Licenziamento illegittimo se la procedura coinvolge solo i dipendenti della società datrice di lavoro

Mario Scofferi
21 Febbraio 2022

In caso di accertamento della compenetrazione tra strutture aziendali – formalmente facenti capo a società distinte – l'attività lavorativa deve comunque ritenersi prestata nell'interesse di tutte le società...

In caso di accertamento della compenetrazione tra strutture aziendali – formalmente facenti capo a società distinte – l'attività lavorativa deve comunque ritenersi prestata nell'interesse di tutte le società. In conseguenza di ciò, la procedura di licenziamento collettivo deve coinvolgere tutti i lavoratori dell'unico complesso aziendale risultante dalla integrazione delle società.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l'ordinanza n. 3824 depositata il 7 febbraio 2022.

Il caso. La Corte di Appello di Milano, riformando parzialmente la pronuncia di primo grado, confermava la sussistenza di un unico centro di imputazione datoriale tra due società e, per l'effetto, l'illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore all'esito della procedura di licenziamento collettivo attivata dalla società formale datrice di lavoro, con conseguente condanna di entrambe le resistenti, in solido, alla reintegrazione del dipendente ed al pagamento di un'indennità risarcitoria.

In particolare, nell'avviso della Corte di merito «nulla andava detratto, a titolo di aliunde perceptum e percipiendum, dalla indennità risarcitoria rideterminata in misura pari a 12 mensilità», non potendosi – tra il resto – attribuire rilievo ad un impiego a termine offerto al lavoratore poiché inidoneo ad incidere sul limite massimo posto dalla legge.

Contro tale pronuncia le società ricorrevano alla Corte di Cassazione, articolando vari motivi.

In caso di unitarietà della struttura aziendale l'attività si ritiene comunque prestata nell'interesse di tutte le società. In particolare e per quanto qui interessa, le ricorrenti si dolevano della violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c. e degli artt. 24,4 e 5l. n. 223/1991, per avere la Corte di merito ritenuto illegittimo il licenziamento «a prescindere dell'esame della posizione individuale del singolo lavoratore in rapporto al suo inserimento nella complessiva struttura aziendale e dal concreto accertamento dell'uso promiscuo della sua prestazione».

Motivo che tuttavia non viene condiviso dalla Cassazione la quale, affermando il principio esposto in massima, rigetta il ricorso.

La Suprema Corte, richiamando i principi sul punto ormai condivisi, statuisce che «l'accertamento fattuale che sorregge la decisione impugnata, in merito alla compenetrazione tra le strutture aziendali formalmente facenti capo a distinte società, implica la riferibilità della prestazione di lavoro ad un soggetto sostanzialmente unitario».

Tale accertamento, prosegue la Cassazione, «assorbe il requisito dell'uso promiscuo dell'attività (…) e consente di superare il dato formale rappresentato dal titolo giuridico in base al quale i dipendenti (…) venivano utilizzati (dall'altra società), vale a dire il distacco ed il ricorso al job posting, come peraltro imposto dal principio di effettività».

Detto accertamento di sostanziale unitarietà, nell'avviso della Corte, «esclude che possa assumere rilevanza decisiva la verifica circa la concreta, effettiva, utilizzazione da parte di entrambe le società delle prestazioni rese dal singolo lavoratore, la cui attività deve comunque ritenersi prestata nell'interesse – indifferenziato – delle due società».

Conseguenza ineludibile di ciò «è la necessità che la procedura collettiva (…) coinvolga (…) tutti i lavoratori dell'unico complesso aziendale risultante dalla integrazione delle due società».

L'aliunde perceptum o percipiendum non può essere detratto dal «tetto» massimo. Con l'ultimo motivo, le ricorrenti si dolevano della violazione e falsa applicazione dell'art. 18, comma 4, Stat. Lav., sostenendo, in particolare, che «l'aliunde perceptum o percipiendum (dovesse) essere detratto dal tetto massimo delle dodici mensilità».

Anche quest'ultimo motivo non viene condiviso dalla Corte in quanto «la determinazione dell'indennità risarcitoria deve avvenire attraverso il calcolo dell'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, a titolo di aliunde perceptum o percipiendum, e, comunque, entro la misura massima corrispondente a dodici mensilità della retribuzione (…) se il risultato di questo calcolo è superiore o uguale all'importo corrispondente a dodici mensilità di retribuzione, l'indennità va riconosciuta in misura pari a tale tetto massimo».

(Fonte: Diritto e Giustizia)

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