Obbligo di informazioni sul follow up del chirurgo dopo l’asportazione di un tumore
01 Giugno 2022
Massima
Il medico chirurgo è responsabile - in prima persona e quale dipendente della struttura sanitaria vincolata al contratto di spedalità - del danno da perdita di chances di sopravvivenza del paziente, qualora successivamente all'intervento per l'asportazione di un tumore (nel caso di specie un melanoma) non abbia fornito le informazioni per il doveroso follow up, che, se seguite, avrebbero potuto evitare il decesso del paziente per la comparsa di metastasi o comunque consentito la loro diagnosi precoce, e non può invocare a sua discolpa la (co)responsabilità di altri professionisti. Il caso
A seguito di una diagnosi di melanoma, il paziente nel 1985 veniva sottoposto ad un intervento chirurgico, nel corso del quale si procedeva all'asportazione di una lesione cutanea cupoliforme sospetta, localizzata sul dorso sottoscapolare sinistro, cui però non seguiva né un esame istologico, né un trattamento di follow up informativo o di monitoraggio. Sta in fatto che a distanza di una decina di anni compariva un rigonfiamento ai linfonodi del cavo ascellare, ovvero una metastasi massiva da melanoma (che la CTU nel corso del giudizio ricollegava al passato intervento di escissione). E, nonostante i plurimi interventi e trattamenti succedutisi, nei due anni successivi, tale metastasi conduceva alla morte del paziente. Per conseguenza, il coniuge ed i figli conviventi del congiunto deceduto evocavano a giudizio l'azienda sanitaria e il chirurgo, che aveva effettuato l'intervento nel 1985, per ottenere il risarcimento di tutti i danni, anche non patrimoniali, "iure proprio" e "iure hereditatis", correlati alla morte del congiunto, eccependo l'inadeguatezza della tecnica operatoria adottata nel 1985 e sostenendo che un adeguato monitoraggio post operatorio e negli anni successivi avrebbe potuto aumentare le chance di sopravvivenza. Il Tribunale di Pisa accoglieva la domanda attorea e condannava la struttura e il sanitario al risarcimento integrale dei danni subiti, liquidando il danno da perdita di chances di sopravvivenza nella misura del 100%. La Corte di Appello di Firenze, cui la struttura e il sanitario ricorrevano, riformava parzialmente la sentenza di primo grado. In particolare, disposta una nuova consulenza tecnica, all'esito: a) escludeva che la pur riscontrata inadeguatezza della tecnica operatoria adottata nel 1985 (per insufficienza dei margini di escissione, e difetto di successiva radicalizzazione), avesse prodotto effetti apprezzabili, tenuto conto delle mancate recidive locali; b) affermava la rilevanza causale del mancato follow up; c) riconosceva il danno da perdita di "chances" di sopravvivenza, sussistendo il nesso causale, in termini di “altissima probabilità”, con la preclusione delle individuate “possibilità di sopravvivenza” liquidandolo in misura inferiore rispetto al giudice di prime cure, ovvero operando una “riduzione equitativa di un terzo dell'importo liquidato [dal giudice di prime cure] riferendosi alla "posta integrale" della perdita, in proprio, del rapporto parentale, ovvero dell'invalidità, risarcita a titolo ereditario, e così pure, infine, del danno patrimoniale rappresentato dalla perdita delle utilità economiche che sarebbero state apportate …” , “proprio perché non sta[va] risarcendo l'evento morte bensì la perdita delle possibilità di evitarla” (stando a quanto riportato, in sintesi, nella sentenza in esame). Avverso la sentenza di appello proponevano ricorso principale i familiari del congiunto deceduto (non condividendo il criterio utilizzato dal Giudice di appello nella determinazione del risarcimento da perdita di chances) e incidentale il chirurgo che aveva effettuato l'intervento del 1985 (il quale contestava che tra i suoi obblighi rientrasse anche quello di informare il paziente sul follow up, atteso che tale compito spettava, a suo dire, ad altro professionista). La questione
Configurato il danno subito dal paziente, in termini di danno da perdita di chances di sopravvivenza a seguito del mancato follow up, la questione principale proposta alla Corte sostanzialmente è se l'attività del medico chirurgo deve limitarsi all'intervento di cui risulta essere stato incaricato o se invece sia più corretto ritenersi estesa alle informazioni per il doveroso "follow up" prescritto dai protocolli ovvero ritenuto corretto dalla comunità scientifica in relazione alla specificità del caso concreto.
Ovvero premesso che il medico chirurgo ha il dovere di informare il paziente prima dell'intervento, sin dalla fase degli accertamenti diagnostici prodromici all'operazione (v. Cass. 19 marzo 2018 n. 6688), per non violare il diritto all'autodeterminazione (v. Cass. 4 novembre 2020 n. 24471), e che tale obbligo grava su ogni componente dell'equipe medica (Cass. 29 gennaio 2018 n. 2060), il problema posto all'attenzione della S.C. è se questo dovere di informativa spetti o meno al chirurgo che ha eseguito l'intervento, sebbene sia logico prevedere che il paziente sia affidato alle cure di un oncologo, che ha appunto il compito di monitorare il paziente negli anni successivi al fine di prevenire recidive o metastasi. Le soluzioni giuridiche
La S. C. rigetta entrambi i ricorsi. In motivazione, ritiene inammissibili e in parte infondati il secondo e terzo motivo del ricorso principale, in quanto condivide l'iter logico e motivazionale della Corte di Appello: “a mente dell'accertamento dei fatti, effettuato dal giudice di merito nell'ambito del sindacato allo stesso riservato, proseguendo i controlli dopo i dieci anni dal trattamento chirurgico del 1985 - al cui arco temporale, come sottolinea, si ripete, il medesimo ricorso menzionando la consulenza officiosa, si riferiva la percentuale di probabile sopravvivenza prossima ma comunque non corrispondente al 100% - si sarebbero potute individuare tempestivamente evoluzioni patogene purtroppo intervenute, diagnosticate invece solo nel 1997, due anni prima del decesso, a fronte delle quali, in quel momento, la percentuale di sopravvivenza sarebbe stata del 59-78% a cinque anni; questo "iter" ricostruttivo" non sconta quindi contraddittorietà; né sconta gli omessi esami ipotizzati dalla difesa dei deducenti secondo cui, come anticipato, la conclusione della Corte territoriale sarebbe stata condivisibile solo se fosse stato eseguito un più corretto intervento chirurgico di allargamento della exeresi, che avrebbe dovuto indurre ad aggiungere, a quel 58-79% di probabilità di sopravvivenza, un'ulteriore percentuale; si tratta di una diversa prospettazione ricostruttiva fattuale – non scrutinabile in questa sede di legittimità”.
Ritiene infondati anche i motivi del ricorso incidentale, in quanto, anche in questo caso, condivide l'impostazione della Corte che, dopo aver “accertato in fatto … che alcuna indicazione, dunque neppure dal chirurgo, fu data al paziente … “ in ordine ai monitoraggi da eseguire successivamente all'intervento “da potersi in ipotesi bilanciare con l'esigibile collaborazione anche del paziente per la verifica dei passaggi successivi“, ha ritenuto che tale violazione sia imputabile “proprio [al] professionista che eseguì l'intervento, [che] in primo luogo [deve] per dare al paziente le necessarie informazioni e istruzioni successive, né l'eventuale corresponsabilità di altri professionisti può escludere, per una ragione prima logica che giuridica, quella del chirurgo sul punto”.
La soluzione offerta dalla S.C. è drastica: ”l'attività del medico chirurgo non può essere limitata all'intervento di cui risulta essere stato incaricato ma deve ritenersi estesa, in coerenza con la compiutezza della sua prestazione e in relazione alla correlata esigenza di tutela della salute del paziente, alle informazioni per il doveroso "follow up" prescritto dai protocolli ovvero comunque, come nel caso accertato dal giudice di merito in modo resistente alle svolte censure, fatto proprio come corretto dalla comunità scientifica in relazione alla specifica - e qui affatto trascurabile - diagnosi da melanoma effettuata nel caso concreto”.
E tale obbligo ricade su “lo stesso chirurgo, quale dipendente della struttura vincolata al contratto di spedalità, deve ritenersi appartenente, lui per primo, al collettivo dei medici tramite cui quella agisce per adempiere lo specifico impegno negoziale, senza che sia possibile sezionare, a fini di esenzione e senza sinergie funzionali alla tutela della salute, le responsabilità inerenti a quell'adempimento”. Vale la pena sin da subito osservare che la decisione (non completamente condivisa) si ispira ad un criterio di imputazione della responsabilità fondato sul c.d. contatto sociale sia per la struttura sanitaria che per il medico (secondo il sistema previgente alla legge Gelli Bianco).
