La Consulta sul referendum per la (parziale) abrogazione dell'art. 579 c.p. Cronaca di un'inammissibilità annunciata

Giuseppe Losappio
04 Aprile 2022

Il diritto alla vita, implicitamente riconosciuto dall'art. 2 Cost., concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto costituzionalmente protetto della persona e, in quanto diritto inviolabile che si colloca in una posizione privilegiata nell'ordinamento, appartiene all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana.
Massima

Il diritto alla vita, implicitamente riconosciuto dall'art. 2 Cost., concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto costituzionalmente protetto della persona e, in quanto diritto inviolabile che si colloca in una posizione privilegiata nell'ordinamento, appartiene all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana.

L'art. 579 c.p., vietando ai terzi di farsi esecutori delle altrui richieste di morte, pur validamente espresse, assolve, come l'incriminazione dell'aiuto al suicidio, allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita, soprattutto ma non solo delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate.

Premesso che non sono ammissibili i referendum aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie il cui nucleo normativo non può essere alterato o privato di efficacia senza che venga soppressa una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, l'art. 579 c.p., pur non identificando una legge a contenuto costituzionalmente vincolato, non essendo quella codicistica l'unica disciplina della materia compatibile con il rilievo costituzionale del bene della vita umana, non può essere puramente e semplicemente abrogato a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale, facendo venir meno il livello minimo di tutela richiesto dal diritto alla vita e, quindi, il corretto bilanciamento dei valori costituzionali.

Il caso

Come prescrive l'art. 33 della l. cost. 25 maggio 1970, n. 352, con la sentenza in esame la Corte costituzionale ha escluso l'ammissibilità di referendum per la parziale abrogazione dell'art. 579 c.p. Alla consultazione del corpo elettorale era proposto un quesito con la tecnica del ritaglio. Ciò che si chiedeva non era l'integrale abrogazione del delitto di omicidio del consenziente. La domanda referendaria era costruita mediante tre interventi sul testo della stessa disposizione: l'eliminazione dal primo comma delle parole «la reclusione da sei a quindici anni»; l'integrale abrogazione del secondo comma; l'eliminazione dal terzo comma delle parole «Si applicano». Ipotizzando il successo della consultazione referendaria, il testo dell'art. 579 c.p., per effetto di queste cesure, sarebbe stato, quindi, il seguente: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all'omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno». Secondo quanto illustrato nelle difese dei promotori, il quesito perseguiva l'obiettivo di eliminare dall'ordinamento il rilievo penale della condotta dell'omicidio del consenziente, tranne nei casi specifici già previsti al medesimo art. 579, comma 3, c.p., sottoposti alla disciplina dell'omicidio doloso (artt. 575 e ss. c.p.). In altri termini, il referendum prefigurava che non si punisse l'uccisione di una persona consenziente riservando l'applicazione delle pene previste per l'omicidio doloso (artt. 575 e ss. c.p.) a tre classi di situazioni legate dal comune denominatore di evocare una manifestazione di volontà non del tutto libera e consapevole. Come argomenta la sentenza, il successo dell'iniziativa referendaria avrebbe instaurato una disciplina inversa rispetto a quella in vigore (implicito il riferimento alla sentenza n. 242/2019), sancendo la piena disponibilità della vita da parte del soggetto capace di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo. In questo senso, si era espressa pure Tullio Padovani, in una nota recepita dall'Associazione Luca Coscioni: l'art. 579 c.p. ruota agli antipodi e si ritrova a sancire il principio di disponibilità del diritto alla vita. L'asse teleologico dell'art. 579 c.p. (e cioè la finalità politico criminale ch'esso è destinato a realizzare) risulterebbe così letteralmente rovesciata: da norma-baluardo dell'indisponibilità del diritto alla vita a norma-riconoscimento della sua disponibilità. Quindi una persona perfettamente sana di mente, maggiore di età, lucida e libera nell'espressione del consenso, potrebbe validamente consentire la propria morte, senza conseguenze per chi l'abbia determinata.

La questione

La decisione della Corte presenta risvolti costituzionalistici e penalistici.

Sotto il primo profilo rilevano i contenuti e (quindi) i limiti del giudizio di ammissibilità del referendum cui si farà cenno seguendo un ordine espositivo scandito dalla progressiva problematicità/criticità delle questioni.

