'oggetto della variazione: costituiranno modifiche inammissibili quelle che toccano il fatto costitutivo della pretesa (o dell'eccezione). E il fatto costitutivo della pretesa deve ritenersi mutato quando, per effetto della modifica, si rendano necessari accertamenti istruttori che sarebbero stati superflui, ove la domanda fosse rimasta immutata.

[È ormai invalsa, ed adottata sinanche dal giudice di legittimità, la distinzione tra diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati. Secondo questa distinzione, sono diritti autodeterminati quelli individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, cioè del bene che ne costituisce l'oggetto (cfr. Cass. 18 febbraio 1991 n. 1682); diritti eterodeterminati vengono invece definiti quelli per la individuazione dei quali è indispensabile il riferimento ai relativi fatti costitutivi (Cass., sez. un., 22 maggio 1996 n. 4712; in dottrina, per lo studio di tale argomento, resta fondamentale Cerino Canova, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in Commentario Allorio, II, 1, Torino 1980, 77 e ss., 103 e ss.)].

La cartina al tornasole per stabilire se vi sia stato o meno un mutamento inammissibile della domanda è rappresentata dall'ambito oggettivo dell'istruzione e della sentenza.

Se per effetto della modifica si amplia solo la statuizione richiesta al giudice (il pronuntiare), essa deve ritenersi estranea ai fatti costitutivi della pretesa e perciò ammissibile; se per effetto di essa invece si amplia il novero di fatti da provare (l'oggetto del cognoscere) la modifica stessa sarà inammissibile (per utili riferimenti si vedano Consolo, Domanda giudiziale, in Dig. civ., vol. VII, Torino 1991; Verde, Domanda (principio della), in Enc. giur., Roma, 1988, XII, 6.).

Sarà dunque precluso all'attore invocare profili di colpa, a carico del convenuto, consistiti in condotte diverse rispetto a quelle descritte nel ricorso introduttivo.

Così, ad esempio, se nell'atto di citazione l'attore ha invocato la responsabilità del sanitario per imperita esecuzione di un intervento chirurgico, con la memoria ex art. 183 c.p.c. non potrà invocare la responsabilità del sanitario per violazione dell'obbligo di informazione. Le due condotte colpose, infatti, costituiscono “vicende sostanziali” completamente diverse: la prima è colposa per violazione delle leges artis; la seconda è colposa per violazione di un obbligo di legge; la prima è dannosa perché viola il diritto alla salute; la seconda è dannosa perché viola il diritto alla autodeterminazione.

In secondo luogo, non potrà l'attore, dopo avere invocato il ristoro di alcuni tipi di danni (ad es., danno morale da morte del congiunto), invocare il ristoro di danni ulteriori, il cui accertamento esiga nuove indagini in punto di fatto (ad es., danno biologico iure proprio causato dalla morte del prossimo congiunto). È un principio ventennale: in tal senso si vedano già Cass. civ., sez. III, 5 luglio 2001, n. 9090, Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2000, n. 9370.

In terzo luogo, sarà precluso all'attore invocare, nel corso del giudizio, il risarcimento di danni alla salute derivanti da lesioni diverse rispetto a quelle indicate nel ricorso (a meno che, ovviamente, esse non siano sopravvenute, soccorrendo in tal caso la rimessione in termini di cui all'art. 153 c.p.c.).

Ad analoghe preclusioni andrà incontro il convenuto, ma la posizione di quest'ultimo è sotto questo profilo avvantaggiata dal fatto che il divieto di mutamento delle eccezioni concerne soltanto le eccezioni in senso stretto, cioè quelle non rilevabili d'ufficio. Le eccezioni in senso lato, poiché non comportano alcun onere di allegazione, ma solo di prova, potranno essere sollevate anche oltre i limiti di cui all'art. 183 c.p.c..

Conclusioni

In tema di mutamento della domanda nei giudizi di risarcimento del danno è doveroso rispettare pochi princìpi, ma è anche consigliabile osservare alcune prassi.

I princìpi alla luce dei quali risolvere i dubbi in subiecta materia possono così riassumersi:

a) l'attore deve «parlar chiaro» nell'atto di citazione; i danni di cui chiede il risarcimento non li deve chiamare per nome, ma li deve descrivere. All'attore si chiedono dei fatti, non delle elucubrazioni. Sarà il giudice a stabilire se la zoppia sia un danno biologico o morale; quel che davvero conta è che l'attore abbia descritto di essere divenuto zoppo, senza limitarsi alla generica allegazione di avere «patito ingenti danni che meglio saranno provati in corso di causa»;

b) il livello di specificità delle allegazioni esigibile dall'attore è rappresentato dai fatti primari, cioè costituivi della pretesa; i fatti secondari, cioè quello dai quali desumere la prova dei fatti primari, possono essere allegati al più tardi con la memoria di cui all'art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c.;

c) non è consentita qualsiasi modifica della domanda che abbia per effetto di ampliare il thema probandum e gli accertamenti in fatto richiesti al giudice.

Sul piano delle prassi, infine, sarà bene scomodare Essere e Tempo di Heidegger: per il giudice di primo grado essere preciso nel rilevare in prima udienza le nullità derivanti dalle lacune della citazione risparmierà a lui, alle parti, ed all'amministrazione della giustizia, il tempo occorrente per arrivare fino in Cassazione solo per stabilire se una domanda poteva o non poteva proporsi.

*Fonte: www.ridare.it

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario