Obbligo di collaborazione con le autorità di vigilanza ex art. 2638 c.c. e diritto al silenzio: una questione mal posta

Ciro Santoriello
18 Febbraio 2022

Dalla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 187- quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 (Corte cost. sentenza n. 84 del 2021) non possono farsi derivare dubbi sulla legittimità costituzionale dell'art. 2638 c.c., che delinea condotte alternative di omessa comunicazione di informazioni dovute...
Massima

Dalla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 187- quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 (Corte cost. sentenza n. 84 del 2021) non possono farsi derivare dubbi sulla legittimità costituzionale dell'art. 2638 c.c., che delinea condotte alternative di omessa comunicazione di informazioni dovute o, anche quando dalla condotta conforme potrebbero derivare elementi di prova di altro illecito in quanto l'offensività del bene giuridico da tale disposizione protetto è da reputare prevalente rispetto all'interesse dell'imputato all'impunità.

Il caso

In sede di merito, due imputati erano ritenuti colpevoli, oltre ad altre violazioni di norme presenti nel d.lg. n. 58 del 1998 (Testo Unico della Finanza), del delitto di cui all'art. 2638, comma 2, c.c. per avere consapevolmente ostacolato le funzioni di vigilanza di CONSOB, omettendo di comunicare le reali finalità dell'operazione di aumento di capitale di una società, al momento della richiesta di esenzione dall'obbligo di OPA ai sensi dell'art. 49 del Regolamento Emittenti, nonché nel corso di successive audizioni presso la stessa CONSOB.

Le questioni

Il reato di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza è disciplinato è punito dall'art. 2638 c.c.. La norma è diretta alla tutela delle funzioni di controllo attribuite a diverse autorità pubbliche, anche se non manca chi sostiene che la norma garantisce la protezione degli interessi patrimoniali facenti capo agli investitori (in senso critico, verso la scelta di tutelare penalmente le competenze di un organo amministrativo, quali per l'appunto le diverse autorità pubbliche di vigilanza, ALESSANDRI, Ostacolo all'esercizio delle autorità pubbliche di vigilanza, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, a cura di A. ALESSANDRI, Milano 2002, 254).

La disposizione in parola dà vita a due ipotesi di reato, accomunate solo dalla identità dei soggetti attivi, dalla natura dell'oggetto delle comunicazioni e dal bene giuridico protetto, ma profondamente divergenti quanto alla descrizione dell'elemento materiale.

Il primo comma della disposizione fa riferimento all'esposizione alle autorità di controllo, nelle relative comunicazioni previste dalla legge, di fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza nonché all'occultamento con altri mezzi fraudolenti di fatti concernenti la situazione medesima che si sarebbero dovuti comunicare.

In primo luogo, dunque, è punita la condotta consistente nel fornire, in presenza di situazioni tassativamente indicate da dettati normativi, una falsa informazione all'organo di controllo, dando vita così ad una falsità ideologica in scrittura privata, punita in deroga al principio generale della punibilità del falso ideologico solo se commesso in atti pubblici. Rispetto agli altri reati di falso presenti nel nostro ordinamento, l'ipotesi in esame si caratterizza per la particolare natura del contenuto della comunicazione, spesso relativa non ad un dato di fatto oggettivamente apprezzabili, ma ad elementi e vicende che non possono essere esternati a soggetti diversi dall'esponente senza che questi nella comunicazione non inserisca anche una valutazione degli eventi narrati; la circostanza che comunque espressamente il legislatore abbia previsto la penale rilevanza dell'esposizione di “fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni” fa sì che nell'ambito della disposizione in parola non abbiano ragione di porsi le perplessità – comunque giudicate infondate dalle Sezioni unite dalla Cassazione – che si sono poste con riferimento al reato di falso in bilancio di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. dopo la riforma del 2015 (Cass., sez. un., 27 maggio 2016, in Mass. Uff., n. 266803).

Manca invece nella disposizione in commento un richiamo – presente invece nel similare delitto di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. – alla necessità che la condotta possegga una idoneità ingannatoria, sembrando così attribuire rilievo penale anche alla informazione inveritiera ma priva del requisito dell'insidiosità. Tuttavia fondatamente si sostiene che, essendo spesso la falsa comunicazione di dati contabili di difficile verificazione e rischiandosi di risolvere la decisione sulla sussistenza della falsità “nel differente apprezzamento della valutazione da parte dell'organo di controllo … appare opportuno corredare l'informazione falsa con il requisito della insidiosità” (MUSCO, I nuovi reati societari, Milano 2002, 189), anche se va considerato che la delimitazione delle condotte penalmente rilevanti può essere perseguita anche prestando attenzione al particolare ed intenso atteggiamento soggettivo del soggetto agente, il quale deve agire al fine di ostacolare le funzioni di vigilanza: è chiaro comunque che le indagini sul reale contenuto della volontà criminosa si riverbereranno anche sui caratteri materiali della condotta di falso, posto che se il mendacio degno di sanzione penale è solo quello espressione di una volontà di ostacolo delle funzioni di vigilanza, non potrà ritenersi penalmente significativa, già sotto il profilo oggettivo, la condotta che presenti connotati tali da apparire palesemente inidonea allo scopo.

E' sanzionato anche l'occultamento totale o parziale dei fatti che avrebbero dovuto essere comunicati, pur in presenza di due presupposti. In primo luogo, il nascondimento deve essere realizzato con mezzi fraudolenti, diversi dalla falsità: non una semplice omissione, dunque, ma un silenzio realizzato con strumenti decettivi, sì da non consentire, almeno in astratto, che il destinatario della comunicazione possa avvedersi della incompletezza della informazione fornita (LOVECCHIO MUSTI, Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (art. 2638 c.c.), in AA.VV. (a cura di A. ROSSI), Reati societari, Torino 2005, 247. In giurisprudenza, Cass., sez. VI, 15 novembre 2010, in Mass. Uff., n. 248821, secondo cui ai fini della sussistenza del reato in parola mediante l'occultamento di fatti, è non solo necessario che gli stessi siano rilevanti per la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società e che la loro comunicazione sia effettivamente pertinente all'interpello dell'ente di vigilanza, ma altresì che la condotta sia corredata dal ricorso a mezzi fraudolenti e non si risolva nel mero silenzio sulla loro esistenza). La presenza di tale requisito è senz'altro opportuna, posto che conferisce una chiara autonomia della fattispecie penale rispetto alla violazione dei correlativi obblighi civilistici in materia di rapporti fra soggetti controllanti e le imprese operanti nel relativo settore, impedendosi così la contestazione del reato in discorso in presenza di una semplice inosservanza dell'obbligo di comunicazione; in particolare, la predetta previsione pare assolutamente idonea ad escludere che il delitto possa realizzarsi in caso di mancanza tout court della comunicazione obbligatoria posto che in questo caso manca completamente il connotato della fraudolenza e la violazione dell'obbligo è talmente palese da escludere ogni profilo di insidiosità, sì da non potersi parlare di falso in comunicazione, anche se sarà possibile sussumere la condotta omissiva sotto la fattispecie di cui al comma 2 dell'articolo in commento (in questo senso va letta la massima di Cass., sez. V, 19 dicembre 2012, in Mass. Uff., n. 254065, secondo cui il reato di ostacolo alle funzioni di vigilanza di autorità pubbliche previsto dal secondo comma dell'art. 2638 c.c. è integrato anche dalla mera omessa comunicazione di informazioni dovute).

In secondo luogo, è necessario che il comportamento omissivo investa un dato la cui comunicazione è obbligatoria. Non delimitando la norma in alcun modo la scaturigine del dovere, si ritiene che la fonte dell'obbligo di informazione non debba essere necessariamente di natura legislativa, e l'obbligo di esternazione sarà sussistente anche laddove l'informazione sia richiesta dalla autorità di vigilanza (ZANOTTI, Il nuovo diritto penale dell'economia, 2^ ed., Milano 2008, 188). Il profilo, peraltro, si espone ad alcune considerazioni critiche posto che la norma pare, per questo aspetto, decisamente lesiva del principio di legalità: riprendendo considerazioni fatte nella vigenza dell'art. 174 D.Lgs. n. 58 del 1998, può sostenersi che l'ambito di prensione della disposizione in parola viene in fatto ad essere definito dalle diverse autorità di vigilanza, che divengono per questo profilo “co – legislatori” (secondo l'espressione utilizzata da SGUBBI, Profili penalistici, in Riv. Trim. Proc. Civ. 1998, 754, con riferimento alla posizione del Garante per la protezione dei dati personali. Si vedano anche MAGNANENSI, Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (art. 2638 c.c.), in AA.VV. (a cura di SCHIANO DI PEPE), Diritto penale delle società, II^ ed., Milano 2003, 372), fino a rappresentare la fonte primaria di orientamento per i soggetti interessati.

L'oggetto della falsa esposizione o dell'occultamento deve riguardare la situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza (per una definizione di tale nozione cfr. Cass., sez. VI, 15 novembre 2010, in Mass. Uff., n. 248821).

Va ricordato che per la sussistenza della violazione in discorso non è necessario che la falsità interessi o investa una determinata grandezza dei dati di bilancio del soggetto sottoposto a vigilanza: detto altrimenti, non sono previste soglie di punibilità. Ciò posto, però, non è seriamente discutibile che anche in relazione al delitto in parola la condotta di mendacio deve determinare una significativa alterazione sensibile della situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza, ovvero anche per la sussistenza del reato in questione è necessario che il falso investa un dato qualitativamente rilevante della comunicazione. La negazione del requisito di rilevanza in relazione alla fattispecie in discorso ridurrebbe la stessa ad un reato di mera disobbedienza, avente contenuto formale e natura sanzionatoria rispetto alla semplice inosservanza delle istruzioni o norme regolamentari emanate dall'organo di controllo (in dottrina, si afferma che “potrà ammettersi la punibilità del falso solo ove la situazione economica reale [dell'impresa], correttamente esposta all'organo di controllo, avrebbe imposto l'adozione delle adeguate contromisure di vigilanza prudenziale”, per cui la rilevanza del dato mendace o di cui si è omessa la comunicazione va ricostruita alla luce delle finalità per cui la comunicazione stessa è imposta al soggetto sottoposto alla vigilanza, ed in considerazione dei provvedimenti che l'autorità di controllo avrebbe assunto una volta posta a conoscenza dell'elemento nascosto, ZANOTTI, Il nuovo, cit., 191).

La seconda ipotesi delittuosa richiamata nel comma 2^ della disposizione concerne la frapposizione di ostacoli alle funzioni di vigilanza attribuite agli organi pubblici competenti.

La previsione in discorso dà vita, a differenza del primo comma che configura un reato di mera condotta, ad un illecito di evento, da individuarsi per l'appunto nell'ostacolo alle funzioni delle autorità di controllo. La condotta è descritta in termini estremamente sintetici dal legislatore, il quale perciò richiama un delitto a forma libera, realizzabile in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità; il reato sussiste dunque in presenza di una qualsiasi attività di ostacolo che sia idonea ad impedire all'autorità di vigilanza di esercitare le proprie funzioni e l'unico elemento di descrizione della condotta incriminata è rappresentato dal richiamo al comportamento omissivo, nel senso che, come accennato, il reato può essere realizzato anche mediante il mancato invio all'autorità di vigilanza delle comunicazioni imposte dalla legge o richieste dallo stesso organo di controllo (Cass., sez. V, 19 giugno 2014, in Mass. Uff., n. 262637).

L'ostacolo la cui sussistenza dà luogo alla violazione della disposizione consiste “in ogni tipo di attività che impedisce all'autorità pubblica di vigilanza di esercitare le sue funzioni”. Rientrano in tale ambito, senz'altro, i comportamenti ostruzionistici o di mancata collaborazione, come l'opposizione ad ispezioni, il ritardo nelle comunicazioni ecc. e secondo la Cassazione integra l'illecito in parola la condotta dell'amministratore di un istituto di credito il quale, attraverso l'artificiosa rappresentazione nel patrimonio di vigilanza di elementi positivi fittizi, costituiti da azioni ed obbligazioni acquistate da terzi con finanziamenti erogati in loro favore dallo stesso istituto creditizio, senza che tale circostanza venisse resa nota agli organi di vigilanza, abbia in tal modo occultato l'effettiva situazione economica della banca amministrata e determinato un effettivo e rilevante ostacolo alle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (Cass., sez. V, 26 maggio 2017, in Mass. Uff., n. 271442).

La natura dell'elemento soggettivo è radicalmente diversa a seconda della ipotesi delittuosa considerata. Con riferimento alla fattispecie di cui al comma primo, il dolo richiamato dal legislatore è senz'altro specifico: consapevole della mendacità delle comunicazioni effettuate in ossequio ad un obbligo di legge, ovvero dell'utilizzo di mezzi fraudolenti onde occultare informazioni dovute all'autorità di controllo, l'agente deve nel contempo anche essere animato dall'intento di ostacolare l'esercizio dei poteri di vigilanza attribuiti ai predetti pubblici soggetti. Giustamente alcuni autori evidenziano come sia necessario che “il dolo specifico contrassegni tutti gli elementi del fatto e non rimanga una semplice proiezione della condotta[, e ciò in quanto] la formula che fa riferimento al fine di ostacolare le funzioni di vigilanza non descrive soltanto la direzione della volontà verso un evento esterno, ma esprime in particolare l'idoneità della condotta a provocarlo e pertanto il fine di ostacolare l'esercizio delle funzioni di vigilanza sottintende che la falsa comunicazione raggiunga quel minimum di obiettiva idoneità (rectius, pericolosità) per fuorviare effettivamente l'attività dell'autorità destinataria” (ZANOTTI, Il nuovo, cit., 190).

In relazione all'ipotesi di cui al secondo comma, invece, è attribuito rilievo penale alle sole condotte di ostacolo alle funzioni di vigilanza commesse con dolo sì generico, ma diretto, e quindi escludendo la responsabilità a titolo di dolo eventuale.

Nell'ambito dello studio dell'elemento soggettivo va esaminato il profilo relativo alla rilevanza che, nel reato in parola, potrà avere l'errore del soggetto agente circa gli obblighi di comunicazione su di esso gravanti: quid iuris quando la mancata o insufficiente informazione all'autorità di settore sia dipesa da una erronea interpretazione della norma fondante il relativo obbligo di divulgazione? La dottrina in prevalenza si è espressa nel senso che tale circostanza integra un errore rilevante ai sensi dell'art. 47, comma 3, c.p., coinvolgendo una normativa extrapenale non integratrice della fattispecie illecita (MEYER, Comunicazioni alla C.O.N.S.O.B. e rilevanza dell'errore su legge extrapenale, in Giur. Cost. 1987, II, 876; L. STORTONI, L'introduzione nel sistema penale dell'errore scusabile di diritto: significati e prospettiva, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec. 1988, 1350), ed anche in giurisprudenza si rinvengono – contrariamente all'orientamento generale diretto a delimitare fortemente l'ambito di applicazione del citato art. 47 comma 3 – aperture in tal senso. Trattasi di conclusione apprezzabile considerando come di frequente, come sopra indicato, l'obbligo di comunicazione non deriva neppure da una fonte normativa, ma da fonti secondarie, a carattere regolamentare, quando addirittura non discenda da apposite singole richieste che l'autorità di controllo avanza verso l'agente.

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato rigettato.

Per quanto di interesse ai nostri fini, va segnalato che la sentenza prende in esame un profilo del delitto di ostacolo alla vigilanza che spesso è stato oggetto di riflessione da parte della dottrina – mentre sul punto minori interventi si registrano in sede giurisprudenziale. Il riferimento è alla possibilità di ritenere integrato il delitto in parola anche in presenza del mero silenzio serbato dall'interessato alle richieste della Banca d'Italia e della Consob, non cooperi con le medesime autorità al fine dell'espletamento delle relative funzioni di vigilanza ovvero ritardi l'esercizio delle stesse. Il problema che tale condotta pone è se sanzionare la stessa non rappresenti una violazione con i principi costituzionali, in particolari con il diritto al silenzio che va riconosciuto, quale strumento di difesa, al soggetto accusato.

Che il problema abbia ragione di porsi è dimostrato dalla circostanza che la Corte costituzionale con la sentenza n. 84 del 2021 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 24, 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 Convenzione europea dei diritti dell'uomo e 14, par. 3, lett. g), Patto internazionale dei diritti civili e politici, nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione all'art. 47 della Carta fondamentale dei diritti dell'Unione Europea - l'art. 187- quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 (che commina la sanzione amministrativa per chi, fuori dei casi previsti dall'art. 2638 c.c., non ottemperi nei termini alle richieste della Banca d'Italia e della Consob, non cooperi con le medesime autorità al fine dell'espletamento delle relative funzioni di vigilanza ovvero ritardi l'esercizio delle stesse) nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato, rivolgendo un monito esplicito al legislatore per una più precisa declinazione delle ulteriori modalità di tutela di tale diritto - non necessariamente coincidenti con quelle che vigono nell'ambito del procedimento e del processo penale - rispetto alle attività istituzionali della CONSOB e della Banca d'Italia, in modo da meglio calibrare tale tutela rispetto alle specificità dei procedimenti che di volta in volta vengono in considerazione, nel rispetto dei principi discendenti dalla Costituzione, dalla CEDU e dal diritto dell'Unione europea.

Nel rivolgere un monito al legislatore per una più precisa declinazione delle ulteriori modalità di tutela del diritto al silenzio, la Corte costituzionale tuttavia ha precisato come il sistema di garanzie da applicarsi non debba necessariamente coincidere con quelle vigenti nell'ambito del procedimento e del processo penale, in tal modo sottolineando il doppio binario di disciplina dell'illecito amministrativo e del reato e ciò significa, secondo la Cassazione, che la peculiarità della fattispecie esaminata dalla Consulta - rifiuto di rispondere a domande formulate in sede di audizione o per iscritto dalle Autorità di vigilanza - non proietta dubbi sulla legittimità costituzionale dell'art. 2638 c.c., che delinea condotte alternative di omessa comunicazione di informazioni dovute o di ricorso a mezzi fraudolenti, anche quando dalla condotta conforme potrebbero derivare elementi di prova di altro illecito.

A questa conclusione si giunge sottolineando intanto che il profilo di falsità, rispetto ad un obbligo di dichiarare il vero previsto dalla legge, che connota la condotta in esame costituisce un quid pluris rispetto al dovere di collaborazione con l'autorità su cui è, invece, conformato l'illecito amministrativo censurato.

In secondo luogo, la giurisprudenza si è espressa, con orientamento consolidato, nell'escludere, in tema di falso, la rilevanza del principio nemo tenetur se detegere, non potendo la finalità probatoria dell'atto essere sacrificata all'interesse del singolo di sottrarsi alle conseguenze di un delitto (Cass., sez. V, 19 aprile 2021, n. 23672; Cass., sez. III, 3 ottobre 2018, n. 53656, con riferimento all'obbligo di dichiarare al fisco, a pena di violazione del disposto di cui agli artt. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, 14 lg n. 573 del 1003 e 36, comma 34-bis, del n. 223 del 2006, n. 223, anche redditi provenienti da attività illecita, in quanto il principio del nemo tenetur se detegere opera esclusivamente nell'ambito di un procedimento penale già avviato e deve ritenersi recessivo rispetto all'obbligo di concorrere alle spese pubbliche previsto dall'art. 53 Cost). Al pari di quanto ritenuto nei casi esaminati dalle pronunce citate, anche con riferimento all'art. 2638 c.c. l'offensività del bene giuridico protetto è da reputare prevalente rispetto all'interesse dell'imputato all'impunità e siffatta valutazione comparativa non risulta messa in crisi alla luce della pronuncia di incostituzionalità richiamata che, nell'affermare l'intangibilità del diritto al silenzio nell'ambito del generico dovere di collaborazione dell'autorità di vigilanza, non induce a dubitare della conformità costituzionale della pregnante connotazione lesiva che caratterizza i fatti penalmente rilevanti in forza del secondo comma dell'art. 2638 citato..

Osservazioni

Come accennato, il tema dei rapporti fra il delitto di ostacolo alle funzioni di vigilanza (nella forma richiamata dal secondo comma dell'art. 2638 c.c.) ed il diritto al silenzio che il nostro ordinamento riconosce a qualsiasi soggetto sottoposto a procedure che possono condurre all'applicazione di sanzioni, anche non formalmente penali ma sostanzialmente tali, è da tempo all'attenzione della dottrina (BONINI, La violazione degli obblighi di collaborazione con le autorità di settore, in A. MEYER – L. STORTONI, Diritto penale della banca, del mercato mobiliare e finanziario, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, diretta da BRICOLA – ZAGREBELSKY, Torino 2002, 140; SEMINARA, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile ed ostacolo alle funzioni dell'autorità di vigilanza, in Dir. Pen. Proc. 2002, 687).

La presente decisione è la prima in cui la Cassazione affronta in modo diretto il tema, anche se la soluzione si fonda su principi consolidati. Infatti, il presupposto delle conclusioni cui giunge la Corte di legittimità è che il delitto di cui all'art. 2638, comma 2, c.c. possa essere integrato anche semplicemente omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità come in caso di mancato invio all'autorità di vigilanza delle comunicazioni imposte dalla legge o richieste dallo stesso organo di controllo (Cass., sez. V, 19 giugno 2014, in Mass. Uff., n. 262637). Da qui, il problema – risolto nel senso che si è detto – della compatibilità di tale conclusione con i principi costituzionali espressi dall'art. 24 della nostra Carta fondamentale posto che, per l'appunto, il soggetto che volesse evitare di violazione la norma di cui all'art. 2638 c.c. potrebbe trovarsi a rinunciare al proprio diritto a non collaborare con le pubblichi autorità.

A nostro parere, tuttavia, la questione non è inquadrata in termini corretti dalla Cassazione, la quale, nel sostenere la conformità a Costituzione della disposizione del codice civile omette di confrontarsi (o comunque lo fa, a nostro avviso, in maniera non corretta) con un problema la cui soluzione è logicamente antecedente rispetto al tema dei rapporti fra delitto di ostacolo di vigilanza e diritto al silenzio dell'accusato. Intendiamo riferirci alla necessaria individuazione dei profili differenziali fra il delitto in questione e l'illecito amministrativo di cui all'art. 187- quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, che commina la sanzione amministrativa per chi, fuori dei casi previsti dall'art. 2638 c.c., non ottemperi nei termini alle richieste della Banca d'Italia e della Consob, non cooperi con le medesime autorità al fine dell'espletamento delle relative funzioni di vigilanza ovvero ritardi l'esercizio delle stesse – disposizione in relazione alla quale, come detto, la Corte costituzionale ha individuato la necessità di tutelare il diritto al nemo tenetur se detegere in capo all'accusato.

La distinzione fra i due illeciti è, infatti, essenziale anche per la definizione del tema che ci occupa, giacché se si ritiene che fra le due violazioni vi sia una assoluta sovrapposizione – a prescindere dalla tematica del mancato rispetto del divieto di bis in idem qualora entrambe le contestazioni siano elevate nei confronti del medesimo soggetto – non è sostenibile che le considerazioni sviluppate dalla Consulta con riferimento alla violazione amministrativa non operino anche per l'illecito penale. Di tale criticità è consapevole anche la Cassazione, la quale non a caso conclude la sua riflessione sostenendo che “l'offensività del bene giuridico protetto [dall'art. 2638 c.c.] è da reputare prevalente rispetto all'interesse dell'imputato all'impunità”, sostenendo – se si è ben compreso – che vi sarebbe una differenza fra il bene giuridico tutelato da quest'ultima disposizione e gli interessi presi in considerazione dalla previsione presente nel T.U.F..

Questa conclusione, tuttavia, non ci pare condivisibile giacché davvero non si riesce a comprendere come diversi possono essere le oggettività giuridiche prese in considerazione dalle due disposizioni. In realtà, ciò che differenzia i due illeciti non sono gli interessi presi in considerazione dal legislatore quanto le modalità di aggressione degli stessi poiché mentre nel caso dell'illecito amministrativo si è di fronte ad una mera inerzia del soggetto attivo, ad una mera disobbedienza dello stesso, ad un suo inadempimento a fronte di una richiesta delle autorità, nel caso del reato societario occorre che tale condotta conduce al verificarsi di un evento, rappresentato dal frapporre un ostacolo alle funzioni delle autorità di controllo. E' questa, dunque, la differenza fra le due violazioni: sussiste solo la contravvenzione amministrativa quando vi è il solo silenzio, vi è delitto quando tale silenzio impedisce alle autorità di esercitare il proprio compito di verifica e controllo.

Si apre così la strada ad una diversa soluzione al problema dei rapporti fra il delitto di ostacolo alle funzioni di vigilanza (nella forma richiamata dal secondo comma dell'art. 2638 c.c.) ed il diritto al silenzio da riconoscere all'accusato. Deve ritenersi, infatti, quando l'amministratore della società abbia semplicemente omesso di comunicare il dovuto si sarà in presenza della sola violazione dell'art. 187- quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 e quindi non potranno non trovare applicazione le menzionate considerazioni formulate dalla Consulta con riferimento a tale previsione; di contro, solo quando da tale silenzio consegua un ostacolo effettivo e concreto all'esercizio dei poteri di controllo spettante alla vigilanza sarà sussistente il reato ed allora in questo caso non vi sarà spazio per ritenere la condotta scriminata dal diritto al silenzio perché l'aggressione al bene giuridico presenta profili di maggiore lesività tanto da giungere ad un significativo impedimento dell'esercizio delle funzioni di vigilanza.

Conclusioni

In conclusione, prima di individuare i confini di un diritto al silenzio spettante all'imprenditore in caso di contestazione del delitto di cui all'art. 2638 c.c. occorre verificare quali sono le conseguenze della sua mancata collaborazione con le autorità pubbliche. Se in conseguenza di tale omissione quest'ultime sono impedite nell'esercizio dei loro poteri allora la mancata interlocuzione non potrà essere in alcun modo scriminata e sarà penalmente rilevante.