Quanto ai «propositi» e agli «intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata», nella sentenza in commento, la Corte aderisce all'indirizzo che considera irrilevante – come dire – l'interpretazione soggettiva del quesito, sancendo senza incertezze che alla richiesta referendaria abrogativa «è possibile di per sé attribuire un significato ricostruttivo di una nuova e diversa disciplina» ma solo nei limiti della «domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti» (sent. n. 17/1997). La motivazione della sentenza n. 50 ribadisce, quindi, la dottrina del cd. fine intrinseco (Corte cost. n. 25/2011 e n. 27/2011) che ammette il riferimento all'intenzione dei promotori nella versione “oggettivata” fatta palese dal significato proprio delle parole del quesito secondo la connessione di esse (parafrasando l'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale).

In linea di principio, non è controverso che il giudizio di ammissibilità del quesito referendario presenti caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati alla Consulta ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti con forza di legge (Corte cost.,n. 26/2011 e 45/2005). Alla stregua di tale premessa, nella sentenza in esame, la Corte ha ribadito che la valutazione richiesta dall'art. 75 Cost. non invest(irebb)e la illegittimità della legge oggetto di referendum né della normativa risultante dall'eventuale abrogazione referendaria (Corte cost., n. 27/2017 e 46/2005).

L'affermazione, di per sé chiara, perde di linearità al cospetto della dottrina, che esordì con la sentenza n. 16/1978, dei cosiddetti limiti impliciti, tra i quali, in particolare, i contenuti costituzionalmente vincolati delle leggi«il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)». La successiva evoluzione di questo “formante” giurisprudenziale ha ulteriormente debilitato la selettività dell'enunciato. In un primo momento la Corte ha specificato il “vincolo di costituzionalità” distinguendo le leggi «che contengono l'unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale, di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione di quest'ultima» da quelle la cui abrogazione «priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione» (sent. n. 25/1981). In seguito, nell'ambito di quest'ultima categoria sono state estratte le due classi delle leggi «la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione» (sent. n. 35/1997), da un lato, e, dall'altro, delle leggi «dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona che una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento» (sent. n. 49/2000). Da ultimo, il limite all'ammissibilità del referendum è stato esteso a quelle discipline che coinvolgono «una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa» (sentenza n. 45/2005).

I profili penalistici della decisione sono strettamente correlati al cd. caso “Cappato” e, in particolare, alla ordinanza n. 207/2018 e, da ultimo, alla sentenza n. 242/2019 che, nell'ambito di quella vicenda giudiziaria, sancì la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 580 c.p.

Con il primo provvedimento, la Consulta rinviò di un anno la decisione allo scopo di favorire l'intervento del legislatore che tuttavia non diede seguito a questa sollecitazione. Nella motivazione della sentenza, che accoglieva parzialmente la questione, la Corte (già) avvertiva che la incostituzionalità dell'art. 580 c.p. non può essere argomentata in relazione ad un generico diritto all'autodeterminazione individuale. A prescindere dalle concezioni di cui era portatore il legislatore del 1930, la ratio del delitto di “aiuto al suicidio”, alla luce del vigente quadro costituzionale, risulta agevolmente individuabile nella «tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili», che l'ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. L'incriminazione, pertanto «assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere». Le medesime considerazioni valgono, altresì, ad escludere che la norma censurata si ponga, sempre e comunque, in contrasto con l'art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata.

Ciò posto la Corte osserva che la decisione di accogliere la morte potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. La l. n. 219/2017, infatti, riconosce ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5).

La disciplina in vigore consente, quindi, di evitare l'accanimento terapeutico e lasciarsi morire attraverso il meccanismo della sedazione profonda continua e terminale.

Questa soluzione, tuttavia, può essere vissuta dal paziente come una opzione non accettabile. In questo caso, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l'obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l'interruzione dei trattamenti sanitari anche quando sia necessaria una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario). Non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all'accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento di altre forme di interruzione dei presidi di sostegno vitale. Per converso l'assistenza di terzi che costituisca l'unico modo per il malato di “sfuggire”, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all'art. 32, comma 2, Cost. non deve più essere sempre e comunque considerata penalmente rilevante. La Corte, quindi, scorgeva una circoscritta area di non conformità costituzionale dell'art. 580, corrispondente segnatamente ai casi in cui l'aspirante suicida si identifichi in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Sono – puntualizza la motivazione – «situazioni inimmaginabili all'epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali».

