Criptovalute tramite società estera usando profitti delittuosi: può essere contestato l'autoriciclaggio

23 Febbraio 2022

Ai fini dell'integrazione del reato di autoriciclaggio, non occorre che l'agente ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comporti un assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi...
Massima

Ai fini dell'integrazione del reato di autoriciclaggio, non occorre che l'agente ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comporti un assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea anche solo ad ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza; tale delitto può essere realizzato anche mediante l'utilizzo di criptovalute.

Il caso

Il caso in commento riguarda un soggetto indagato per il reato (presupposto) di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, il quale trasferiva i relativi profitti a società estere operanti nel settore della compravendita di cosiddette criptovalute (in particolare bitcoin), tramite bonifici in Euro effettuati da carte Postepay intestate per lo più a soggetti prestanome, ma anche a sé stesso. Pertanto, nel corso delle indagini il Tribunale di La Spezia disponeva il sequestro preventivo, anche per equivalente, del profitto dei reati di autoriciclaggio.

Avverso l'ordinanza cautelare, l'indagato proponeva ricorso per cassazione sostenendo l'erroneità della misura reale, in quanto il Tribunale aveva travisato la condotta del reo, che non era quella di reinvestire i proventi del reato presupposto, ma di acquistare criptovalute che sarebbero servite per pagare i servizi del sito internet che effettuava la pubblicità delle prostitute. La difesa evidenziava, altresì, l'assenza di motivazione nella parte in cui il Tribunale aveva omesso totalmente di rassegnare i motivi per i quali l'acquisto di criptovaluta costituirebbe atto idoneo ad ostacolare l'identificazione della provenienza del bene. È pacifico, infatti, che le transazioni operate tramite la criptovaluta cd. bitcoin non potrebbero ritenersi anonime, giacché ogni movimentazione avvenuta in criptovaluta e registrata in una sorta di libro contabile digitale (cd. distributed ledger) sarebbe di dominio pubblico, accessibile costantemente da chiunque e sarebbe sempre possibile risalire agli accounts, le parti dell'operazione trascritta in virtù della nuova tecnologia blockchain.

Tale tesi difensiva era disattesa dalla Cassazione, la quale dichiarava il ricorso infondato e dava conferma della misura cautelare reale.

Sul punto la Suprema Corte ricordava che ai fini dell'integrazione del reato di autoriciclaggio, non occorre che l'agente ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comporti un assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea anche solo ad ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza (v., anche, Cass. 36121/2019).

Affermava la Corte che l'indagato si era avvalso di società estere che fungevano da exchanger di criptovalute. In questo modo, si era comunque ottenuto lo scopo di rendere difficile risalire all'autore del reato presupposto. Per la Suprema Corte al fine di poter configurare il delitto di autoriciclaggio, non è necessario ottenere il completo anonimato nelle operazioni di trasferimento di denaro. All'opposto è sufficiente ostacolare gli accertamenti sulla provenienza del denaro, come avvenuto nel caso in disamina.

Le criptovalute, pertanto, possono costituire un escamotage per integrare il delitto in parola.

La questione giuridica

La questione giuridica sottesa nel caso in esame, verte nello stabilire se la condotta di trasferimento di valuta verso società estere che si interpongono nell'acquisto di criptovalute posta in essere dall'autore di un reato presupposto, rientri tra quelle punite dalla norma incriminatrice di cui all'art. 648-ter.1. c.p..

Le soluzioni

Prima di fornire soluzione alla questione giuridica in premessa, occorre una breve disamina degli istituiti coinvolti nel caso in disamina.

A mente dell'art. 648 ter.1. c.p., si applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 a euro 25.000 a chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa.

Il comma 3 dell'art. 3, L. n. 186/2014 ha introdotto nell'ordinamento penale italiano il delitto di autoriciclaggio, che punisce l'autore del delitto presupposto che impieghi, sostituisca, o trasferisca in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione del reato.

Il D. Lgs. 8/11/2021, n. 195, nel dare attuazione alla Direttiva 23/10/2018, n. 2018/1673/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, sulla lotta al riciclaggio mediante diritto penale: 1) ha ricompreso nell'ambito di applicazione della norma, al comma 1, anche i proventi di delitti colposi, prima espressamente esclusi; 2) ha aggiunto, al nuovo comma 2, la previsione della punibilità dell'autoriciclaggio anche quando abbia ad oggetto denaro o cose provenienti da contravvenzione punita con l'arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi; 3) ha sostituito la previsione dell'attenuante di cui al comma 2, modificandone l'entità dell'attenuazione della pena; 4) ha infine eliminato il riferimento all'aggravante di cui all'art. 7, D.L. n. 152/1991, convertito con modificazioni in L. n. 203/1991, sostituendolo con quello all'art. 416-bis.1, così coordinando i testi normativi.

Si tratta di un reato proprio.

La condotta tipica consiste nell'impiegare, sostituire, trasferire, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione del reato presupposto (delitto, anche colposo, o contravvenzione punita con l'arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi). Per l'integrazione del reato non occorre una condotta che impedisca, in maniera assoluta, l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea anche solo ad ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza (v. Cass. 21404/2022 e Cass. 7860/2020).

Due elementi contribuiscono alla delimitazione dell'area di rilevanza penale del fatto:

1) le condotte devono essere idonee ad ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza da reato del loro oggetto;

2) i beni devono essere tassativamente destinati ad attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative.