Dalla lettura della sentenza, però, non è chiaro se la S. C. ripartisca la responsabilità tra il professionista e la struttura sanitaria (anche se a dire il vero sembrerebbe affermare l'esatto contrario, ovvero di attribuire la responsabilità in capo al chirurgo iure proprio ed in via esclusiva) come (invece) fa Cass. 20 ottobre 2021 n. 29001, a mente della quale “In tema di responsabilità medica, nel regime anteriore alla legge Gelli Bianco, la responsabilità della struttura sanitaria, integra, ai sensi dell'art. 1228 c.c., una fattispecie di responsabilità diretta per fatto proprio, fondata sull'elemento soggettivo dell'ausiliario, la quale trova fondamento nell'assunzione del rischio per i danni che al creditore possono derivare dall'utilizzazione di terzi nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale, e che deve essere distinta dalla responsabilità indiretta per fatto altrui, di natura oggettiva, in base alla quale l'imprenditore risponde, per i fatti dei propri dipendenti, a norma dell'art. 2049 c.c.; pertanto, nel rapporto interno tra la struttura e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest'ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., atteso che, diversamente opinando, la concessione di un diritto di regresso integrale ridurrebbe il rischio di impresa, assunto dalla struttura, al solo rischio di insolvibilità del medico convenuto con l'azione di rivalsa, e salvo che, nel relativo giudizio, la struttura dimostri, oltre alla colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno sofferto dal paziente, da un lato, la derivazione causale di quell'evento da una condotta del sanitario del tutto dissonante rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità e, dall'altro, l'evidenza di un difetto di correlate trascuratezze, da parte sua, nell'adempimento del relativo contratto, comprensive di omissioni di controlli atti ad evitare rischi dei propri incaricati“.
Con riguardo al danno da perdita di chance la Corte richiama il suo l'orientamento unanime (consolidatosi dopo le sentenze di San Martino del 2018, si allude a Cass. 11 novembre 2019, n. 28993) che ritiene la perdita di "chances" a carattere non patrimoniale consistere nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze) conseguente - secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica - alla condotta colposa del sanitario, ed integra evento di danno risarcibile, da liquidare in via equitativa, quando la "possibilità perduta" sia apprezzabile, seria e consistente (v. Cass. 11 novembre 2019, n. 28993; Cass. 9 marzo 2018 n. 5641). Tenuto conto che l'attività del giudice deve coerentemente tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell'evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell'una e distintamente dell'altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra condotta ed evento, procedendo, poi, all'identificazione dell'evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula un'incertezza del risultato sperato, e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è possibile discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno (Cass., 26 giugno 2020, n. 12906; Cass. 9 marzo 2018 n. 5641).
Con riguardo alla responsabilità del singolo medico dell'equipe la S.C. in più occasioni ha affermato che l'obbligo di diligenza che grava su ciascun componente e concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate (Cass. 29 gennaio 2018 n. 2060). Aspetto non scrutinato dalla S.C. è quello che attiene al danno da colpevole ritardo nella diagnosi di patologie ad esito infausto, oggetto di attenzione di Cass. 15 aprile 2019 n. 10424, nella quale si sostiene che “l'area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, né nella perdita di chance di guarigione, ma include la perdita di un ventaglio di opzioni con le quali scegliere come affrontare l'ultimo tratto del proprio percorso di vita, che determina la lesione di un bene reale, certo - sul piano sostanziale - ed effettivo, apprezzabile con immediatezza, qual è il diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali; in tale prospettiva, il diritto di autodeterminarsi riceve positivo riconoscimento e protezione non solo mediante il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all'opposto, mediante la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche attraverso la mera accettazione della propria condizione. (Nel ribadire il principio, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito la quale aveva rigettato la domanda risarcitoria, fatta valere iure hereditatis, esclusivamente sulla base dell'assenza di prova che la ritardata diagnosi del carcinoma avesse compromesso chances di guarigione della paziente o, quantomeno, di maggiore e migliore sopravvivenza, ignorando che l'accertato negligente ritardo diagnostico aveva determinato la lesione del diritto della stessa di autodeterminarsi)”. Osservazioni
La soluzione adottata dalla S.C., con riguardo alla questione principale affrontata, non appare pienamente condivisibile, perché amplia oltre misura il perimetro del danno risarcibile da parte del chirurgo, attribuendogli una responsabilità per fatto altrui, che di fatto rende oggettiva la responsabilità del chirurgo. Estendendo così il concetto di equipe a tutti i “sanitari tramite cui l'azienda incaricata avrebbe dovuto dare séguito alla propria obbligazione negoziale”. Se con riguardo alla contestata omissione dell'esame istologico può riconoscersi una negligenza da parte del chirurgo, atteso che tale esame è un logico corollario dell'intervento di asportazione delle cellule tumorali ed è logico che debba precederlo o seguirlo (cfr. Cass. 2 dicembre 1998, n. 12233).
Lo stesso non può dirsi con riguardo all'omesso follow up che, sebbene anch'esso corollario dell'intervento, è di competenza dell'oncologo, soggetto, il più delle volte, esterno alla struttura sanitaria (come nel caso di specie) ed estraneo all'equipe medica che effettua l'intervento; che interviene a seguire il paziente nella fase successiva all'intervento (che nelle patologie tumorali dura anni). E pur volendo rimanere nel perimetro del contratto di spedalità - invocato dalla S.C. a fondamento della responsabilità - nella vigenza della legge Gelli Bianco, si ritiene che il mancato follow up informativo o di monitoraggio possa rappresentare una fonte di obbligazione solo con riguardo alla responsabilità omissiva della struttura sanitaria, che non ha consegnato o dimesso il paziente con la prescritta informativa di follow up.