Le soluzioni giuridiche

Nella peculiare prospettiva del giudizio sull'ammissibilità del referendum, ciò che vale per l'aiuto al suicidio vale – è in estrema sintesi il pensiero della Corte costituzionale – anche per l'omicidio del consenziente. Nel solco tracciato dalla sentenza n. 242/2019, la Corte argomenta l'inammissibilità del referendum declinando la dottrina della sentenza n. 16 del 1978 nella versione più “avanzata” della sentenza n. 45 del 2005.

La Corte muove dalla considerazione che la parziale “scadenza” dell'opzione politico-criminale dell'art. 579 c.p. (come per l'art. 580) non impedisce una rilettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata della disposizione. «Se è ben vero, cioè, che il legislatore del 1930, mediante la norma incriminatrice di cui all'art. 579 c.p., intendeva tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile anche in funzione dell'interesse che lo Stato riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini, non è però affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di tutela della norma alla luce del mutato quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi». Oggi, pertanto, l'art. 579 c.p. è da considerare una disposizione che tutela «il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall'art. 2 Cost. (sentenza n. 35/1997), nonché, in modo esplicito, dall'art. 2» della CEDU, il «primo dei diritti inviolabili dell'uomo, in quanto presupposto per l'esercizio di tutti gli altri» (sentenza n. 223/1996), che corrisponde al dovere di tutela dello stato e «non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all'individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire». Il «cardinale rilievo del valore della vita», pur non potendo tradursi in un dovere di vivere a tutti i costi, neppure legittima una disciplina delle scelte di fine vita che, «in nome di una concezione astratta dell'autonomia individuale», ignori «le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite».

Sottoponendo questa premessa al setaccio della necessaria convivenza di una «pluralità di rilevanti interessi costituzionali», cui dev'essere assicurato un «livello minimo di tutela legislativa» (n. 45/2005), la Corte conclude che, rispetto al «bene della vita umana», la «libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela», risultando, «al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento» che sia garantito un grado di protezione, non eliminabile per via referendaria.

Negli scritti difensivi del Comitato promotore del Referendum si legge che l'esito abrogativo farebbe venir meno il divieto assoluto dell'eutanasia consentendola entro il duplice limite dei requisiti indicati dalle pronunce nn. 207/2018 e 242/2019 edelle “forme” previste dalla l. n. 219/2017 in materia di consenso informato. La Corte, tuttavia, non ha accolto questa replica rilevando che l'esito del quesito sarebbe stato semplicemente la parziale abrogazione dell'art. 579 c.p., senza alcun collegamento con le indicazioni della giurisprudenza costituzionale né con la disciplina del consenso informato. Nel caso di raggiungimento del quorum e prevalenza dei “si” la disciplina dell'art. 50 c.p. si sarebbe estesa senz'altro a qualunque manifestazione, esplicita o implicita, di volontà etero-suicidaria immune da violenza, minaccia, suggestione o inganno, resa da una persona maggiorenne, non inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti.

Considerazioni conclusive

Senza dubbio non era iscritta nel “fine intrinseco” del quesito referendario l'applicazione dei requisiti della sentenza n. 242 del 2019 e del consenso “proceduralizzato” previsto dalla l. n. 219/2017 che, per un verso, restava circoscritta nel propositum promotori, per l'altro, semmai identificava le coordinate di un eventuale (e plausibile) intervento legislativo.

Compete agli studiosi del diritto costituzionale valutare se nella frammentata e difficilmente decifrabile giurisprudenza della Consulta sul vaglio di ammissibilità ex art. 75 Cost. sarebbe stato possibile individuare un precedente che consentisse di valorizzare queste prospettive “ricostruttive” del comitato promotore. Certo è che la dottrina dei limiti impliciti ha introdotto dei parametri di valutazione di pura creazione giurisprudenziale, forse necessari, ma di gestione non agevole, soprattutto, da quando si è affermato il ricorso ai referendum cd. “manipolativi”, dove lo switch “SI-NO” ha perso l'originario carattere di out/out dissolvendosi nella ben più sfumata alternativa tra discipline – quella in vigore e quella risultante dal quesito – tra loro (ovvio) differenti ma non seccamente contrapposte, com'era stato in occasione dei primi referendum su divorzio e aborto.