Il comma 4 della predetta norma va inteso come clausola di non punibilità, a mente della quale non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale. Tale comma va interpretato in senso letterale: l'esclusione della responsabilità penale opera solo e soltanto se il soggetto utilizzi, o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza il compimento di alcuna operazione atta ad ostacolare, concretamente, l'identificazione della loro provenienza delittuosa (v. Cass. 13571/2020, Cass.9755/2020, Cass. 13795/2019 e Cass. 30399/2018).

Il delitto, pur essendo a consumazione istantanea, è reato a forma libera e può anche atteggiarsi a reato eventualmente permanente quando il suo autore lo progetti ed esegua con modalità frammentarie e progressive (v. Cass. 40890/2017).

A seguito della riforma attuata con D.Lgs./2021 n. 195, l'oggetto materiale del reato è costituito da denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto anche colposo (comma 1), ovvero da contravvenzione punita con l'arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi (comma 2). Stante il rinvio all'ultimo comma dell'art. 648 c.p., l'autore dell'autoriciclaggio è punibile anche nel caso in cui l'autore del reato presupposto non sia imputabile, punibile, ovvero quando faccia difetto una condizione di procedibilità. Non è necessario che il delitto non colposo presupposto risulti accertato con sentenza passata in giudicato, ma è sufficiente che lo stesso non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo e che il giudice procedente per il reato di cui all'art. 648 bis c.p. ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza (Cass. 14800/2020 e Cass. 42052/2019). Va da sé che il delitto presupposto deve perfezionarsi prima della condotta dissimulatoria, integrativa del reato di autoriciclaggio (v. Cass. 7074/2021 e Cass. 331/2021): diversamente il reato de quo non sarebbe integrato.

Ai fini della configurazione del reato non occorre una condotta che impedisca, in maniera assoluta, l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea, anche, solo ad ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza (v. Cass. 21404/2021 e Cass. 7860/2020).

L'intervenuta tracciabilità, per effetto delle attività di indagine poste in essere dopo la consumazione del reato, delle operazioni di trasferimento delle utilità provenienti dal delitto presupposto non esclude il reato (v. Cass. 227/2021 e Cass. 16908/2019).

Il reato è configurabile quando il reinvestimento del profitto illecito, sia attuato attraverso la sua intestazione ad una persona fisica ovvero ad una società di persone o capitali terza (v. Cass. 35260/2021).

Al delitto di autoriciclaggio si applica la disciplina della confisca di cui all'art. 648 quater c.p..

Si applica altresì la confisca c.d. allargata ex art. 12 sexies, D.L. 8.6.1992, n. 306 (conv. in L. 7.8.1992, n. 356), come modificato dall'art. 5, D.Lgs. 29.10.2016, n. 202.

Osservazioni

La Corte di Cassazione con la sentenza in commento, ha confermato un provvedimento di sequestro preventivo per equivalente fino alla concorrenza di oltre 200.000,00 euro, in un procedimento in cui era contestato il trasferimento del profitto dei reati presupposto (favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione) a società estere operanti nel settore della compravendita di cosiddette “criptovalute” (in particolare bitcoin), tramite bonifici in euro effettuati da carte Postepay intestate per lo più a soggetti prestanome oppure all'indagato stesso.

Peraltro, evidenzia il Giudice di Legittimità doveva ritenersi provata la circostanza che le società estere destinatarie dei bonifici in euro riconducibili al ricorrente si occupassero dell'acquisto di criptovalute, il cui acquisto era necessario per finanziare l'attività illecita di sfruttamento della prostituzione. Altresì era indiscussa l'operatività delle società destinatarie dei bonifici, rivelatesi operative nel cambio di valuta ordinaria con criptovalute come i bitcoin (cosiddette exchanger di criptovalute). Tutto ciò evidenzia come non si fosse innanzi ad un acquisto diretto di bitcoin da parte dell'indagato, ma di trasferimento tramite bonifici in euro di somme di danaro a società estere, successivamente incaricate di cambiare la valuta ricevuta (euro) in bitcoin.

Ne consegue che il ricorrente non agiva in proprio nell'acquisto di tale ultima valuta cosiddetta virtuale - intendendosi con tale espressione, secondo la dizione contenuta nell'art. 1, comma 2, lett., qq) del D.Lgs. n. 231/2007, la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un'autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente – ma agiva per mezzo di società estere adibite all'operazione di cambio valuta, attraverso prestanome intestatari fittizi delle carte dalle quali erano effettuati i bonifici verso le società estere.

Di conseguenza le operazioni così descritte - attraverso il trasferimento di valuta verso società estere che si interponevano nell'acquisto di criptovalute ed effettuate anche a mezzo di prestanome - ponevano un serio ostacolo alla identificazione del ricorrente come beneficiario finale delle transazioni ed effettivo titolare di bitcoin acquistati non da lui ma dalle società estere che fungevano da exchanger di criptovalute.

Conclusioni

Infine, la Suprema Corte ha ritenuto che l'operazione di trasferimento effettuata dal reo servendosi di società estere che effettuavano professionalmente il cambio della valuta, nella specie da Euro in bitcoin, inserendo, pertanto, nel circuito economico-finanziario, gli Euro di provenienza illecita poi utilizzati (cambiati) per l'acquisto di bitcoin, integrava compiutamente il reato di autoriciclaggio.

All'attività di cambio della valuta deve infatti essere attribuito carattere finanziario, tanto che in Italia essa è regolamentata dalla legge ed il soggetto che la esercita deve essere iscritto in appositi registri (art. 155, comma 5, d.lgs. n. 385/1993, recante il Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia, stabilisce che i soggetti che esercitano professionalmente l'attività di cambiavalute, sono iscritti in un'apposita sezione dell'Elenco previsto dall'art. 106, comma 1, del T.U.B.).

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