Sebbene non esistesse all'epoca del fatto un protocollo specifico (inteso come “un predefinito schema di comportamento diagnostico-terapeutico… [ovvero] una sequenza di comportamenti assai ben definiti come occorre, ad esempio, all'interno di un programma di ricerca clinica” , in tal senso E. TERROSI VAGNOLI, Le linee guida per la pratica clinica, in Riv. it. med. leg., 1999, 194) sul follow up da seguire, v'è tuttavia da chiedersi se l'obbligazione del chirurgo, più che nel contratto di spedalità, non trovi la sua fonte nelle regole deontologiche, atteso che il medico deve operare al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e di prevenire e gestire il rischio clinico. Per rispondere affermativamente a questa domanda, però, è necessario riconoscere una rilevanza esterna e cautelare alle regole deontologiche, tale da originare per il professionista un obbligo risarcitorio in caso di loro inosservanza.
Mette conto osservare che, sebbene, le regole deontologiche – definibili come le regole di cui la categoria professionale si dota per disciplinare, anche da un punto di vista etico, l'esercizio dell'attività sanitaria – non nascono, in linea di massima, con una natura cautelare né con un rilievo esterno rispetto alle categorie interessate; nel tempo, però, la loro efficacia si è ampliata (anche se non risultano ancora risolti i problemi relativi al loro inquadramento teorico), tanto da ricomprendere anche tale funzione. Vi sono infatti casi ai quali la dottrina attribuisce valore contrattuale o consuetudinario alla norma deontologica. E, quando il codice deontologico è espressamente richiamato dalla legge, la regola può assumere la qualità di fonte integrativa della norma di legge che consente di dedurre il vizio di violazione di legge davanti al giudice di legittimità (si veda, in questo senso, in relazione al codice deontologico forense, Cass., sez. un., 20 dicembre 2007 n. 26810, che supera il precedente contrario orientamento delle medesime sezioni unite civili del 10 luglio 2003 n. 10842).
Esistono anche casi inversi nei quali la regola deontologica può essere, almeno in parte, diversa da quella stabilita in generale da una fonte normativa, si pensi alla diversa disciplina che i codici deontologici di talune professioni riservano alla concorrenza o alla pubblicità rispetto alle regole ordinarie che riguardano le altre attività economiche o professionali. Nel caso della deontologia medica la specificità di questa professione, diretta alla salvaguardia della salute del paziente, fa sì, di fatto, che i codici che disciplinano questo aspetto, sono ricchi di regole a natura cautelare che dunque non possono non avere rilevanza anche esterna in termini di responsabilità. Si è sottolineato in dottrina, infatti, come le norme della deontologia medica abbiano superato la “tradizionale connotazione corporativistica” per rivolgersi decisamente “all'attuazione di finalità di interesse pubblico, pertinenti alla protezione del bene – costituzionalmente rilevante – della salute del malato” (v. G. IADECOLA, Le norme della deontologia medica: rilevanza giuridica ed autonomia di disciplina, in Riv. it. med. leg., 2007, 551). Per esempio il codice di deontologia medica approvato il 16 dicembre 2006 dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri prevede varie regole che hanno natura cautelare: basti richiamare, per averne conferma, gli artt. 13 (accertamenti diagnostici e trattamenti terapeutici) e 14 (sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico). Queste norme, sia pure in termini estremamente generali (come è ovvio), indicano linee di condotta idonee a salvaguardare la salute del paziente quali la necessità che il medico si ispiri “ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche”, acquisisca “una adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e delle reazioni individuali prevedibili”; fa divieto di adottare e diffondere terapie e presidi diagnostici “non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione e documentazione clinico-scientifica”. In sintesi, prevede che il medico operi al fine “di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente” e di prevenire e gestire il rischio clinico; nel caso di evento avverso impone al medico di mettere in atto “i comportamenti necessari per evitarne la ripetizione” (regole tratte dal codice deontologico).
Ma anche in settori diversi dalla responsabilità medica è stata riconosciuta la rilevanza esterna delle norme contenute nei codici deontologici. In altri termini, pur a voler ritenere, il chirurgo corresponsabile dell'omessa informativa sul trattamento da seguire a seguito dell'intervento di asportazione di una lesione cutanea cupoliforme sospetta, sarebbe stato più corretto invocare la violazione di una norma deontologica, riconoscendo ad essa una rilevanza esterna. Riferimenti
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