È altrettanto estraneo alla “cassetta degli attrezzi” del penalista il know how per valutare se – come pure è stato proposto – a favore del quesito referendario si dovessero considerare l'ostinato inadempimento del legislatore e l'irragionevole disallineamento tra i delitti degli artt. 579 e 580 c.p. instauratosi in seguito alla sentenza n. 242/2019, in corrispondenza alla ancora più irragionevole disparità di trattamento tra paziente in grado di auto-somministrarsi il farmaco letale e paziente del tutto incapace di compiere tale gesto: l'uno che, alle condizioni dettate dalla Consulta, può essere aiutato a morire, l'altro che, invece, non può consentire ad un terzo di fare ciò che da sé non è in grado di compiere. È comunque evidente che la Corte non ha dato seguito alla sollecitazione che la drammaticità di questa situazione, associata alla manifesta incapacità del Parlamento di proteggere i cd. “diritti infelici”, avrebbe consentito un'ulteriore modulazione dei requisiti di ammissibilità del referendum, magari introducendo nel giudizio di bilanciamento tra i valori coinvolti dal quesito anche la considerazione del vulnus costituzionale insito nella disciplina destinata ad essere incisa dalla consultazione popolare.

Lo studioso del diritto penale può osservare, tuttavia, che la vittoria del Sì avrebbe risolto questa contraddizione ma, allo stesso tempo, ne avrebbe innescata una speculare. L'ambito di applicazione della fattispecie meno grave dell'art. 580 c.p. sarebbe risultato più esteso di quello previsto dalla fattispecie più grave dell'art. 579 c.p.: l'aiuto al suicidio sarebbe rimasto scriminato solo ricorrendo le condizioni della sentenza n. 242/2019 mentre l'omicidio del consenziente sarebbe stato “depenalizzato”, salvo che nei tre casi di volontà non valida già previste dalla medesima disposizione. Questa palese incongruenza ha indotto la letteratura penalistica a rilevare che sarebbe stato opportuno che il quesito referendario coinvolgesse anche la disposizione sull'aiuto al suicidio. In realtà, la formulazione dell'art. 580 c.p. complicava l'intervento manipolativo. I due commi del testo in vigore prevedono che: «Chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni»; «Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell'articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d'intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all'omicidio». Un ipotetico quesito, volto a rendere parallele le due incriminazioni degli artt. 579 e 580 c.p., avrebbe potuto – rectius dovuto (arduo ipotizzare alternative) – essere formulato come segue: «Chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito … con la reclusione da cinque a dodici anni … se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell'articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d'intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all'omicidio». Difficile sarebbe stato giustificare l'eliminazione della punibilità per il caso del suicidio tentato, causativo di lesioni gravi o gravissime, soprattutto, in rapporto alla ipotizzata ri-perimetrazione della fattispecie limitatamente alle condotte di assistenza o agevolazione più gravi. Al di là di queste rilevanti criticità intrinseche, è piuttosto evidente che l'estensione dell'iniziativa referendaria all'art. 580 c.p. (pur plausibile in rapporto all'art. 579 c.p.), sarebbe stata tatticamente deleteria perché avrebbe posto la Corte – come dire – con le spalle al muro. Per ammettere la consultazione su questa disposizione, nei termini appena accennati, la Consulta sarebbe stata costretta a smentire platealmente sé stessa nel giro di meno di due anni.

È plausibile, peraltro, l'ipotesi che all'uniformazione della disciplina delle due incriminazioni si sarebbe potuto pervenire per altra via. Se la consultazione avesse avuto successo, sarebbe stato possibile far valere anche nei confronti dell'art. 580 c.p. la parziale abrogazione dell'art. 579 c.p. prefigurata dal quesito referendario, evidenziando gli effetti a cascata sull'art. 50 c.p. del risultato referendario. Esclusa la punibilità dell'omicidio del consenziente si sarebbe potuto (dovuto?) riconoscere che il diritto alla vita è validamente disponibile dal titolare. È proprio in questa prospettiva che si delinea la vera posta in gioco del quesito non ammesso dalla Consulta che non era tanto l'omicidio del consenziente quanto il consenso all'omicidio, senza alcun limite, al di fuori delle condizioni indicate dallo stesso art. 579 c.p. e, quindi, forse in termini persino più ampli rispetto a quelli dell'art. 50 c.p.

Nelle difese dei promotori dei referendum è stata più volte accennata l'infondatezza del timore che, nelle situazioni di incertezza sull'esistenza dell'”autorizzazione” della vittima, l'autore della condotta etero-suicidaria potesse essere assolto. Il senso di queste considerazioni non era certo di contraddire la formula BARD né di vellicare valutazioni in dubio pro vita (e contra reum). Solo si prospettava – una prospettazione ragionevole – che i criteri di valutazione, tutt'altro che laschi della giurisprudenza sull'art. 579 c.p., sarebbero divenuti ancora più severi nella valutazione del consenso scriminante introdotto dal risultato referendario. Difficile dire quanto auspicabile, l'eventuale (semi)abrogazione giurisprudenziale del risultato abrogativo del referendum si sarebbe, comunque, scontrata con il dispositivo dell'art. 530 comma 3, c.p. Diritto vivente a parte, se il referendum fosse stato approvato l'oggettiva incertezza circa l'esistenza del consenso della “vittima” avrebbe escluso la punibilità dell'agente, mentre nella disciplina vigente il dubbio sul consenso della vittima incide sulla veste giuridica del fatto e sulla cornice edittale, consentendo la derubricazione dell'art. 575 c.p. sub art. 579 c.p. (salvi l'escursione, in senso opposto, nel caso in cui l'autore ignori che la vittima era “consenziente” e il ruolo del dubbio stesso in relazione al dolo).

Ma la conseguenza forse più allarmante del successo della consultazione popolare sull'art. 579 c.p. sarebbe stato il simultaneo “collasso” della categoria dei diritti indisponibili e del limite della dignità personale alla disponibilità delle medesime fondamentali posizioni giuridiche. Una volta che si fosse riconosciuto che la (valida) volontà del titolare consente ad altri la soppressione della vita, come si sarebbe potuto potrebbe escludere che lo stesso esercizio di autodeterminazione consente ad altri (rispetto al titolare) di porre in essere, senza alcun freno, azioni radicalmente lesive (per esempio) dell'integrità fisica, della libertà personale, della libertà sessuale (che dal diritto alla vita traggono la linfa vitale)? Certo, dinanzi ad un quadro così fosco, è ragionevole prevedere che la sollecitazione al legislatore sarebbe stata irresistibile. Forse lo strappo al tessuto dei diritti fondamentali sarebbe stato di breve durata: un prezzo simbolicamente elevato ma un costo tutto sommato non sproporzionato rispetto al risultato dell'approvazione – altrimenti impossibile? – di una (indifferibile) disciplina del fine vita. Questo è stato il “vero” obiettivo di gran parte dei promotori e dei sostenitori del referendum. Si tratta, tuttavia, di un terreno di analisi di carattere spiccatamente politico che non poteva e, in ogni caso, doveva essere percorso dal giudizio di ammissibilità (nella speranza che il Parlamento smentisca il pessimismo dell'esperienza che l'opportunismo elusivo degli ultimi anni, purtroppo, giustifica e alimenta).

Guida all'approfondimento
  • R. Bartoli, Le problematiche del fine vita tra orientamenti della Corte costituzionale e proposta di referendum abrogativo, in www.sistemapenale.it (22 novembre 2021);
  • G. Losappio, “Fine vita e “diritto vivente” dal caso Englaro a quello Trentini”, in “Scelte tragiche”, Atti del III convegno “Medicina e diritto penale”, Taranto, 11 dicembre 2020, a cura di Id., in Quaderni del Dipartimento Jonico, Taranto, 2021, pp. 258-271;
  • T. Padovani, Note circa il referendum sull'art. 579 c.p. e la portata sistematica della sua approvazione, in www.giurisprudenzapenale.it (12 luglio 2021);
  • L. Risicato, Il diritto di morire tra cuore e ragione. Riflessioni postume sul quesito referendario, in www.discrimen.it (27 marzo 2022);
  • M. Romano, Eutanasia legale e referendum: le ragioni dell'inammissibilità, in www.sistemapenale.it (22 novembre 2021).

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